TRENCHES

Trenches 

 

Ho accolto con grande entusiasmo l’invito dell’amico (e Direttore Responsabile di BetaPress.it) Corrado Faletti di dare un mio personale giudizio al primo lavoro degli STOLEN APPLE: “Trenches”.

 

E lo ringrazio pubblicamente per avermi fatto scoprire questo progetto che è arrivato come una boccata d’aria fresca! Prima di ricevere il cd da parte dell’Ufficio Stampa della band mi sono informato ed ho letto “di-tutto-e-di-più” sugli STOLEN APPLE, ho ascoltato alcuni dei brani di “Trenches” disponibili nelle pagine web ma ho voluto pronunciarmi solo dopo aver studiato il disco a fondo.

“Trenches” è una “promessa”, un progetto poliedrico, un disco torrenziale che (per fortuna!) non è inquadrabile in generi conosciuti anche se il flusso che attraversa le dodici “tracks” è imbottito di molteplici contaminazioni. Il disco della band fiorentina ha un corpo innovativo che già al primo ascolto disegna perfettamente gli ambiti della scrittura e della ricerca sonora, un disco autentico, genuino, senza fronzoli, che arriva subito al cuore (questo il grande merito di “Trenches”: far vibrare il cuore! N.d.a.).

Dal punto di vista tecnico il disco è suonato tutto di un fiato, “così com’è” (e come deve essere!) ed ogni brano mantiene una sua identità che lascia fuori dalla porta “diavolerie elettroniche” e fastidiose “overdubs” (“sovraincisioni” utilizzate spesso in modo esasperato da inetti “artisti mediatici”; n.d.a.).

I registri utilizzati sono molteplici: si passa da momenti grintosi ad altri più rarefatti ma sempre ricchi di tensione e drammaticità.

Dissonanze armoniche che mi hanno lasciato con il fiato sospeso, con gli occhi sbarrati e soprattutto con le orecchie tese.

“Trenches” è un progetto straordinario che costringe a cambiare rotta, è una lampada che ha riacceso in me luci del passato che erano spente.

L’apporto dei singoli membri degli STOLEN APPLE ha un peso specifico rilevante nel disegno globale di “Trenches”: Riccardo Dugini (voce e chitarre), Luca Petrarchi (voce, chitarre, mellotron, organo e synth), Massimiliano Zatini (voce, basso e armonica), Alessandro Pagani (voce, batteria, piano e percussioni) sono il contesto florido di tecnica ed idee che ha potuto dare vita ad un lavoro sperimentale mai scontato che affascina per la fattezza dei brani.

Il primo brano a colpire per immediatezza, forse il più orecchiabile ed accessibile, è “Red Line”: la vera promessa di tutto l’album!

La traccia nr. 2 “Green Down” è una canzone che ogni musicista dovrebbe avere nel suo iPod, una song che se ne sbatte dei “canoni radiofonici” portando all’estremo le chitarre con il solo che prima grida, poi invoca ed infine sussurra: spettacolo! “Fields of Stone” un capolavoro: intima e… Grunge! Avrei voluto sentirne una mezza dozzina come “Fields of Stone”! La psichedelia di “Pavement” è stilisticamente fascinosa e ricorda i RADIOHEAD di “OK Computer”.

L’incessante martellato soft-punk di “Falling Grace” sembra essere nato dalla penna del compianto Joe Strummer (Ankara, 21 agosto 1952Broomfield, 22 dicembre 2002, storico leader dei CLASH; n.d.a.).

In “Falling Grace” quel “All my friends my friends are gone, my friends are gone, my friends are gone” è stato come uno squarcio, forse l’apice dei bellissimi testi dell’album. E poi “Living on Saturday” che mi ha fatto balzare alla mente “The Joshua Three” degli U2, l’attraente ballata “Mystery Town” e la limpida “Something in my Days”.

Segue al posto nr. 9 “More Skin”, forse l’unica vera pop-song dell’album. “Daydream” ha la sofficità di un piumone, “Sold Out” è un concentrato di Brit-Pop, Punk e New Wave ed infine la ballata “In the Twilight” che con la sua dolce melodia chiude l’album.

Caro lettore l’intensità di questo disco è qualcosa che si fa fatica a descrivere, ogni traccia è stata un’emozione, un frammento di ricordo, memorie di casa, flashback di gioia e malinconia e ricordi che sono riaffiorati dal passato.

Questo è “Trenches”: un’inaspettata promessa che gli STOLEN APPLE hanno mantenuto!

 

 

 

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Confronto tra la scuola e i giovani nativi digitali

La denuncia di questi giorni di 600 professori sulla incapacità di tanti laureandi che non conoscono le regole base della lingua italiana, mi fa riflettere sul percorso formativo di questi giovani.

 

Come è possibile che questi giovani siano riusciti ad arrivare fino alla laurea con queste profonde lacune.

A mio parere i professori devono un po’ fare un “mea culpa” sul permissivismo scolastico degli ultimi venti anni che ha prodotto e produce una cultura mediocre.

I problemi della scuola non sono stati risolti da una “finta” apertura alla scolarizzazione di massa, anche con l’avvento di nuove tecnologie che invece di aiutare una maggiore evoluzione delle menti, stanno producendo un nichilismo preoccupante, giovani che conoscono a menadito un computer ma non riescono a coniugare correttamente il soggetto, predicato e complemento.

E’ vero che la scuola non ha fornito i frutti che si speravano, la causa, però, dev’essere ricercata nella mancata attuazione  di nuovi metodi di insegnamento, al mancato passaggio generazionale dei valori fondamentali di una società, alla mancata attuazione di nuovi metodi di insegnamento.

Oggi i giovani possono avvalersi di strumenti potentissimi eppure hanno una ignoranza disarmante, un Cartesio qualsiasi ne sapeva infinitamente di più di qualsiasi studente di oggi, capisco che sono al confine di un assurdo, non è un paradosso visto  che lo dicono i famosi 600 professori.

Di certo i “professori” devono stare molto attenti a  lamentarsi, perché le carenze maggiori sono nel sistema scolastico, infatti chi ne esce si trova sprovvisto delle più elementari nozioni che riguardano la vita sociale e il lavoro che, al contrario, richiede oggi sempre più una notevole precisione nelle attività e nel dialogo tra le persone, e non sto parlando dei social.

Gli studenti di oggi non sanno scrivere perché non hanno cultura, scrivono come zombi usando l’italiano con una approssimazione irritante.

Eppure la lingua è, se non l’unico, il principale e insostituibile mezzo di comunicazione.

Non so se i giovani d’oggi, oltre ad essere i maghi nell’uso delle tecnologie digitali, sanno che ciò che distingueva Leopardi da un qualsiasi altro individuo, rimasto anonimo nella sua epoca, era la  sua capacità di definire ciò che provava in termini ben precisi e reali: un linguaggio corretto, ricco ed efficace con cui avvolgeva la sua arte poetica. Cari professori, ammettiamolo, questa capacità linguistica manca alla maggior parte degli italiani, la cui povertà delle regole linguistiche è un difetto ben noto e socialmente disastroso.

Basta pensare ai discorsi indecifrabili della maggior parte dei politici che , ironia della sorte, dovrebbero occuparsi della “ buona scuola”.

Ma chi sono questi giovani “nativi digitali” del 4.0?

Coloro che nascono e vivono in simbiosi  con le  nuove tecnologie; che si confrontano in un dialogo virtuale privo di contatti con gli altri; influenzati facilmente dall’ideologia  e dalla visione della vita e della società che i mezzi di comunicazione di massa inculcano quotidianamente, impedendo o rallentando d’altronde una adeguata presa di coscienza della realtà effettiva.

Proviamo, per un attimo, a riflettere.

Quando i giovani sbagliano gli adulti si devono interrogare sul “come” e “perché”!

Gli adulti e gli insegnanti di oggi si devono appropriare del loro ruolo di educatori !

L’ignoranza  dei giovani d’oggi è unicamente il fallimento della generazione precedente   nel suo ruolo di genitori e insegnanti!

Io non sono immune da questa responsabilità ma almeno cerco di capire…

 




WHAT’S YOUR FAVORITE COLOUR?

WHAT’S YOUR FAVORITE COLOUR?

 

Mi sono laureato in Antropologia con una tesi in paleontologia umana pubblicata in varie riviste del settore e non ho mai provato imbarazzo nell’uso della parola “negro”.

Purtroppo negli ultimi secoli i cugini d’oltralpe e più in su gli snob “cockney” hanno dato a questo termine, che in sé non ha nulla di offensivo, un significato dispregiativo.

Per quanto ai nostri giorni il “politicamente corretto” possa negarlo, nel genere umano esistono razze, sottorazze ed etnie con palesi e meravigliose differenze fisiche, genetiche, ambientali ed infine anche culturali.

Genotipo (corredo genetico di un individuo) e fenotipo (insieme dei caratteri che un individuo manifesta) hanno “lavorato” nei millenni identificando la subspecie (o razza) del Genere “Homo” e della Specie “Homo Sapiens” che si declina in: caucasoide, mongoloide, amerindioide, australoide ed appunto negroide!

Caro lettore arrivo al punto, non preoccuparti, non hai sbagliato Rubrica di BetaPress.it… sei su MUSIC!

Con questa premessa però ti voglio parlare di una delle band più innovative degli ultimi vent’anni: i LIVING COLOUR!

Quattro straordinari musicisti negri responsabili di una delle più incisive rivoluzioni della musica rock degli ultimi vent’anni: Corey Glover alla voce, Vernon Reid alla chitarra, Muzz Skillings, poi sostituito da Doug Wimbish, al basso e Will Calhoun alla batteria. Formatisi alla fine degli anni 80 per volere di Vernon Reid, i LIVING COLOUR segnano sin dal primo album “Vivid” del 1988 (da ascoltare assolutamente la prima traccia “Cult of Personality” e la brevissima “What’s Your Favorite Color?”) la nascita di una nuova deriva del rock pesante.

Una combinazione esplosiva di diversi generi (Hip-Hop, Funk, Hard Rock) che ha catechizzato band del calibro di FAITH NO MORE, KORN, RAGE AGAINST THE MACHINE, SEVENDUST etc.

Il secondo album “Time’s Up” del 1990 (imperdibile “Love Rears Its Ugly Head“) conferma il grandissimo spessore tecnico ed artistico della band neyorkese ma la consacrazione definitiva è “Stain” del 1993 dove, a mio avviso, c’è uno dei capolavori indiscussi di tutta la musica Hard Rock del ventesimo (e ventunesimo: n.d.a.) secolo: “Leave it Alone”.

A causa di screzi interni la band si scioglie nel 1995 e bisognerà attendere quasi 10 anni per la pubblicazione di “Collideøscope” che lancia il gruppo verso un nuovo corso artistico senza tralasciare però le origini. L’album contiene due cover: “Back in Black” degli AC/DC e “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, degne di nota “Flying” ed “In Your Name”.

Nel 2009 esce “The Chair in the Doorway” dove l’anima jazz e blues di Reid e del “pacchetto” Wimbish-Calhoun emergono con il supporto del soul di Glover. Infine l’atteso EP “Mixtape”, uscito il 9 settembre dello scorso anno che contiene una personale versione di “Who Shot Ya” di Notorius B.I.G. ed alcuni remix della stessa (l’EP prende ispirazione dal dilagare della violenza tramite l’uso di armi da fuoco e verso le persone di colore da parte della polizia americana; n.d.a.).

Ho seguito i LIVING COLOUR sin dagli inizi, li ho visti dal vivo due volte, ho seguito perfino un live “estremo”  denominato “Suoni dallo Spazio” dove Reid, durante la pausa solista, si cimentava in manipolazioni di effetti sonori di ogni sorta e vi assicuro che è difficile vedere ancor oggi uno show così “micidiale”.

Amo questi quattro straordinari musicisti ne(g)ri che hanno modificato lo sterile assunto di derivazione “white trash” e cioè che per essere una Hard Rock Band bisogna essere necessariamente bianchi!

E allora… what your favorite color? LIVING COLOUR!

 

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