SCANDALO CONSIP … CI RISIAMO!!!

CONSIP: Ieri prima e seconda repubblica, oggi Renzismo , domani ancora daccapo.

 

 

Gli scandali degli ultimi giorni hanno portato alla ribalta delle cronache  politiche scandalistiche un nome  che doveva rappresentare una garanzia e una innovazione  nel circuito degli acquisti relativi alla  Pubblica Amministrazione. 

 

 

Ma che cos’è CONSIP?

A questo punto è utile introdurre anche  la sigla MEPA: uno strumento di approvvigionamento elettronico di tipo Business to Goverment creato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e gestito da CONSIP, società per azioni con unico socio, appunto, il Ministero  in questione.

CONSIP  ha il compito di gestire in esclusiva le gare di acquisto di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni e proprio nell’ottica della razionalizzazione della spesa pubblica MEPA ha introdotto un modello di approvvigionamento finalizzato all’acquisto di beni e servizi di qualità con procedure standard e semplificate.

Sempre nell’ottica della razionalizzazione è stato istituito un Sistema di Convenzioni per mezzo delle quali i fornitori di beni e servizi  si rendono disponibili ad accettare prezzi previamente fissati . Si tratta, quindi, di un modello di e-procurement in cui le amministrazioni per mezzo della piattaforma MEPA hanno la possibilità di confrontare i migliori prezzi in base alla tipologia dei servizi.

La scelta dei fornitori è del tipo selettivo e specializzato, il primo in quanto i fornitori per accedere alla piattaforma devono avere superato un processo di qualificazione con una serie di requisiti di base, il secondo in quanto deve soddisfare procedure  “molto sicure” a costi e condizioni tali da indurre gli stessi fornitori ad una sana concorrenza e quindi a tutto vantaggio della spesa pubblica.

Fatto questa premessa è importante sottolineare i principali vantaggi del Mercato Elettronico per le Amministrazioni Pubbliche:

  • risparmio di tempo sul processo di acquisizione di beni e servizi sotto soglia
  • trasparenza e tracciabilità dell’intero processo d’acquisto
  • ampliamento della possibilità di scelta per le amministrazioni, le quali possono confrontare prodotti offerti da fornitori dislocati su tutto il territorio nazionale
  • soddisfazione di esigenze specifiche delle amministrazioni ,consentita da una ampia gamma di beni e servizi

Ci sono anche vantaggi per i fornitori:

  1. riduzione dei costi commerciali grazie alla loro presenza sulla piattaforma MEPA
  2. accesso al mercato della Pubblica amministrazione
  3. occasione di crescita della propria impresa
  4. ampliamento sul territorio nazionale della propria offerta

Tutto bene , tutto bello?

A quanto pare tutto ciò è solo prosa soprattutto grazie alla politica con la “p” minuscola e al MALAFFARE che come sempre penalizza gli imprenditori onesti e riempie le tasche dei politi corrotti e collusi.

guarda qui (RICORDIAMO ANCHE LE FAMOSE PILLOLE DEL SAPERE CHE ALLA FINE HANNO PORTATO ALLA CONDANNA DI TRE ALTI DIRIGENTI DEL MIUR) [N.d.R.]

Viva l’Italia!!!!

 




HENRY PADOVANI: THE SECRET POLICEMAN

HENRY PADOVANI: THE SECRET POLICEMAN

 

 

STING! Chi non ha mai sentito parlare dell’istrionico “milkman son”?

Gordon Matthew Thomas Sumner in arte STING è nato a Wallsend, nella periferia a nord di Newcastle in Inghilterra il 2 ottobre 1951, da Audrey Cowell, una parrucchiera, ed Eric, appunto, un lattaio.

La sua vita, le sue hit, il suo percorso musicale sono noti a tutti (o quasi) ma la storia di STING per me rimarrà legata indissolubilmente ai (soli!) sei anni di attività (e cinque meravigliosi album ufficiali in studio! N.d.a.) che vanno dal 1977 al 1983 rispettivamente nascita ed ahimè morte dei POLICE!

Chi, come vi scrive, ha imparato a suonare la chitarra con “Message in a bottle”, “Roxanne” e “Synchronicity II” non può fare a meno di provare una stretta al cuore al pensiero che una delle band più innovative del panorama Rock abbia avuto una vita così breve. Un veloce test per confermare quel che sto dicendo: provate a canticchiare “Soul Cake” di STING. Fatto? Ok! Provate ora a canticchiare “Every Breath You Take”! Evidente no?

I POLICE sono una delle band che ha influenzato migliaia di artisti  e che ha influenzato sicuramente anche il sottoscritto e più ancora mio fratello Alba che, oltre a suonare la batteria con me da più di vent’anni, è anche il “primo sacerdote del tempio di Copeland” (Stewart Armstrong CopelandAlexandria, 16 luglio 1952, drummer e cofondatore dei POLICE; n.d.a.).

Il favoloso trio viene completato dall’innovativo e talentuoso chitarrista Andy Summers (Poulton-le-Fylde, 31 dicembre 1942) che ha plasmato l’originale stile dei POLICE caratterizzando in particolare le sonorità “taglienti” e “reggae-oriented” di molti brani della band. Cofondatore e primo ispiratore dei POLICE nel 1977 fu però Henry Padovani (Bastia, 13 ottobre 1952).

Con i POLICE Henry suonò meno di un anno registrando il singolo “Fall Out/Nothing Achieving” uscito per l’etichetta Illegal Records gestita dal fratello di Stewart Copeland (Miles, futuro manager del gruppo) e già con la prima intensa canzone di chiara matrice Punk, iniziano a prefigurarsi le grandi capacità vocali del giovane Sting.

Seguendo la scia di fermento giovanile della Londra di allora, nel 1977 i POLICE si esibiscono in numerosi concerti distribuendo ai fans energia pura, ma Sting, a differenza di Henry, mal sopportava il Punk ritenendolo una musica troppo modesta per la sua ampia vena compositiva che prendeva ispirazione dal Jazz.

Henry, con l’entrata nella band di Andy Summers, uscì in punta di piedi nell’agosto 1977 rispettando così il volere degli altri “poliziotti” di poter creare un nuovo tipo di musica più “colta”.

Ma lui non si fermò, il Rock che scorreva nelle sue vene lo portò a fondare i WAYNE COUNTY AND THE ELECTRIC CHAIRS, poi i mitici THE FLYING PADOVANIS (band con la quale ancor oggi calca energicamente le scene; n.d.a.) ed ancora divenne scrittore, editore, promotore, compositore, songwriter e nel 2011 perfino giudice di X-Factor-France.

Con la IRS Records (etichetta fondata nel 1984 assieme a Miles Copleand; n.d.a.) produce band planetarie del calibro di REM, THE CRAMPS, THE LORDS OF THE NEW CHURCH, THE ALARM, THE FLESHTONES, WALL OF VOODOO, THE GO-GO’S e molte altre.

Ma l’artista che deve di più ad Henry Padovani è il “nostro” Zucchero Fornaciari che tra il 1995 ed il 2000 proprio da Padovani viene lanciato verso il grande successo in Europa in uno dei generi, quello del Blues, dominato da soli angloamericani.

Provo grande simpatia per Henry Padovani perchè il suo legame di amicizia con Sting e Stewart (due “ego” mastodontici che con le tensioni personali hanno mandato in pochi anni in frantumi i POLICE – a tal proposito consiglio di vedere lo splendido documentario basato sulle video-memorie di Andy Summers: “Can’t stand losing you_Surviving the Police”; n.d.a.) è riuscito a tenere ben saldo quel sottile trait d’union tra i due “litiganti”: “quando registrai una canzone nel 2006 (“Welcome Home”; n.d.a.) avevo bisogno di un batterista e chiesi a Stewart poi chiamai a cantare Sting, poco dopo i POLICE erano in tour”.

Henry, do it again!!!

 

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=4Av29Jp8Ryk&w=640&h=480]

 

 




MERCATO DIGITALE A CONFRONTO

La crescita economica passa attraverso l’analisi dei vari settori .

Un posto d’onore spetta al «digitale», inteso come l’insieme delle tecnologie e informazioni su supporti elettronici utilizzate per trasferire informazioni e conoscenze.

 

MERCATO DIGITALE NEL MONDO

In Miliardi di  dollari

  

 

MERCATO DIGITALE IN EUROPA

Investimento nel digitale rispetto al PIL

 valore in % Settore pubblico e privato    

 

 

 

MERCATO DIGITALE IN ITALIA

Investimento nel digitale

 in milioni di euro

 

 

SERVIZI IN CLOUD IN ITALIA

Investimento  in milioni di euro     

 

 

 

 

PRINCIPALI AREE DI INVESTIMENTO

 – IN ORDINE DI MAGGIORE INVESTIMENTO

 

 

 Da una attenta lettura dei grafici è evidente l’impatto e la potenzialità della Digital Economy per il Sistema Paese e Tutela della Privacy  sia in Italia che in Europa.

 




TRENCHES

Trenches 

 

Ho accolto con grande entusiasmo l’invito dell’amico (e Direttore Responsabile di BetaPress.it) Corrado Faletti di dare un mio personale giudizio al primo lavoro degli STOLEN APPLE: “Trenches”.

 

E lo ringrazio pubblicamente per avermi fatto scoprire questo progetto che è arrivato come una boccata d’aria fresca! Prima di ricevere il cd da parte dell’Ufficio Stampa della band mi sono informato ed ho letto “di-tutto-e-di-più” sugli STOLEN APPLE, ho ascoltato alcuni dei brani di “Trenches” disponibili nelle pagine web ma ho voluto pronunciarmi solo dopo aver studiato il disco a fondo.

“Trenches” è una “promessa”, un progetto poliedrico, un disco torrenziale che (per fortuna!) non è inquadrabile in generi conosciuti anche se il flusso che attraversa le dodici “tracks” è imbottito di molteplici contaminazioni. Il disco della band fiorentina ha un corpo innovativo che già al primo ascolto disegna perfettamente gli ambiti della scrittura e della ricerca sonora, un disco autentico, genuino, senza fronzoli, che arriva subito al cuore (questo il grande merito di “Trenches”: far vibrare il cuore! N.d.a.).

Dal punto di vista tecnico il disco è suonato tutto di un fiato, “così com’è” (e come deve essere!) ed ogni brano mantiene una sua identità che lascia fuori dalla porta “diavolerie elettroniche” e fastidiose “overdubs” (“sovraincisioni” utilizzate spesso in modo esasperato da inetti “artisti mediatici”; n.d.a.).

I registri utilizzati sono molteplici: si passa da momenti grintosi ad altri più rarefatti ma sempre ricchi di tensione e drammaticità.

Dissonanze armoniche che mi hanno lasciato con il fiato sospeso, con gli occhi sbarrati e soprattutto con le orecchie tese.

“Trenches” è un progetto straordinario che costringe a cambiare rotta, è una lampada che ha riacceso in me luci del passato che erano spente.

L’apporto dei singoli membri degli STOLEN APPLE ha un peso specifico rilevante nel disegno globale di “Trenches”: Riccardo Dugini (voce e chitarre), Luca Petrarchi (voce, chitarre, mellotron, organo e synth), Massimiliano Zatini (voce, basso e armonica), Alessandro Pagani (voce, batteria, piano e percussioni) sono il contesto florido di tecnica ed idee che ha potuto dare vita ad un lavoro sperimentale mai scontato che affascina per la fattezza dei brani.

Il primo brano a colpire per immediatezza, forse il più orecchiabile ed accessibile, è “Red Line”: la vera promessa di tutto l’album!

La traccia nr. 2 “Green Down” è una canzone che ogni musicista dovrebbe avere nel suo iPod, una song che se ne sbatte dei “canoni radiofonici” portando all’estremo le chitarre con il solo che prima grida, poi invoca ed infine sussurra: spettacolo! “Fields of Stone” un capolavoro: intima e… Grunge! Avrei voluto sentirne una mezza dozzina come “Fields of Stone”! La psichedelia di “Pavement” è stilisticamente fascinosa e ricorda i RADIOHEAD di “OK Computer”.

L’incessante martellato soft-punk di “Falling Grace” sembra essere nato dalla penna del compianto Joe Strummer (Ankara, 21 agosto 1952Broomfield, 22 dicembre 2002, storico leader dei CLASH; n.d.a.).

In “Falling Grace” quel “All my friends my friends are gone, my friends are gone, my friends are gone” è stato come uno squarcio, forse l’apice dei bellissimi testi dell’album. E poi “Living on Saturday” che mi ha fatto balzare alla mente “The Joshua Three” degli U2, l’attraente ballata “Mystery Town” e la limpida “Something in my Days”.

Segue al posto nr. 9 “More Skin”, forse l’unica vera pop-song dell’album. “Daydream” ha la sofficità di un piumone, “Sold Out” è un concentrato di Brit-Pop, Punk e New Wave ed infine la ballata “In the Twilight” che con la sua dolce melodia chiude l’album.

Caro lettore l’intensità di questo disco è qualcosa che si fa fatica a descrivere, ogni traccia è stata un’emozione, un frammento di ricordo, memorie di casa, flashback di gioia e malinconia e ricordi che sono riaffiorati dal passato.

Questo è “Trenches”: un’inaspettata promessa che gli STOLEN APPLE hanno mantenuto!

 

 

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=lhwZnDfIyOM&w=640&h=360]

 

 

 




Confronto tra la scuola e i giovani nativi digitali

La denuncia di questi giorni di 600 professori sulla incapacità di tanti laureandi che non conoscono le regole base della lingua italiana, mi fa riflettere sul percorso formativo di questi giovani.

 

Come è possibile che questi giovani siano riusciti ad arrivare fino alla laurea con queste profonde lacune.

A mio parere i professori devono un po’ fare un “mea culpa” sul permissivismo scolastico degli ultimi venti anni che ha prodotto e produce una cultura mediocre.

I problemi della scuola non sono stati risolti da una “finta” apertura alla scolarizzazione di massa, anche con l’avvento di nuove tecnologie che invece di aiutare una maggiore evoluzione delle menti, stanno producendo un nichilismo preoccupante, giovani che conoscono a menadito un computer ma non riescono a coniugare correttamente il soggetto, predicato e complemento.

E’ vero che la scuola non ha fornito i frutti che si speravano, la causa, però, dev’essere ricercata nella mancata attuazione  di nuovi metodi di insegnamento, al mancato passaggio generazionale dei valori fondamentali di una società, alla mancata attuazione di nuovi metodi di insegnamento.

Oggi i giovani possono avvalersi di strumenti potentissimi eppure hanno una ignoranza disarmante, un Cartesio qualsiasi ne sapeva infinitamente di più di qualsiasi studente di oggi, capisco che sono al confine di un assurdo, non è un paradosso visto  che lo dicono i famosi 600 professori.

Di certo i “professori” devono stare molto attenti a  lamentarsi, perché le carenze maggiori sono nel sistema scolastico, infatti chi ne esce si trova sprovvisto delle più elementari nozioni che riguardano la vita sociale e il lavoro che, al contrario, richiede oggi sempre più una notevole precisione nelle attività e nel dialogo tra le persone, e non sto parlando dei social.

Gli studenti di oggi non sanno scrivere perché non hanno cultura, scrivono come zombi usando l’italiano con una approssimazione irritante.

Eppure la lingua è, se non l’unico, il principale e insostituibile mezzo di comunicazione.

Non so se i giovani d’oggi, oltre ad essere i maghi nell’uso delle tecnologie digitali, sanno che ciò che distingueva Leopardi da un qualsiasi altro individuo, rimasto anonimo nella sua epoca, era la  sua capacità di definire ciò che provava in termini ben precisi e reali: un linguaggio corretto, ricco ed efficace con cui avvolgeva la sua arte poetica. Cari professori, ammettiamolo, questa capacità linguistica manca alla maggior parte degli italiani, la cui povertà delle regole linguistiche è un difetto ben noto e socialmente disastroso.

Basta pensare ai discorsi indecifrabili della maggior parte dei politici che , ironia della sorte, dovrebbero occuparsi della “ buona scuola”.

Ma chi sono questi giovani “nativi digitali” del 4.0?

Coloro che nascono e vivono in simbiosi  con le  nuove tecnologie; che si confrontano in un dialogo virtuale privo di contatti con gli altri; influenzati facilmente dall’ideologia  e dalla visione della vita e della società che i mezzi di comunicazione di massa inculcano quotidianamente, impedendo o rallentando d’altronde una adeguata presa di coscienza della realtà effettiva.

Proviamo, per un attimo, a riflettere.

Quando i giovani sbagliano gli adulti si devono interrogare sul “come” e “perché”!

Gli adulti e gli insegnanti di oggi si devono appropriare del loro ruolo di educatori !

L’ignoranza  dei giovani d’oggi è unicamente il fallimento della generazione precedente   nel suo ruolo di genitori e insegnanti!

Io non sono immune da questa responsabilità ma almeno cerco di capire…

 




WHAT’S YOUR FAVORITE COLOUR?

WHAT’S YOUR FAVORITE COLOUR?

 

Mi sono laureato in Antropologia con una tesi in paleontologia umana pubblicata in varie riviste del settore e non ho mai provato imbarazzo nell’uso della parola “negro”.

Purtroppo negli ultimi secoli i cugini d’oltralpe e più in su gli snob “cockney” hanno dato a questo termine, che in sé non ha nulla di offensivo, un significato dispregiativo.

Per quanto ai nostri giorni il “politicamente corretto” possa negarlo, nel genere umano esistono razze, sottorazze ed etnie con palesi e meravigliose differenze fisiche, genetiche, ambientali ed infine anche culturali.

Genotipo (corredo genetico di un individuo) e fenotipo (insieme dei caratteri che un individuo manifesta) hanno “lavorato” nei millenni identificando la subspecie (o razza) del Genere “Homo” e della Specie “Homo Sapiens” che si declina in: caucasoide, mongoloide, amerindioide, australoide ed appunto negroide!

Caro lettore arrivo al punto, non preoccuparti, non hai sbagliato Rubrica di BetaPress.it… sei su MUSIC!

Con questa premessa però ti voglio parlare di una delle band più innovative degli ultimi vent’anni: i LIVING COLOUR!

Quattro straordinari musicisti negri responsabili di una delle più incisive rivoluzioni della musica rock degli ultimi vent’anni: Corey Glover alla voce, Vernon Reid alla chitarra, Muzz Skillings, poi sostituito da Doug Wimbish, al basso e Will Calhoun alla batteria. Formatisi alla fine degli anni 80 per volere di Vernon Reid, i LIVING COLOUR segnano sin dal primo album “Vivid” del 1988 (da ascoltare assolutamente la prima traccia “Cult of Personality” e la brevissima “What’s Your Favorite Color?”) la nascita di una nuova deriva del rock pesante.

Una combinazione esplosiva di diversi generi (Hip-Hop, Funk, Hard Rock) che ha catechizzato band del calibro di FAITH NO MORE, KORN, RAGE AGAINST THE MACHINE, SEVENDUST etc.

Il secondo album “Time’s Up” del 1990 (imperdibile “Love Rears Its Ugly Head“) conferma il grandissimo spessore tecnico ed artistico della band neyorkese ma la consacrazione definitiva è “Stain” del 1993 dove, a mio avviso, c’è uno dei capolavori indiscussi di tutta la musica Hard Rock del ventesimo (e ventunesimo: n.d.a.) secolo: “Leave it Alone”.

A causa di screzi interni la band si scioglie nel 1995 e bisognerà attendere quasi 10 anni per la pubblicazione di “Collideøscope” che lancia il gruppo verso un nuovo corso artistico senza tralasciare però le origini. L’album contiene due cover: “Back in Black” degli AC/DC e “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, degne di nota “Flying” ed “In Your Name”.

Nel 2009 esce “The Chair in the Doorway” dove l’anima jazz e blues di Reid e del “pacchetto” Wimbish-Calhoun emergono con il supporto del soul di Glover. Infine l’atteso EP “Mixtape”, uscito il 9 settembre dello scorso anno che contiene una personale versione di “Who Shot Ya” di Notorius B.I.G. ed alcuni remix della stessa (l’EP prende ispirazione dal dilagare della violenza tramite l’uso di armi da fuoco e verso le persone di colore da parte della polizia americana; n.d.a.).

Ho seguito i LIVING COLOUR sin dagli inizi, li ho visti dal vivo due volte, ho seguito perfino un live “estremo”  denominato “Suoni dallo Spazio” dove Reid, durante la pausa solista, si cimentava in manipolazioni di effetti sonori di ogni sorta e vi assicuro che è difficile vedere ancor oggi uno show così “micidiale”.

Amo questi quattro straordinari musicisti ne(g)ri che hanno modificato lo sterile assunto di derivazione “white trash” e cioè che per essere una Hard Rock Band bisogna essere necessariamente bianchi!

E allora… what your favorite color? LIVING COLOUR!

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=i6p3Es4TJJA&w=640&h=480]

 




Trump, nessuna meraviglia…

Siamo giunti ad un momento epocale, un periodo in cui avvengono le svolte storiche, il mille e non più mille, siamo nell’era del Trumpismo…

 

Tutti sappiamo che generalmente le parole con il suffisso -ismo hanno significato astratto, una sorta di generazione del termine che rende e definisce peculiare qualsiasi azione svolta dall’oggetto a cui viene aggiunto il suffisso; una specie di agglomerato di elementi che viene poi usato per definire religioni, movimenti, ma anche caratteri e comportamenti, stili, addirittura congegni (meccanismo, organismo) e linguaggi.

In alcuni casi il nostro amico -ismo si è radicalizzato con -esimo entrando definitivamente nei sostantivi cristianesimo, protestantesimo, dando lustro e valore alle religioni con cui si accompagna.

Ebbene ora siamo al Trumpismo!

Sorridiamo sempre quando accadono queste cose perchè basta un niente per passare dal suffisso -ismo a -istico, da Trumpismo a Trumpistico, che spesso assume valore negativo (elettoralistico) ma che poi rimane come significante collettivo (manualistica, oggettistica).

L’avvento di Trump ha scosso il mondo, noi tutti e gli stessi Americani che l’hanno votato; e già, perché oggi sentiamo dire che tutti scendono in piazza contro il neo Presidente.

Trump in realtà null’altro fa se non quello che aveva detto in campagna elettorale e per cui ha stracciato la sua rivale, peraltro definita da molti media criminale di guerra, con il grandissimo consenso degli Americani.

Ora non riesco a vedere la meraviglia, se metti un gorilla a guardia delle banane ti devi aspettare due cose:

  1. il gorilla non farà avvicinare nessuno alle banane
  2. il gorilla mangerà le banane

Inoltre ti devi anche chiedere, se metti il gorilla a guardia delle banane, cosa fai se poi cambi idea: riuscirai a togliere il gorilla?

In questo momento Trump è a guardia delle banane americane, e la vera meraviglia non è in questo, ma nel fatto che il mondo non riesca a trovare una linea coerente con una delle caratteristiche ormai in decadenza della nostra razza: l’intelligenza.

Se da una parte c’è l’estremismo islamico dall’altra c’è il Trumpismo, se da una parte c’è il razzismo dall’altra c’è il più falso e idiota perbenismo ancora più dannoso del razzismo, se qualcuno dice A ci deve per forza essere qualcuno che dice B, ma non in una forma dialettica, ma sempre più come scontro di religioni.

Quello che dovrebbe essere evidente a tutti è la progressiva corsa verso un campanilismo ottuso, quasi che le crisi che stanno arrivando all’orizzonte del mondo ci facciano mettere la testa sotto una facile coperta di “conosciuto”, di sicuro, di affidabile, di “casa” per cercare una sicurezza non più conosciuta e compresa, ma istintiva e primordiale.

In fondo alla nostra anima, nel luogo più oscuro dei nostri pensieri, ci sono le primordiali reazioni che spesso guidano ancora le nostre decisioni, quelle reazioni che sono ataviche, che ancora istintivamente muovono le nostre paure, il buio, il vuoto, la solitudine, l’altezza e che oggi fanno votare un Trump Gorilla che deve difendere gli Americani dai rumori della giungla.

Tutti vanno in TV a dire che Trump è l’anticristo e che mai si è visto qualcosa di simile, ma cari signori non vi ricordate da bambini, quando nel buio della vostra cameretta spaventati e angosciati del nulla che vi circondava vi bastava lasciare la porta socchiusa, una lucina accesa, la bambola vicino al cuscino? e non vi ricordate che non c’era ragione, il papà e la mamma potevano farvi vedere dentro tutti gli armadi, sotto ogni letto, ma voi la vostra paura del buio, dell’uomo nero, dell’ignoto, non ve la facevate passare, a voi restava la paura finché quel filo di luce non entrava dalla porta.

Trump è per la classe media americana la porta socchiusa, un cerotto per la bua , una risposta alla pancia che usiamo quando abbiamo una paura irrazionale, istintiva.

Chi usa la pancia per decidere al limite digerisce, ma non ragiona.

L’Ignoto è la nostra vera paura di oggi, non trump, non l’Isis, l’ignoto, il non futuro, il non sapere, il non capire, il ragionare solo di pancia…

Le colpe dei padri ricadono sui figli, oggi più che mai nelle giovani generazioni si affaccia un vuoto cosmico, una paura abissale, una certezza di non futuro, manca qualcosa di profondo, Trump può essere anche la lucina della porta socchiusa ma oggi al mondo mancano il papà e la mamma che aprono gli armadi e alzano i letti per farci vedere che non abbiamo nulla da temere.

 




La crisi degli studi professionali, i commercialisti in prima linea

Mi chiedo se è una svolta unita alla consapevolezza oppure siamo alla resa dei conti per coloro che fino ad oggi hanno avuto un atteggiamento di rassegnazione nei confronti di un fisco a dir poco confusionario.

Forse è la volta buona!

 

 

 

 I commercialisti hanno comunicato l’astensione dal lavoro  dal 26 febbraio al 6 marzo, nella settimana del conguaglio Irpef e della dichiarazione Iva.

Un mese già molto complesso, quindi; e le cose potrebbero peggiorare se verrà confermato lo sciopero.

Sul tema è scesa in campo anche l’Autorità di garanzia per gli scioperi e per salvaguardare i contribuenti ha chiesto al governo una proroga dei termini per la dichiarazione Iva, nel caso l’astensione dal lavoro in caso di conferma dello sciopero.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono gli otto nuovi adempimenti per la comunicazione dei dati Iva introdotti a regime dal decreto fiscale collegato alla manovra.

Inutile sottolineare che la presenza dei commercialisti in piazza è finalmente  un segno di  tutta la categoria che solo in poche occasioni ha trovato il coraggio di superare gli individualismi.

Un ulteriore elemento scatenante sono gli otto adempimenti che vanno ad aggravarsi sulle piccole e medie imprese e su tutta la categoria, diversamente è urgente riequilibrare il rapporto tra Fisco e contribuente e impostarlo in senso paritario.

In attesa dello sviluppo degli eventi futuri vorrei fare un punto sulla categoria degli studi professionali, per capire meglio da che parte stiamo andando…….buttare, cioè, un sasso nello stagno.

 

Quali sono le riflessioni:

  • La crisi economica sta riducendo la clientela e soprattutto i margini di guadagno
  • Gli obblighi normativi a base tecnologica sono utili alla professione oppure la appesantiscono
  • I professionisti sono pronti a tenere il passo per uno sviluppo digitale

Personalmente sono anni che organizzo convegni in cui esorto i responsabili degli studi professionali a credere nel digitale in quanto fondamentale per la propria sopravvivenza, a volte mi è sembrato di essere “la voce di Colui che grida nel deserto”.

Un primo elemento che fa la differenza è la dimensione degli studi, che mediamente non superano i 200k  euro  di fatturato, addirittura abbiamo una percentuale pari al 65% che arriva a un massimo di 50k  EURO di fatturato.

E’ importante anche analizzare il tempo dei microprocessi negli studi professionali, fatto cento il totale del tempo lavorativo dedicato dallo studio:

  • 42% tempo dedicato alle attività primarie dello studio
  • 8% alla formazione
  • 9% attività ICT
  • 12% attività di archiviazione dei documenti
  • 5% amministrazione del personale
  • 7% acquisti
  • 17% amministrazione di studio

E’ interessante constatare che i commercialisti a differenza degli altri studi professionali sono propensi ad introdurre nella loro offerta nuovi servizi complementari alle attività dello studio, e spiccano servizi come:

  • Formazione tecnica per quanto riguarda la sicurezza e privacy
  • Consulenza su startup
  • Fatturazione elettronica
  • Consulenza finanziaria

Negli ultimi tre anni ho avuto modo in diverse occasioni di confrontarmi con responsabili di studi professionali e credo di avere chiaro quali sono  i fattori che incidono sulle loro scelte di investimento in nuove tecnologie.

38% ritiene l’investimento tecnologico elevato

14% ritiene difficoltoso il cambio delle abitudini

11% ritiene che le priorità dello studio sono altre

37% ritiene difficile proporre ai propri clienti nuovi servizi a pagamento

I dati sopra riportati sono evidenti e siamo alla resa dei conti, spero in una maggiore consapevolezza da parte dei responsabili di studio professionali e che la ribellione dei commercialisti faccia un po’  da “porta bandiera”.

Auguri!!!

 

 




Nebbia in Agosto, il nazismo e le sue radici ideologiche più profonde.

Finiremo mai di scoprire gli orrori del Nazismo? Nebbia in Agosto, di Kai Wessel

In occasione della giornata della memoria sono usciti nelle sale italiane, tra gli altri, due nuovi film, Il viaggio di Fanny di Lola Doillon e Nebbia in agosto di Kai Wessel, accomunati dal racconto dell’Olocausto con bambini come protagonisti e con l’intento, non sempre pienamente riuscito, di produrre un forte coinvolgimento emotivo dello spettatore contrapponendo la bellezza e la poesia di alcune scene all’oscurità ed all’orrore dei crimini del regime nazista.

Entrambi i film, come altri usciti nelle sale in questi giorni, raccontano ancora una volta le atrocità del nazismo e la follia di uno dei periodi più bui e vuoti di senso della storia dell’umanità e ci inducono a riflettere anche su alcuni eventi contemporanei e sulle derive a cui possono portare.

“È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”, scrisse Primo Levi, scrittore e partigiano. Queste parole risuonano quanto mai preoccupanti in un mondo in cui i populismi ed i nazionalismi dei vari paesi alzano la testa e si riaffermano proponendo, ancora per fortuna solo nei proclami, disegni isolazionisti e di supremazia, fondati su programmi che privilegiano gli interessi egoistici di un gruppo – spesso a scapito dei diritti umani più elementari degli altri – e che potrebbero presto trovare una legittimazione ideologica della  superiorità della propria visione e del diritto di poterla imporre agli altri.

Le scelte dell’America di Trump, la politica di Orban in Ungheria, i programmi dei vari populismi europei, anche per la forza e la violenza verbale con cui vengono propagandati  ed ai consensi popolari che riescono a trascinare, facendo leva sulla paura e sulla demagogia, non stanno gettando i semi che potrebbero degenerare in futuro – come accadde in passato – in uno stato etico e totalitarista?

Le società attuali e le coscienze dei singoli possiedono oggi gli anticorpi necessari per impedire che un’élite di potere, dopo aver preso il potere con il voto popolare, riscriva una nuova tavola dei valori morali, simile a quella della Germania Hitleriana degli anni 30-40 e pretenda di realizzarla con la legge e con la forza?

Ciò premesso, tra i due, analizziamo Nebbia in Agosto, tratto dal romanzo omonimo di Robert Domes, perché fa luce su un aspetto non sufficientemente raccontato anche se centrale nella ideologia del Terzo Reich, quello dei programmi di eugenetica, cioè di miglioramento della razza ariana mediante la sistematica eliminazione non solo delle etnie minori, ma anche delle persone improduttive perché ammalate, emarginate, deboli, handicappate, minorate, che il regime considerava parassiti e definiva “sottouomini”.

Il film racconta la storia vera di Ernst Lossa, ragazzino di 13 anni appartenente all’etnia nomade jedesh, orfano di madre e figlio di un venditore ambulante, che finisce nell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren nella Germania nazista dell’inizio degli anni 40, il cui  direttore applica meccanicamente e spietatamente le direttive di Berlino sull’applicazione dell’eutanasia sia al reparto psichiatrico che al reparto pediatrico, inventando sistemi raffinati ed atroci per far morire di fame i suoi pazienti senza che se ne accorgano ed a costi irrisori e somministrando un succo di lampone ai barbiturici per eliminare – senza dare troppo nell’occhio nei confronti della opinione pubblica – bambini malati o affetti da handicap.

Ernst, che arriva con la fama di ragazzo problematico e sbandato, presta inizialmente fiducia alle parole rassicuranti del medico e si fa ben volere all’interno della clinica sia lavorando che aiutando i ragazzi più deboli dando prova di grande umanità.

Quando scopre che un numero crescente dei suoi amici muore per misteriose e fulminanti polmoniti e capisce che vengono uccisi deliberatamente cerca di ribellarsi con tutta la forza della sua innocenza e non è l’unico.

Il conflitto tra l’esecuzione degli ordini e del proprio dovere e la voce della coscienza emerge con forza nella figura della sorella Sophia, una suora a capo delle infermiere che, quando scopre i nuovi programmi del direttore della clinica, attuati per il tramite di una nuova infermiera inviata da Berlino, prova a ribellarsi e paga con la vita le conseguenze del suo gesto.

Quando incontra il suo Vescovo per chiedere di essere esonerata dal servizio, egli la invita a continuare il suo servizio e le risponde: “due fedi diverse si confrontano, una che dura da due anni ed una che dura da duemila anni. Vedrà, supereremo anche questa”.

In questo dialogo il pensiero è corso alla famosa e controversa formula coniata da Hannah Arendt, quando pubblicò i suoi reportage del processo al gerarca nazista Adolf Eichman in un libro dal titolo “La banalità del male”, sostenendo la tesi che solo il bene è radicale, mentre quel male era banale, perché dovuto all’assenza di pensiero critico e di coscienza di quella parte del popolo tedesco che lavorava nella macchina dello sterminio  con la convinzione che ciò rientrasse semplicemente nella esecuzione del proprio dovere e degli ordini dei superiori gerarchici e perciò stesso morali.

Anche il medico, direttore della Clinica, interpretato da un bravissimo Sebastian Koch così come tutti gli altri medici impegnati nel programma, si comportano esattamente come Eichman e potrebbero recare le stesse giustificazioni, convinti di agire addirittura nell’interesse e per il bene delle persone eliminate.

Quando Ernst, disperato, perché lo sciroppo di lampone era stato somministrato ad una bambina sua amica, lo smaschera nella scena più drammatica del film e gli grida che è solo un assassino ed un criminale, la reazione del medico è quella prevedibile e svela la sua vera natura.

I titoli di coda ci ricordano tristemente il bilancio di questo ennesimo crimine contro l’umanità perpetrato dal nazismo che tra il 1939 ed il 1944 ha provocato la morte di oltre 200.000 persone innocenti, col pretesto di una pietosa eutanasia ma con lo scopo di affinare la razza ariana.

Entrambi i film sono bellissimi e da vedere.

Solo se manterremo sempre vivida la memoria dell’orrore e del male assoluto nelle sue manifestazioni storiche le nostre coscienze sapranno mantenere la capacità di distinguere tra bene e male ed intatta la forza di non abbandonarsi all’apatia civile se qualcuno tentasse di condurci di nuovo nel buio della storia.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




Festival di San Remo, ultima fortezza del monopolio della Musica!

 

Ma com’è possibile che ancor oggi continui ad esistere “il Festival della Canzone Italiana”, detto comunemente “Festival di Sanremo”?

Una domanda che mi pongo da anni, dal lontano 1975!

Lo storico britannico Eric J.E. Hobsbawm (1917-2012), nel suo celebre volume Age of extremes The short twentieth century, 1914- 1991 (1994) ha definito il secondo dopoguerra in Italia una nuova «età dell’oro», mettendo in evidenza che si trattò di anni di «straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità» (trad. it. Il secolo breve, 1995, p. 18).

Straordinaria trasformazione sociale che ha favorito pure la nascita del Festival di Sanremo in cui la canzone italiana ha iniziato ad emergere dal sottosuolo e tutto  questo è andato pure bene nel decennio 50-60 ma poi avrebbe dovuto arricchirsi, cambiare continuamente, sperimentare, veder crescere nuovi talenti ed invece? Nulla di tutto ciò!

Non annoierò il lettore con la lista di presentatori, presentatrici e vallette di turno che si sono avvicendate nel corso delle edizioni del Festival di Sanremo (complici di aver permesso uno scempio artistico di dimensioni apocalittiche; n.d.a.) perché non potrei esimermi dall’avviare una personale controversia su MUSIC in merito a personaggi “limite” come Luciana Littizzetto, diavoletto antipatico, neanche troppo comico, intriso di sarcasmo elitario da “radical chic”; non ritengo infatti la nostra rubrica lo spazio appropriato.

Non tedierò nemmeno con la striscia di vincitori del Festival dal 1951 al 2016 ma citerò alcuni artisti che hanno fatto la storia della “Canzonetta” italiana ed altri che risultano dei prodotti “in vitro” dell’industria discografica “mordi e fuggi”. 

“Grazie dei fior”: Nilla Pizzi con questo pezzo vinse il primo Festival (1951) bissando l’anno successivo con “Vola Colomba”, grande Nilla, onore ai primi!

Claudio Villa (1957): “Corde della mia chitarra”… grandissima voce, ho riascoltato il pezzo… non male!

Domenico Modugno nel 1958 (Feat. Johnny Dorelli): “Nel blu dipinto di blu”.

Ecco… questo pezzo ha fatto la fortuna di centinaia di migliaia di intrattenitori e, non me ne voglia il maestro e amico Filippo Segato (peraltro uno dei pochi musicisti ed intrattenitori che si eleva dalla massa di assoluti cialtroni; n.d.a.) se parlo male di quelle tipologie di ectoplasmi in cerca di successo, dilettanti della musica,  pianisti o cantanti falliti che arrotondano qualche euro in bettole sconosciute dell’hinterland delle piccole e grandi città: i “karaokisti”!

Categoria quella dei “karaokisti” che, mi si permetta di dire, hanno contribuito ad abbassare il livello culturale, già molto basso, della musica in Italia e pure all’estero (quante volte in zone balneari è capitato di rabbrividire udendo indecorose orde germaniche in preda all’alcool sbraitare “…nel plu dhippinto di plu”; n.d.a.).

Gigliola Cinquetti: “Non ho l’età” (1964), “Zingara” (1969) di Bobby Solo, Toto Cutugno, il “Totone” nazionale, che con “Solo noi” del 1980 vive ancor oggi ed ancora i Ricchi e Poveri che nel 1985 vincono il Festival con “Se m’innamoro”.

Poi Ramazzotti vincitore nel 1986 con “Adesso tu” (ricordo di essermi inizialmente vergognato a comperare il 45 giri di questa canzone da regalare ad una ragazza che era perdutamente innamorata di Eros! Ma vi assicuro che furono soldi ben spesi! N.d.a.).

Vogliamo parlare dei vincitori dell’anno seguente (1987)? La premiata ditta Morandi-Ruggeri-Tozzi che con “Si può dare di più” sanciva la nascita della Nazionale Cantanti.

Poteva forse non arrivare prima la canzone che ne sarebbe  diventata l’inno? Subdola operazione!

E poi Anna Oxa, Fausto Leali, i Pooh, Luca Barbarossa, Massimo Ranieri, Riccardo Cocciante, Ron e Tosca (non si sa dove sia sparito Ron, figuriamoci Tosca!!!), la straziante “montatura mediatica” di Annalisa Minetti, la cantante non vedente.

E ancora Marco Masini (il “santo protettore” dei maniaci depressivi!).

E poi l’anno della “svolta”: il 2009, l’anno dell’impronta “Talent-Oriented”. A parte Vecchioni e gli Stadio inizia dal 2009 la pletora dei bimbiminkia: Marco Carta Valerio Scanu, Emma, Marco Mengoni, Arisa, il Volo.

Continuum spazio-temporale di “Amici”, “X-Factor” ed altri tristi programmi televisivi simili, i poveri giovani dementi vengono spremuti fino all’osso da parte delle case discografiche, celebrati per una sola stagione ed infine sbattuti in TV.

Senza ripetermi (si vedano i miei articoli in archivio MUSIC di BetaPress.it; n.d.a.) prendo a prestito un frammento di uno splendido pezzo del 2014 di Claudio Milano, collaboratore di OndaRock: “Sanremo è l’ultimo, disperato avamposto Siae, una delle poche possibilità per il monopolio di alcune «label» di tirare i remi in barca in piena crisi, ma anche e proprio per questo, in una nazione così pigra come la nostra e disposta esclusivamente a lasciarsi indottrinare da un suono che attraversa senza (apparentemente) lasciar traccia, un ritrovo voyeurista attorno ai pochi pregi e ai tanti difetti del nostro nevrotico e scoraggiante “essere/ apparire/ sperare d’essere riconosciuti a guisa di una proiezione ideale di sé”.

Due grandi fortune ha avuto negli anni il Festival di Sanremo: la prima è l’immensa ignoranza in cui imperversa il nostro paese completamente dipendente da TV e radio in cui artisti come Ricchi e Poveri da una parte e Scanu e Mengoni dall’altra sono talmente “spinti” e “video esposti” dalle produzioni discografiche che è quasi impossibile non conoscerli a dovere; la seconda fortuna del Festival è stata quella di ospitare artisti internazionali sul palco dell’Ariston che hanno fatto “schizzare in alto” gli share d’ascolto durante le loro esibizioni sanremesi.

Barry White, Tina Turner, i REM, Peter Gabriel, i mitici KISS, la splendida Whitney Houston (unica artista nella storia del Festival ad eseguire un bis; n.d.a.), «sua maestà» Madonna, i Def Leppard, i Saxon, i Van Halen, i Queen, i Duran Duran, Sting.

E… per fortuna che c’erano i Big internazionali! Altrimenti che pena!

Tornando alle canzoni italiane ebbene sì caro lettore quelle che mi sono piaciute di più negli ultimi quarant’anni di Festival si contano sul palmo di una mano e neanche tutte vincitrici. “Tracce di Te” di Francesco Renga del 2002 classificatasi all’ottavo posto (primi i Matia Bazar con “Messaggio d’amore”; n.d.a.) è a mio avviso, un vero e proprio capolavoro: “Venderei a pezzi la mia vita per essere un minuto come vuoi…”, parole che commuovono e che hanno reso immortale il rapporto con la madre, scomparsa di leucemia quando lui non aveva neanche vent’anni.

Il brano fu singolo d’esordio del fortunato album Tracce, che, uscito subito dopo il festival aprirà a Francesco, cantante e co-fondatore degli storici Timoria, le porte del pop più commerciale.

E’ curioso che, la canzone giunta ottava al Festival, diventi la “title-track” del suo primo disco di… platino! Altro dito del palmo della mia mano: Giorgia vincitrice nel 1995 con “Come saprei”, indubbiamente splendida voce e buon testo.

Ma la mia preferita (anch’essa non arrivò al podio; n.d.a.), pur non essendo un ammiratore del rocker di Zocca, è di Sanremo 82: “Vado al Massimo” di Vasco Rossi.

il pezzo ruppe con lo schema metrico tradizionale e, magistralmente interpretata, liberò tutta quell’ironia e quella rabbia tipica del “Blasco Nazionale” che il pubblico celebrerà da allora fino ai giorni nostri.

Per il resto, il Festival di Sanremo è stata (ed è; n.d.a.) la solita musica: canzonette & potere mediatico… uno schiaffo a tutti quegli artisti che di giorno sono camerieri e di notte scrivono pezzi nuovi, belli autentici!

Caro lettore esci dal mondo dorato di “Sanremo-Matrix” e, come diceva il mitico Morpheus: “…pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai ancora a… Sanremo!”

 

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