Il tempo dello sport

Un concetto estremamente affascinante nel mondo dello sport è quello di “tempo”: contiene sfumature diverse a seconda dei contesti, fino ad assumere significati diametralmente opposti.

E’ molto di più che una semplice unità di misura.

Innanzitutto fa rima (ed è legato in modo indissolubile) con storia: crea memorie straordinarie che, con il passare del tempo appunto, trasformano i ricordi sbiaditi in leggenda, ma è anche inesorabile, quasi beffardo, quando determina la fine della carriera per quei personaggi che la storia la stanno scrivendo sui campi di gioco.

Scandisce periodi ed epoche, a colpi di attrezzatura, abbigliamento, metodologie di allenamento e tecnologia; ma è anche arbitro, giudice della continua sfida con te stesso.

È proprio lui, il tempo, unitamente ai “record e ai primati”, che permette di misurarsi “senza tempo”, con la storia.

Dopo qualche suggestiva divagazione filosofeggiante, entriamo dunque nel vivo dell’argomento di oggi: il connubio tra il concetto di tempo e quello di record.

Unendo le parole tempo e record, il primo pensiero va sicuramente all’atletica leggera, a quella continua possibilità di battere primati che appassiona tutti gli sportivi, ogni quattro anni, durante i Giochi Olimpici e, forse, ancor di più alla gara “regina” dell’atletica: i 100 metri.

Il fascino innegabile dell’uomo più veloce del mondo che al momento spetta a Usain Bolt capace di coprirli in 9.58 (16 agosto 2009).

Ma c’è di più: quel record non rimarrà solo per chi ha corso accanto a Bolt, in quella occasione.

Gli atleti di oggi si potranno misurare con quel primato, ma lo possono fare anche quelli del passato e, soprattutto, quelli del futuro.

Ecco che il tempo e i suoi record permettono di misurarci con la storia e tuffarci in quell’insieme di fascino e magia che fa sognare ad occhi aperti chi ama lo sport.

Se parliamo di golf Tiger Woods, l’atleta che nei primi anni duemila non aveva oggettivamente rivali, li ha trovati nei record di Nicklaus e Snead sulle pagine della storia del golf; Michael Phelps che in acqua ha sempre, o quasi, fatto in tempo a togliere occhialini e cuffia prima di vedere chi era arrivato secondo, ha vinto la sua sfida: essere l’atleta con più medaglie nella storia dei Giochi Olimpici.

Nessuno è rimasto sul tetto del tennis mondiale più dello svizzero Roger Federer e così via.

Tutte le discipline hanno record a volte battibili altre no, come il caso del 10 di Nadia Comaneci, il primo nella storia della ginnastica.

Ci sono quelli che sono arrivati quasi per caso e quelli ripetuti più volte, come nel salto con l’asta femminile, quelli di Yelena Isimbayeva, sfide estremamente avvincenti come quella di questi anni, a suon di prestazioni straordinarie, per il numero di palloni d’oro nel calcio tra l’argentino Lionel Messi e il portoghese Cristiano Ronaldo (rispettivamente 4 e 5) e quelli ottenuti sotto gli occhi del mondo come il 99 su 100 di Jessica Rossi dalla fossa olimpica del tiro a volo, nella finale ai Giochi Olimpici di Londra 2012.

Ogni disciplina ha i suoi record, poi ci sono sport dove in competizione si può vincere, pareggiare o perdere; un esempio? Il calcio.

Sport in cui puoi vincere o perdere come il tennis,  e in cui puoi solo vincere, come il golf o lo sci; ma in tutti c’è sempre una sfida, un record, che può essere in qualche modo battuto, superato, migliorato e fa si che nello sport anche dopo innumerevoli vittorie non si abbia mai vinto tutto, campioni a cui, anche se hanno vinto tantissimo, mancherà sempre qualcosa: la prossima vittoria, il record successivo… o forse, come diceva il Barone de Coubertin*, vincono tutti quando scendono in campo e si battono con tutte le proprie capacità.

Interrogativo, con una buona dose di suggestione al quale risposta non c’è se non quella personale che si da ognuno di noi!

*< Pierre de Coubertin “Le plus important aux Jeux Olympique n’est pas de gagner mais de participer, car l’important dans la vie ce n’est point le triomphe mais le combat; l’essentiel, ce n’est pas d’avoir vaincu mais de s’être bien battu” >




L’Italia e l’ultradestra

Noi siamo un paese di ipocriti, noi celebriamo il piccolo, noi vediamo solo l’interesse.

Difficile smentire queste frasi che fanno dell’Italia un paese ormai allo sfascio ideologico, un piccolo punto da cui trae origine un buco nero cosmico dell’etica sociale.

Tutti i partiti si riempiono la bocca con frasi e paroloni, con promesse ed accuse, con ideologie che oggi hanno solo un bel vestito ma sotto sono sporche come le stalle dei maiali (senza voler offendere il nobile maiale).

Non esiste un movimento politico che non sia nato dal sangue, o quello di una guerra o quello di una rivoluzione, ma tutte le grandi ideologie hanno alla loro origine una ribellione, dalla rivoluzione russa, al fascismo al nazismo e persino al cristianesimo.

Oggi si sente sempre più parlare di Destra o Ultra Destra, di fascismo e di ritorno al regime, di nostalgici e via dicendo, ma questo gran parlare sembra nascondere una pochezza di idee da parte di tutti quelli che ne parlano.

Il giochetto è sempre quello, quando non si ha nulla da dire la si butta in cagnara, gridando al ritorno del fascismo.

Chi lo fa non ha senso della storia e pericolosamente si identifica con altro segmento della storia che vorremmo dimenticare ugualmente, ovvero lo scempio degli omicidi avvenuti nel dopoguerra sull’altare  della fine dell’era fascista.

In ogni caso manca una revisione storica, manca un momento di chiarezza sociale che non può essere ancora demandato: l’aggettivo «estrema», che potrebbe richiamare il sostantivo estremismo, è da respingere, perché rappresenta un’etichetta arbitraria assegnata di solito dagli avversari politici per oscurarne le proposte politiche, che oggi sempre più invece rappresentano la volontà popolare.

Inoltre giova notare come qualsiasi volontà di difesa degli interessi nazionali o popolari che dir si voglia venga sempre buttata nel campo del razzismo o del menefreghismo verso chi soffre.

Questo avviene perché fondamentalmente non v’è equilibrio di posizione in chi persegue l’ideale dell’integrazione; è evidente che non si può integrare tout court popoli con secoli di tradizioni differenti, ma sopratutto con idee sociali differenti e ancor di più con comportamenti sociali differenti.

L’integrazione è in realtà un processo composito: socializzazione, solidarietà e corresponsabilità, queste sono le linee che compongono l’integrazione e la rendono fattibile.

Non può, e non deve, essere fatta accogliendo chiunque, parcheggiandolo in campi di smistamento (parola comunque molto vicina ad altri campi del passato) e lasciandoli poi per mesi ad oziare con un sussidio per sopravvivere.

Bellissime le iniziative che hanno visto queste persone mettersi a disposizione dei vari comuni per lavori socialmente utili (ma quanti sono stati sul totale degli accolti?), ma gravissime quelle invece in cui la rivolta di queste persone, per motivi a volte anche futili, ha portato a vere e proprie guerre di quartiere.

Nonostante l’evidente fallimento di questo modo di “accogliere”, tutti si buttano addosso a chi critica dandogli del fascista o dell’appartenente all’estrema destra, ma perché?

Qualcuno mai ha provato a leggere le proposte dell’Ultra Destra rispetto a questo tema?

Credo di no, altrimenti ci sarebbe una vergogna collettiva nel non aver mai provato a dare voce alle persone più bisognose.

In realtà ci dimentichiamo proprio di chi deve muovere economia e sociale per poter fare spazio per l’accoglienza, ovvero gli Italiani.

Gli aspetti ideologici che muovono i partiti di Ultra Destra a difendere i cittadini non contro gli immigrati, come si vuol far credere, ma a favore, hanno radici profonde.

Radici che inevitabilmente si scontrano con un’accoglienza indiscriminata e foriera di prosciugamento delle risorse nazionali, ma anche comunitarie viste le reazioni della comunità europea sull’argomento, perché legate alla valorizzazione del cittadino in quando detentore di diritti inalienabili, derivatigli dalla costruzione di questo paese che le generazioni passate hanno fatto.

Ma a parte i diritti dei cittadini che spesso sono più facilmente calpestati che rispettati dalla classe politica, qui occorre fare un discorso di risorse.

Se vogliano utilizzare i frutti di un orto non cacciamo il contadino che lo coltiva ma cerchiamo di aiutarlo, oggi la classe politica, o forse meglio dire la classe dirigente, pensa di ignorare gli Italiani o comunque di caricare sugli stessi il peso di un’accoglienza non produttiva, creando un disagio sociale che contrasta con l’esigenza di solidarietà che invece è richiesta dal processo di integrazione.

Sempre parlando di risorse sarebbe opportuno smetterla di pensare agli immigrati come portatori di voti, ricorda molto i primi anni settanta quando i portatori di voti erano gli statali e quindi c’era la vendita dei posti nello stato, per non parlare poi delle pensioni baby, vero bacino di preferenze elettorali.

Oggi per il bene dello Stato dobbiamo pensare ad una pianificazione attenta delle risorse, ma sopratutto dobbiamo rinvigorire la spina dorsale del paese, gli Italiani, affinché veramente si possano creare ulteriori risorse e spirito di accoglienza.

Pensare prima agli Italiani è il modo migliore per avviare un vero percorso di integrazione che passa inevitabilmente dalla capacità del nostro Paese di essere grande e generoso come è sempre stato.

Ave atque Vale

Corrado Faletti

http://betapress.it/index.php/2016/11/14/lettera-a-matteo-da-parte-di-un-italiano/

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Malcolm Young

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Perth

 




Star Wars, almeno credo…

La data è finalmente giunta, il film tanto atteso è già parte della storia cinematografica.

Star Wars: The last Jedi è uno dei film più innovativi e di effetto della saga, ma allo stesso tempo anche il meno “Star Wars” di tutti.

La sensazione che infatti questo film ci lascia, è quella di un bellissimo film con spettacolari effetti grafici, ma che si allontana un po’ dai canoni imprescindibili della saga originale: la forza, i personaggi e soprattutto lo stile.

In The Last Jedi si nota subito un forte stacco con Episodio VII, il cambio di sceneggiatori e registi non passa affatto inosservato, anzi.

Sembra quasi che a Ryan Johnson gli espedienti stilistici e narrativi del film precedente non siano affatto piaciuti, e che abbia cercato un modo per liberarsene in fretta.

Un grande plauso va alla recitazione eccellente e alle scene d’azione.

Il cast di Star Wars si è dimostrato come sempre all’altezza, gli attori sono capaci di creare un’atmosfera davvero convincente e trascinante.

Le scene d’azione grazie anche ai bellissimi effetti speciali e alle notevoli coreografie dei combattimenti sono in grado di sorprendere ed emozionare allo stesso tempo.

 

ATTENZIONE SPOILER

 

Il film si apre con un disperato tentativo di fuga della resistenza dalla loro base su D’Quar, facendoci intuire che la distruzione della base Star Killer, avvenuta nel 7, non ha in realtà sortito alcun effetto sul Primo Ordine che ancora impera, anzi forse è addirittura più potente di prima.

Contemporaneamente vediamo Rey che consegna la spada a Luke, il quale senza troppi problemi se la getta alle spalle.

Ecco qui un primo esempio di quello di cui si parlava sopra.

In episodio 7 abbiamo la spada di Anakyn, fulcro della storia, fonte di visioni per Rey, mentre nell’ 8, a neanche cinque minuti dall’inizio viene gettata via.

 Ci viene introdotto un Luke completamente diverso da quello che eravamo abituati a conoscere nella saga originale: Luke, che anche con suo padre, Darth Vader, non aveva mai perso la speranza, in questo film si da immediatamente per vinto con il nipote, non appena capisce che il suo cuore è stato sedotto dal lato oscuro.

Inoltre anche la figura di Snoke e le origini di Rey introdotte nel 7 come parti di importanza fondamentale, vengono velocemente annientate in questo film.

Si sperava infatti di apprendere la storia dietro all’oscuro Snoke, ma senza neanche un accenno lontano a chi possa essere viene ucciso.

Lo stesso vale per le origini di Rey: nel 7 viene introdotto un mistero riguardo alla ragazza che aspetta con ansia i suoi, che segna ogni giorno che passa nella loro attesa, ma che però nell’otto è sminuito a un suo desiderio di dimenticare quello che è stato, ovvero che i suoi, mercanti di rottami alcolizzati l’hanno venduta per comprarsi da bere.

Questo particolare espediente narrativo però non è così negativo, infatti ci ricorda che la forza non è prerogativa solo degli Skywalker, ma molti bambini, uomini e molte creature diverse nella galassia sono particolarmente sensibili alla forza.

Un espediente molto interessante, invece, è quello della conversazione a distanza tra Rey e Kylo che ci permette di comprendere meglio la storia e la psicologia dei due personaggi, portando i due sullo stesso piano di importanza all’interno del film così come lo sono la luce e l’oscurità.

Questo ci porta ad un altro canone che viene alterato: la forza.

L’idea che passa è quella di una ragazza che in quanto opposto di Kylo Ren nella luce, riesce, anche senza alcun allenamento, a padroneggiare senza troppi problemi la forza.

Questo è in forte contrasto con l’idea della forza che avevamo fino a qualche giorno fa: addirittura Anakyn, il prescelto, aveva avuto bisogno di un addestramento per imparare le vie della forza.

Inoltre c’è la scena di Leia, sottolineerei La scena.

Leia viene spazzata via dal ponte di comando, si ritrova a fluttuare nello spazio, sembrerebbe finita per lei, ma improvvisamente, non si sa bene come, torna in vita e raggiunge la salvezza.

Per quanto le vie della forza siano misteriose, questa scena, almeno secondo il nostro parere, risulta davvero molto forzata.

Un ultimo punto di cui vogliamo parlarvi è la superficialità con cui vengono trattati personaggi come Finn e Capitan Phasma.

Per quanto riguarda Finn e Rose possiamo affermare che la loro parte di storia si rivela inutile ai fini dell’impresa ed è solo grazie al droide BB-8 se potremo rivederli in episodio 9.

Mentre Capitan Phasma si salva dal compattatore di rifiuti nel Risveglio della Forza solo per morire dopo dieci minuti di comparsa in The Last Jedi.

In conclusione quindi possiamo affermare che Star Wars The Last Jedi è un bellissimo film forse volto più a distruggere la storia introdotta nel Risveglio della Forza che non a crearne una nuova e significativa.

 

http://betapress.it/index.php/2017/10/28/trust-me-im-a-jedi/

http://betapress.it/index.php/2017/11/12/star-wars-una-nuova-trilogia-allorizzonte-lontano-lontano/




Tiger Woods

“Probabilmente il giro di golf disputato a dicembre che ha avuto più anticipazioni da sempre, la persona che ha avuto più attenzioni nella storia di questo sport e forse quella che ne ha necessitate di più, dopo 301 giorni Tiger Woods ritorna al golf competitivo.”

Queste le parole del commentatore con le quali è iniziato il primo giro del Hero Target Word Challenge, normalmente una gara di fine stagione; solo 18 giocatori, tutti invitati, un posto paradisiaco come Albany alle Bahamas, nulla di golfisticamente rilevante se non fosse per le tre righe sopra: è tornato sul percorso Tiger Woods, non solo per qualche iniziativa commerciale, ma in gara.

Sul campo Woods ha giocato quattro buoni giri, ha sofferto un po’ nel terzo, forse anche a causa del vento, ma ha dimostrato una discreta continuità.

Ora non resta che aspettare il 2018 e vedere se queste 72 buche sono state uno dei tanti ritorni senza essere competitivi o, finalmente, “Tiger is back!”

Tornando alle prime tre righe, “la persona che ha avuto più attenzioni nella storia di questo sport” potrebbe sembrare esagerato, ma non è cosi!

Senza alcuna intenzione di scrivere una biografia, non ne sarei in grado, vorrei soffermarmi su un dato: nel 1997, quando l’italiano Costantino Rocca percorreva Magnolia Lane per arrivare all’Augusta National Golf Club dove, poco dopo, sarebbe sceso in campo proprio con Tiger Woods (che poi avrebbe vinto) nel gruppo finale del Masters Tournament, sapeva che in caso di vittoria lo avrebbe aspettato un cospicuo assegno di $ 486.000.

Vent’anni dopo, pochi mesi fa, lo stesso assegno andato allo spagnolo Sergio Garcia ed è stato di ben $ 1.838.115

Questi circa 1.400.000 in più hanno un nome e cognome: Heldrick (Tiger) Woods. Il campione che ha rivoluzionato il golf facendolo diventare uno sport vero e proprio.

Può sembrare un’affermazione pesante anche questa, ma la preparazione fisica, prima di lui, non era ritenuta un aspetto fondamentale, nemmeno nel caso di atleti di altissimo livello. Con lui la pallina ha iniziato a cadere decisamente più lontano, rendendo il golf ben più spettacolare e appetibile per sponsor e diritti televisivi, schizzati subito alle stelle.

Per non parlare dello spirito di emulazione concretizzato nei tigrotti di peluche che sono comparsi sulla sacca di decine, se non centinaia, di migliaia di giovani in tutto il mondo.

Anche se, in realtà, solo uno aveva la scritta in tailandese “la mamma ti vuole bene”, cucita a mano dalla signora Kultida Woods.

Giovane, prestante fisicamente, fortissimo, con due genitori modello, una bellissima moglie, due figli stupendi e quell’aurea di imbattibilità tale da suggestionare.

Spesso, quando non riusciva a vincere, erano gli altri a farsi da parte, in una sorta di timore reverenziale che nei primi anni duemila era insormontabile per i più.

Poi il tonfo: la morte del padre, lo scandalo delle amanti, la separazione dalla moglie e i continui problemi alla schiena hanno fermato quella che sembrava una cavalcata inarrestabile.

I Libri della storia sportiva che già ne tessevano le lodi e ne dipingevano le gesta, cadono nell’ombra.

Ma ora, il ritorno: la sfida tra generazioni con Sam Snead per passare le 82 vittorie sul tour, quella con Jack Nicklaus per i 18 Major e quella con la storia per diventare il primo sportivo ad aver superato il miliardo di dollari guadagnati sono ancora li, in attesa di una conclusione ma, soprattutto, con ancora tante emozioni da regalare a tutti gli appassionati di sport nel mondo!

Come andrà a finire non lo si può sapere ma, sicuramente, di Woods rimarranno in luce più le vittorie che i momenti bui e, soprattutto, i tantissimi “eredi” che hanno iniziato a giocare ispirandosi a lui!

Per i più bravi e fortunati, che sono riusciti, o riusciranno, ad arrivare tra i primi del mondo, ci saranno anche un sacco di soldi! Per noi italiani che amiamo questo sport così come amiamo sognare, forse anche qualcosa di più…

la speranza che magari possa giocare la sua ultima Ryder Cup nel 2022 in Italia … nello sport i campioni regalano emozioni e speranze a volte impareggiabili!




PEC e Firma digitale

Nel mio precedente articolo, ho parlato di internet e nello specifico della posta elettronica che sempre  più spesso usiamo per inviare documenti di importanza rilevante.

E’ importante avere la certezza che il documento inviato sia leggibile,autentico e immodificabile per evitare un uso improprio dello stesso, a tale fine si ricorre alla firma digitale.

La firma digitale si basa su un certificato qualificato e su sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, di rendendere  manifesta ,rispettivamente , la provenienza e l’integrità di un documento informatico.

E’ importante evidenziare che se stiamo parlando dell’invio di un documento importante e quindi di rilevanza fiscale o legale non ci dobbiamo affidare alla posta elettronica semplice ma alla posta elettronica certificata (PEC).

Quanto è riservata la nostra posta elettronica ?

La riservatezza è abbastanza ma non possiamo essere garantiti al 100%, poiché qualsiasi destinatario potrebbe inoltrarla ad altre persone, tant’è che alcuni indirizzi postali sono vere e proprie mailing list che a loro volta ridistribuiscono i messaggi a diverse e altre persone.

La raccomandazione è quella che ho sempre dato : non inviare nulla che non vorreste vedere appiccicato accanto ala macchinetta del caffè oppure scarabocchiato vicino a un telefono pubblico.

Questa cautela va sempre rispettata anche se nei recenti sistemi di posta elettronica sono inserite caratteristiche di codifica che migliorano la condizione di riservatezza.

La PEC può essere considerato un sistema sicuro perché caratterizzato da una procedura che eleva la percentuale di riservatezza e sicurezza nell’invio dei nostri documenti importanti……….,vediamo perché.

La PEC , pur presentando analogie con la raccomandata A.R., evidenzia il ruolo fondamentale che nel processo di certificazione assume un soggetto terzo rispetto al mittente e destinatario, denominato gestore di posta elettronica certificata.

Il Gestore, una volta ricevuto il messaggio dal mittente , effettua alcuni controlli formali previsti per legge e ove non riscontri una anomalia, predispone la ricevuta di accettazione che fa tenere al mittente.

Tale ricevuta è un documento importante, poiché in essa sono contenuti i dati di certificazione  che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione.

A sua volta il Gestore del Destinatario deposita quanto trasmesso nella casella di posta del proprio cliente e invia al mittente la ricevuta di avvenuta consegna che a tutti gli effetti costituisce prova che il messaggio è stato ricevuto con le conseguenti implicazioni giuridiche.

Bisogna, però, precisare che detta attestazione non garantisce che il messaggio è stato letto da parte del Destinatario.

Pertanto è importante tenere presente che la PEC non prevede l’effettiva lettura del messaggio ma sicuramente la prova dell’avvenuta consegna .

Il contenuto di quanto trasmesso a mezzo PEC , sia esso un messaggio o un allegato, non è assistito da alcuna fede probatoria e quindi è improprio affermare che a differenza della raccomandata A.R. , essa certifica di default anche il contenuto dei messaggi trasmessi.

Nelle intenzioni del legislatore la PEC deve rappresentare lo strumento privilegiato per le comunicazioni d’impresa dirette alla Pubblica Amministrazione ma non capita di rado che le imprese trovino difficoltà a comunicare.

Diversamente la PEC rappresenta un mezzo idoneo nei rapporti tra privati e in particolare tra imprese, un esempio su tutti : la cessione del credito di cui all’articolo 1264 cc.

Inoltre la PEC costituisce un valido strumento di compliance aziendale, soprattutto ove occorre garantire trasparenza,tracciabilità e sicurezza nelle comunicazioni.

Una raccomandazione finale nel caso in cui dobbiamo inviare un documento importante: Firmare con la firma digitale il testo oppure l’allegato che devo inviare e utilizzare la PEC come veicolo di trasmissione.

Salvo Esposito




ISRAELE e GERUSALEMME: gradiente di separazione

Trump riconosce Gerusalemme capitale d’Israele: «scelta necessaria per la pace», ma è subito violenza

Mercoledì 6 dicembre il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha rilasciato pubblicamente delle dichiarazioni molto forti su un argomento molto delicato, ovvero lo storico conflitto fra Israele e Palestina.

Dal lontano 1967, quando le forze armate israeliane si appropriarono dell’intera parte orientale di Gerusalemme scacciando i palestinesi che l’abitavano e costringendoli a rifugiarsi nei campi profughi, la questione mediorientale rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la comunità internazionale, avendo ormai assunto le fattezze di una bomba a orologeria pronta a esplodere per l’ennesima volta.

A seguito dell’annessione israeliana di Gerusalemme, l’Onu e la politica internazionale hanno scelto di non riconoscere la città santa come «unificata capitale» dello Stato ebraico, prediligendo piuttosto il mantenimento di un atteggiamento neutro e prudente; anzi, la carta del riconoscimento della capitale è sempre stata utilizzata, soprattutto dagli Stati Uniti, per ottenere da parte di Israele concessioni a favore dei palestinesi.

In seguito, con lo scoppio della Prima Intifada nel 1987, la situazione si è inasprita a tal punto da spingere la politica internazionale a scegliere, in occasione dei negoziati di pace di Oslo nel 1992-93, di affrontare la questione Gerusalemme in un momento successivo e specificamente dedicato.

Tuttavia, gli innumerevoli sforzi compiuti dalla politica internazionale in direzione di una mediazione ponderata tra le due parti, sono stati completamente vanificati nella giornata di mercoledì 6 dicembre, quando, con la nonchalance di un cameriere che comunica il piatto del giorno ai suoi clienti, Donald Trump ha dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti d’America riconoscono Gerusalemme «capitale di Israele» e che sono già state approntate le misure per trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv alla città santa.

Ovviamente Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, ha accolto la notizia con l’entusiasmo di un attaccante che segna al novantesimo: «è una svolta storica. Spero che altri governi seguano presto l’esempio americano. Ogni trattato di pace deve includere Gerusalemme come la nostra capitale».

D’altronde Donald Trump non ha fatto altro che prestar fede alle promesse elettorali, presentando quest’ennesima gaffe come una decisione atta a realizzare una rottura rispetto alle amministrazioni del passato: «antiche sfide domandano nuove soluzioni», dice il tycoon, sostenendo che «il riconoscimento di Gerusalemme aprirà a nuove prospettive di pace».

In realtà, gli effetti funesti di questa dichiarazione non hanno tardato a manifestarsi e, di certo, non preannunciano l’avvento di «nuove prospettive di pace».

L’annuncio del presidente americano, infatti, ha acceso la rabbia e l’indignazione in molti paesi del mondo, suscitando un’ondata di critiche da parte della comunità internazionale a cui sono ovviamente cadute le braccia.

Forte la reazione di Ismail Haniya, leader degli estremisti palestinesi di Hamas, che ha definito le parole di Trump una «dichiarazione di guerra contro i palestinesi» e ha richiesto una nuova intifada per sconfiggere il nemico sionista.

A Gaza alcuni palestinesi hanno dato in pasto alle fiamme le bandiere di Israele e degli USA e, solo due giorni dopo le dichiarazioni di Trump, la violenza si è riaccesa in prossimità dell’omonima Striscia, laddove a Ramallah, in Cisgiordania, e in altri luoghi, si sono verificati una serie di scontri armati tra manifestanti palestinesi e soldati israeliani.

Ai margini della città palestinese di Ramallah, le forze israeliane hanno sparato dozzine di proiettili di gas lacrimogeni e granate stordenti a centinaia di manifestanti palestinesi riuniti per dar sfogo alla propria rabbia per le dichiarazioni di Trump.

Scontri sono scoppiati anche a Gerusalemme Est e al confine tra Israele e Gaza: a Betlemme l’atmosfera natalizia ricreata dalle luci colorate è stata bruscamente soppiantata dalla paura e dalla tensione a seguito del lancio di pietre e lacrimogeni.

Ad uno dei principali punti di controllo tra Gerusalemme e Ramallah, i soldati sparavano proiettili di spugna contro i bambini che lanciavano pietre da dietro bidoni della spazzatura.

Nel frattempo, l’esercito israeliano si sta preparando per un aumento della violenza nei prossimi giorni e ha rinforzato le sue truppe in Cisgiordania, aggiungendo unità all’intelligence e alle truppe che si occupano della difesa territoriale.

Anche le istituzioni statunitensi in queste ore si stanno preparando a fronteggiare ripercussioni violente: il Dipartimento di Stato ha limitato i viaggi per gli impiegati del governo degli Stati Uniti a Gerusalemme e in Cisgiordania, sconsigliando ai suoi cittadini la frequentazione di zone solitamente affollate.

Insomma, a pochissime ore dalle dichiarazioni del presidente Trump, già dilagano violenza, tensione e paura e la situazione sembra essere destinata a peggiorare.

Per la giornata di venerdì 8 dicembre è prevista una “giornata della rabbia” fortemente voluta da Haniya, leader di Hassad, da cui, come lui stesso afferma, avrà inizio «un ampio movimento di liberazione» per Gerusalemme.

Il livello di tensione è altissimo, si teme fortemente che la situazione possa degenerare in un altro sanguinoso conflitto; ormai, però, alea iacta est e non si può tornare indietro, non si possono cancellare le parole di un leader politico che sembra proprio non riuscire a comprendere quanto enorme sia la responsabilità legata al suo ruolo e quanto sia fondamentale porre fine agli innumerevoli tentativi di portare scompiglio in un mondo già così problematico.

 




Giovani campioni ma sempre con i piedi per terra.

Parlare di giovani e sport è sempre una pratica estremamente complessa e rischiosa.

Per iniziare prendo spunto da una recente visita che ho fatto, con la guida eccezionale del consigliere nazionale della Federscherma Alberto Ancarani, alla prima tappa del Circuito Nazionale Giovani di scherma.

Appuntamento che ha visto più di mille ragazzi presentarsi al Pala de Andre’ di Ravenna.

E’ indubbio che siano proprio i giovani il motore di gran parte delle discipline, che gli atleti di successo comincino la loro pratica agonistica in tenera età e che proprio questi ultimi siano l’ispirazione per molti altri a cimentarsi con lo sport nella ricerca di emulazione.

Fino qui tutto perfetto, un circolo virtuoso che avrebbe notevoli aspetti positivi: è naturale che lo sport, soprattutto per i ragazzi, aiuti a crescere come persona, a sviluppare l’indipendenza, la determinazione, la capacità di problem solving e tanto altro, senza parlare di uno stile di vita sano che ha risvolti positivi sull’intera società, a partire dalla salute.

Bisognerebbe fermarsi qui, in questo sogno ad occhi aperti. Purtroppo però ci sono anche tante problematiche che riassumerei in due filoni: quelli che “atleti di successo” non lo diventano e il rapporto con chi ti sta attorno.

Partiamo dal primo, che spesso è confuso solo con mancanze tecniche ed invece comprende tutte le variabili imprevedibili che la vita ci mette davanti. è necessario, dal mio punto di vista, muoversi in due direzioni: la prima è quella, sicuramente controcorrente, di alzare l’età nella quale si diventa “semi-professionisti”; ovvero seppur atleti formalmente dilettanti ci si dedica interamente all’attività agonistica.

La seconda invece è che le Federazioni e le D.S.A. si prodighino per la creazione di way out che possano consentire agli atleti di uscire dal periodo di agonismo trovando uno sbocco lavorativo.

Ammirabile in questa direzione è il progetto “La Nuova Stagione” del Coni, ma immaginate se ogni federazione ne avesse uno proprio anche in virtù della differente fascia d’età nella quale si esce dall’attività agonistica.

Il secondo punto invece è molto più difficile perché si entra in rapporti personali: quali quelli con i genitori e con i tecnici.

Non credo che il “proibizionismo”, il non consentire la presenza in e attorno al campo sia una soluzione ma credo molto di più nell’informazione, un processo senza dubbio lungo ma che può dare risultati definitivi.

Lungi da me dire che bisogna smorzare l’entusiasmo di genitori, tecnici etc. per le prestazioni di livello dei giovani atleti ma serve solo più consapevolezza in materia.

Secondariamente credo che si possa prendere un po spunto dai giovani della scherma.

Tra il fioretto femminile e la spada maschile mi hanno spiegato la grande facilità di accesso a manifestazioni nazionali; in questo modo le possibilità di mettersi in mostra anche per l’ultimo arrivato aumentano in modo esponenziale e si genera cosi un buon ricambio ai vertici giovanili.

Naturalmente chi è destinato a primeggiare continuerà a farlo, e l’Italia nella scherma lo fa nel mondo, ma un maggiore dinamismo potrebbe far ragionare di più che anche un baby campioncino non farebbe male a considerare di darsi altre possibilità e dopo tante stoccate metta a segno anche quella più importante di realizzarsi nella vita.