La filastrocca del Vicepreside

Il Vicepreside.

Ad ogni grado corrisponde un determinato ruolo, ad eccezione del Vicepreside.

Il Vicepreside è quella figura che lavora a prescindere se gli compete o meno.

Il Vicepreside è quella figura che dell’anzianità ne fa un proprio e invidiabile titolo di studio.

Il Vicepreside è quella figura chiamata sempre a spegnere focolai dove l’inesperienza e la sapienza creano disagi e dissapori.

Il Vicepreside è una sorta di ancora di salvezza per ognuno che ne chiede consiglio, a lui basta una parola o una telefonata per risolvere tutto.

Il Vicepreside sostituisce il Dirigente, ma il Dirigente non può sostituire il Vicepreside, il Vicepreside gestisce tutti i beni, ma tutti i beni non fanno un Vicepreside, il Vicepreside non sgrida i sottoposti, ma tutti possono sgridare il Vicepreside, si, perché il Vicepreside è stato abituato ad essere sgridato, gli altri no.

Essere Vicepreside è più complesso di quanto potrebbe intendersi, essere Vicepreside obbliga a comportarti sempre in un certo modo, non gli è concesso sbagliare, non gli è concesso fermarsi, non gli è più concessa voce in capitolo.

Però i doveri ad esso sono sempre attribuiti, lui vive di doveri, dopotutto il Vicepreside per gli altri ha sempre una buona parola, mentre a lui non è concessa neanche una pacca sulla spalla.

Il Vicepreside comunque ed in ogni caso, rimane quella figura che in sua assenza, ogni luogo diventa un inferno.




Gesù, hacker della comunicazione

Gesù parlava un linguaggio nuovo,sicuramente un grande esperto della comunicazione ed un innovatore culturale , in pratica potremmo chiamarlo con la terminologia attuale : un esperto hacker …

Non vorrei essere frainteso e neanche blasfemo ma riflettendo bene  l’hacker è colui che “si impegna ad affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte nei propri ambiti d’interesse”, non solo informatico.

In questa ottica, dunque, possono essere considerati hacker  tutti coloro che, ogni giorno, indipendentemente dalla loro professione, dal sesso o dalla loro età, provano ad andare più in là delle forme di conoscenza che appare agli occhi.

A differenza della religione, forse, il mondo hacker non impone l’ immaginazione di qualcosa  completamente astratto: lo sharing, l’open-source, la co-creazione, i processi creativi in crowdsourcing, figlie del Web 2.0, ne sono la prova vivente e visibile tutti i giorni sotto gli occhi di chi vive la Rete, e non solo.

Mi scappa di dire  che la Chiesa non è all’altezza del suo Fondatore perché con i suoi riti secolari e i messaggi ormai “vecchi” di amore, pace, fratellanza, povertà, castità (qualcuno non conosce nemmeno il significato di tali termini) sia lontana dalla società contemporanea, e quindi anche dalla sua espressione più evidente, i giovani, e dovrebbe attualizzarsi, rientrare nelle coordinate temporali.

Gesù storicamente  è divenuto la figura spartiacque della civiltà occidentale  e la sua umanità è stata spesso sottovalutata sia dai contestatori della religione cristiana sia dai difensori dei suoi dogmi.

La comprensione della sua persona e del suo messaggio spirituale, poi, è stata pesantemente condizionata da fattori politici ed economici, mi chiedo quanti Gesù oggi sono ancora vittime di questi due fattori.

Il termine hacker deriva dal verbo “to hack” e da qui, infatti, prende la sua duplice connotazione negativa e positiva: la prima, conosciuta ai più, è quella di colui che  colpisce con violenza” ( la mente ritorna alla cacciata dei mercanti del Tempio da parte di Gesù, la seconda invece, dietro la quale si nasconde un significato più ampio e complesso ed intorno alla quale aleggiano implicazioni etiche e filosofiche, Gesù il Messia…

Vorrei aprire una riflessione su due argomenti molto attuali:

  1. Cultura digitale cattolica

-La prima fase di studi dedicata al fenomeno ha inizio nel 1996, con la pubblicazione del primo articolo scientifico dedicato all’argomento, The Unknown God of the Internet, scritto da Stephen O’Leary e Brenda Brasher. Siamo nella seconda metà degli anni Novanta e i primi studiosi osservano internet come un nuovo spazio attraverso il quale le religioni possono  potenziare il loro messaggio oltre a esperire la propria religiosità.

– La seconda fase di studi ha inizio col nuovo millennio e ha tentato di comporre un’analisi sistematica del fenomeno, categorizzando le differenti comunità religiose apparse in rete.

– La terza e attuale fase di studio, può essere definita la “svolta teorica”. La comunità scientifica si sta infatti interrogando su come si ricostruiscano e negozino le diverse categorie religiose in rete: come si può ricreare una comunità religiosa online? Come si ricostruisce o come viene riconosciuta un’autorità religiosa sul web? Cosa viene definito sacro in rete e come può essere riprodotto un rito online? Come possono essere circoscritti tempi e spazi sacri su internet? Quali trasformazioni subisce la comunicazione religiosa in rete? Quanto può valere la celebrazione di una messa trasmessa on-line ?

Che cosa è la religione digitale?

La  mia  ricerca si concentra sul concetto di autorità nella cultura dei nuovi media. In particolare su come gruppi religiosi o individui costruiscano e rappresentino la loro autorità online e come nello specifico nuove forme di autorità o nuovi leader religiosi emergenti, possano sfidare le tradizionali istituzioni. Ci sono teologi che vogliono rendere il loro lavoro un po’ più pubblico e accessibile, i teologi blogger non fanno altro che riproporre online quella che è la loro autorità offline.

Al contrario ci sono persone che non hanno fatto il seminario, non hanno la dovuta preparazione, ma raccolgono intorno a sé persone con le quali condividono le stesse idee da discutere online.

È una pratica consentita esclusivamente dall’ambiente digitale. Ovviamente tra questi due gruppi si viene a creare tensione soprattutto su argomenti come chi ha l’autorità, i valori e la legittimità per dare certe interpretazioni in questo contesto teologico.

Internet sta cambiando il modo in cui le istituzioni religiose comunicano, ma sta cambiando anche il modo in cui le persone vivono la propria spiritualità?

Internet sta realmente potenziando l’individuo.

Nel campo della religione internet dà accesso a informazioni che un tempo si potevano avere solo frequentando il catechismo, o andando dal prete, o consultando dei libri;veicola insomma tante di quelle informazioni, che non c’è più bisogno di rivolgersi ai tradizionali intermediari.

Questo è ottimo per l’individuo, ma non per la comunità che vorrebbe mantenere i fedeli all’interno dei suoi confini e soprattutto dei confini delle sue idee. Perciò la teologia può diventare problematica, perché internet spinge a trattare tutto equamente e a muoversi in diversi posti, piuttosto che stare in uno solo.

  1. Cultura digitale diversamente cattolica

Vorrei fornire un nuovo e personale contributo che si genera dal pensiero creativo  tra il mondo cristiano e mondo hacker. Si tratta di uno sforzo nell’avvicinare due universi che, a prima vista, distano anni luce uno dall’altro, ma di qualcosa che, invece, è naturalmente presente, ma forse celato, da sempre.

Oggi l’azione pastorale non consiste  nel dare una  connotazione  digitale alla testimonianza cristiana  illudendosi che sia sufficiente adottare qualche nuovo strumento di comunicazione, qualche nuovo linguaggio per rendere l’azione pastorale più accattivante  ma si tratta piuttosto di abilitare questa cultura valorizzando la testimonianza cristiana che offre l’incontro tra la testimonianza storica di Gesù Cristo e una concreta esperienza di vita nella fraternità del suo mondo ecclesiale.

Gesù, a mio parere, era ultramoderno e digital-connesso, ciò nonostante ci ha tramandato l’insegnamento che non possiamo  vivere da soli, rinchiusi in noi stessi ma abbiamo bisogno di amare ed essere amati, abbiamo bisogno di tenerezza. Ci ha tramandato non solo la strategia di essere connessi ma l’dea della bellezza, la bontà e la verità della comunicazione.

Mi piacerebbe che i giovani usassero gli strumenti digitali per approfondire Gesù come primo hacker buono e ricercassero  nelle strade di internet la vera ragione del Suo essere  con una consapevole  riflessione sul fatto  che i social possono essere utilizzati per il bene della « comunità giovani e non solo » e non per alimentare il « Cyberfango mediadico ».

 

Salvo Esposito




Istituto Alberghiero Falcone di Gallarate: pubblicazione avviso bando gara

Istituto Superiore “Giovanni Falcone” Gallarate

BANDO DI GARA – CIG. 7218884B85

E’ indetta procedura aperta per la fornitura di generi alimentari vari di origine animale e vegetale, freschi e conservati occorrenti al servizio di ristorazione a ridotto impatto ambientale.

22 lotti importo complessivo per un triennio € 673.8000,00

Ricezione offerte 03/11/17 ore 12

Documentazione su www.isfalconegallarate.gov.it

In pubblicazione G.U.U.E. il 30/09/2017  – 2017S188-384787




Doxa: la scuola piace di più, ma gli Italiani studiano di meno…

Doxa: 9 italiani su 10 hanno un bel ricordo della scuola

A pochi giorni dalla riapertura delle scuole nel nostro Paese, la Doxa, principale ideatrice delle ricerche di mercato in Italia, ha recuperato dagli archivi una ricerca condotta ben venticinque anni fa, nel 1992, per avviarla nuovamente al fine di confrontare i risultati ottenuti in passato con quelli del presente e far luce su un tema poco discusso ma estremamente importante per ciascuno di noi: i ricordi delle esperienze vissute tra i banchi di scuola.

Attraverso questa ricerca è emerso che la maggior parte degli intervistati serba un ricordo relativamente positivo della propria esperienza scolastica.

Se nel 1992, infatti, il 6% degli intervistati aveva riferito di avere un ricordo negativo della propria esperienza scolastica elementare, media e superiore, per quanto concerne la scuola elementare, solo il 3.5% degli intervistati nel 2017 riferisce di averne un ricordo negativo, mentre appena il 4.5% confessa di avere un brutto ricordo delle scuole medie e superiori.

È evidente, dunque, che la percezione negativa, attualmente, è generalmente inferiore rispetto a quanto registrato un quarto di secolo fa.

Attraverso la ricerca della Doxa è emerso anche un altro dato interessante, cioè la grande importanza che ciascuno degli intervistati ha attribuito alla scuola per la formazione della propria personalità e del proprio bagaglio culturale ed esperienziale.

L’88% degli intervistati giudica fondamentale l’apporto della scuola superiore, definita una vera e propria «scuola di vita»; seguono le elementari con l’85% delle risposte positive.

I sostenitori delle scuole superiori sono soprattutto soggetti appartenenti alla generazione dei baby-boomers, ovvero gli over 55, oltre ai cosiddetti millenials, nati tra il 1979 e il 2000, mentre oltre la metà dei 30-35enni considera le scuole elementari più formative di medie e superiori.

Gran parte degli ex studenti italiani serba un ricordo complessivamente positivo della propria esperienza scolastica e per i futuri studenti, certo, la situazione non può che migliorare.

La scuola è cambiata, è stata travolta dal progresso tecnologico, ha dovuto aggiornarsi sulle più recenti teorie dell’apprendimento, ha mutuato i più innovativi modelli d’insegnamento.

Dall’ormai obsoleto registro cartaceo in cui incasellare i voti e le assenze con la biro, all’etereo registro elettronico da gestire e consultare in remoto; dalla mitica lavagna in ardesia, al suo corrispettivo elettronico e interattivo, la LIM; dalle piccole aule coi banchi addossati gli uni agli altri, alle aule ampie e ariose che possono contenere fino a trenta studenti; dalla calcolatrice al tablet; dalla Treccani ad Internet, sono state numerose le trasformazioni che hanno investito il mondo della didattica, riguardando da vicino sia i docenti che gli studenti e consentendo a questi ultimi, tra le altre cose, di svestire i panni di meri ascoltatori passivi dei prolissi sermoni dell’insegnante per partecipare attivamente al momento della spiegazione.

Oggi i docenti si impegnano per rendere le lezioni stimolanti e accattivanti, al fine di catturare e non perdere l’attenzione degli alunni. Ricordo perfettamente quando al liceo la mia insegnante di lettere ci sottoponeva suggestivi confronti tra una poesia di Leopardi e una canzone di Mogol e Battisti o ci svelava i riferimenti sessuali nascosti nel Gelsomino notturno di Pascoli, nel tentativo di attualizzare quanto più possibile un patrimonio letterario tanto vicino alla nostra sensibilità moderna, quanto difficile da presentare nel modo giusto a un gruppo consistente di adolescenti annoiati.

L’epoca del maestro intransigente, freddo e severo, che bacchetta poveri ragazzi terrorizzati in grembiule, è bella che finita.

Oggi ai docenti viene chiesto di essere aperti al dialogo e al confronto e la scuola millanta il ruolo precipuo rivestito nell’educazione dei giovani al pensiero critico, da krino che in greco significa “giudizio”, quindi “pensiero giudicante”.

A partire dal 2015 con la legge 107 (“La buona scuola”) sono stati attivati percorsi di alternanza scuola-lavoro per consentire agli studenti di superare più agevolmente il gap formativo esistente tra mondo accademico e mondo del lavoro, in termini di competenze e preparazione.

Insomma, la scuola ce la sta mettendo tutta per rendere l’apprendimento sempre più agevole e interessante per gli studenti e non mi sorprenderebbe se tra venticinque anni, a seguito di una nuova indagine condotta dalla Doxa, venisse fuori che il 100% degli intervistati serba un bel ricordo della propria esperienza scolastica.

Viene da chiedersi, però, quanto i giovani d’oggi siano disposti ad usufruire di questo confort didattico che aleggia nelle aule degli istituti scolastici senza adagiarvisi troppo comodamente, rischiando di addormentarsi e di perdere l’opportunità di formarsi e arricchirsi in un contesto sicuramente più incoraggiante rispetto al passato.

Le nuove generazioni, infatti, tendono spesso a trascurare l’importanza della cultura, la sua capacità di aprire la mente, di arricchire il cuore, e farsi motore della mobilità sociale.

Costantemente delusi, arrabbiati, mai contenti o soddisfatti di quello che hanno, sono purtroppo lo specchio della nostra arida società.

Li vedi seduti tra i banchi, imbronciati, con le lingue taglienti e la risposta sempre pronta, capaci di far vacillare anche un generale nella sua autorevolezza.

Talvolta aggressivi, spesso viziati, fanno i duri ma sono in realtà così fragili da scoraggiarsi alla prima difficoltà, iperprotetti e sollevati da qualsiasi responsabilità.

Quando rimproverati, non esitano a invocare l’intervento di mamma e papà per mettere a posto il povero docente che, esasperato, ha deciso di ricorrere alla sospensione; e mamma e papà si precipitano a scuola trafelati e infervorati per protestare contro il trattamento ingiusto riservato al proprio figlio, mettendo in discussione l’operato del docente e, perché no, improvvisandosi anche esperti pedagoghi pronti a muovere critiche sul suo metodo o sulla tipologia di tema propinato in classe.

I ricordi di scuola degli studenti saranno sicuramente positivi in futuro, ma possiamo dire lo stesso per gli insegnanti?

All’apertura al dialogo delle scuole, gli studenti e le loro famiglie hanno risposto in maniera ingiusta e irriconoscente, scambiando il tentativo di garantire condizioni più serene attraverso cui facilitare e rendere più accattivante l’apprendimento, col passo falso di chi abbassa la guardia.

 




Gli Italiani incapaci di andare all’estero.

Meglio disoccupato che lontano da casa…

L’Italia ha un grandissimo problema di “fuga di cervelli”, che secondo la Confindustria è il vero “spreco del Paese” capace di costare 14 miliardi l’anno.

Ma, non solo, l’Italia deve fare anche i conti con l’altra faccia della medaglia, il problema esatto contrario: gli italiani che, interrogati sul tema, dicono di non voler lavorare lontani da casa, anche a costo di restare disoccupati e di rinunciare alla carriera.

Secondo un sondaggio realizzato dall’Osservatorio mensile Findomestic con Doxa, infatti, quasi un lavoratore su due (46%) preferisce non allontanarsi da casa, anche a patto di restare disoccupato o non fare una progressione di carriera significativa. La comodità e la vicinanza agli affetti hanno la meglio sull’ambizione professionale.

E, come se non bastasse, solo due italiani su dieci rinuncerebbero all’Italia, ed andrebbero a vivere all’estero, pur di fare il lavoro dei propri sogni.

Fortunatamente, almeno,” tre italiani su quattro sono soddisfatti della vicinanza al proprio posto di lavoro”, dice l’Osservatorio.

Ma c’è di più: la Sicilia è al top tra oltre 200 regioni europee per l’alto tasso di giovani fra i 18 e i 24 anni che non studiano e non cercano lavoro, i cosiddetti Neet.

Il dato negativo dell’isola (41,4%) è inferiore solamente a quelli registrati per la Guyana francese (44,7%) e la regione bulgara di Severozapaden (46,5%).

Questo è quanto emerge dal Regional Yearbook 2017 pubblicato il 14 settembre da Eurostat.

Dunque, c’è un problema, nel problema…

Accanto ai giovani siciliani che non riescono a trovare una strada lavorativa nella propria terra, quelli per cui partire sembra l’unico modo, doloroso e drammatico, per costruirsi un futuro dignitoso, ci sono quelli che non fanno niente!!!

Se in Italia un giovane su quattro non lavora e non studia, e il dato è già di per sé desolante, in Sicilia la percentuale sale addirittura al 39,5 per cento: poco meno della metà della popolazione tra i 15 e i 29 anni non lavora e non studia.

Pessimi i dati in generale per tutto il Mezzogiorno. Al secondo posto la Campania con il 36,2 per cento, seguita dalla Calabria con il 35,8, ancora, la Puglia, la Sardegna, la Basilicata e il Molise, tutte al di sopra del 30 per cento.

Un baratro nero, se si pensa che in Europa ci sono regioni come i Paesi Bassi dove lo stesso tasso scende di quasi 20 punti!!!

Niente di nuovo sotto il sole, diremmo noi…

Ma, per quelli che lavorano, ritornando all’indagine Doxa, scopriamo anche altri aspetti del rapporto tra gli italiani ed il loro lavoro.

A cominciare da quello economico: in base ai dati raccolti da Findomestic, oltre un lavoratore su due (54%) si aspetterebbe di guadagnare di più.

La maggior parte giudica invece positivamente il clima lavorativo (76%) e la sicurezza del posto (66%). Si torna al 54% di quelli che non sono soddisfatti della coerenza dell’occupazione con il proprio percorso di studio.

Non stupisce, dunque, che la maggior parte dei lavoratori italiani (60%) abbia pensato almeno una volta di cambiare lavoro, soprattutto nella fascia fra i 35 e i 44 anni.

Inoltre, anche i dati sul rapporto tra l’impegno professionale e la qualità della vita, sono significativi: il 61% dei lavoratori italiani è soddisfatto dell’equilibrio che è riuscito a raggiungere tra lavoro e vita privata, ma i “molto soddisfatti” sono solo 1 su 10.

Come al solito, se potessero avere più tempo libero gli italiani lo utilizzerebbero per stare con la famiglia (50%), poi, per dedicarsi agli hobby (43%), per viaggiare (42%) ed infine, solo uno su quattro, per fare sport (28%).

Dal capitolo ‘benefit’ dell’Osservatorio Findomestic risulta, inoltre, che i lavoratori chiedono soprattutto buoni spesa per carburante, alimentari ed elettronica (40%), oltre a una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (38%) e forme di assistenza sanitaria (35%), queste ultime desiderate soprattutto dalle donne.

E qui, altra anomalia italiana…

Se, stipendio e stabilità restano le voci principali (il primo è la variabile più importante per il 64% dei rispondenti, la seconda per il 42%) di tutti i lavoratori, maschi o femmine che siano, alcune differenze di genere sorgono tra uomini e donne, frutto probabilmente di un carico diverso che ancora separa le due categorie, una volta che si rientra nelle mura domestiche.

La flessibilità dell’orario di lavoro è più rilevante per queste ultime (35% contro il 26% degli uomini), mentre gli uomini dimostrano di dare più peso all’autonomia decisionale (31% contro 27% delle donne) e all’opportunità di fare carriera (17% contro 9% delle donne).

Come al solito, per le donne italiane, il lavoro c’è sempre e comunque, a casa!!!

 

Antonella Ferrari




Banca Intesa al Games Week

Unica Banca presente al Games Week di Milano è stata Banca Intesa, due grandi stand per stare vicino ai giovani.

Molto interessante l’iniziativa carta Flash su misura, ove per tutti i partecipanti era possibile ricevere una carta flash con la fotografia personalizzata.