Il mondo delle chat come espressione di vero dramma della solitudine

Chatto dunque sono…

Ho deciso di sperimentare, possibilmente senza giudicare, il mondo occulto e distorto dell’amore virtuale.

Ecco, ho già espresso un giudizio…

Il mio problema è che voglio capire bene il dramma vissuto da tanti che frequentano le chat, cioè che chiacchierano su Internet con persone che non conoscono personalmente e di cui non hanno neppure mai sentito il tono della voce.

Come mai quest’attività spesso crea una forte dipendenza?

Perché sull’altare di un amore virtuale, molti di noi, arrivano a compromettere quello reale? Forse perché il rapporto interpersonale che si instaura in una chat è potenzialmente perfetto, intoccato ed intoccabile, a causa del fatto che non risente delle limitazioni dovute alla conoscenza diretta (aspetto fisico, mimica, tono di voce, ecc.).

Il rapporto on-line permette una grande liberazione della fantasia, una diretta gratificazione dei propri desideri.

Chattando, si provano emozioni molto forti, perché si gioca a sperimentare (anzi, in un certo senso si vive veramente) un rapporto che è quello che avremmo sempre voluto avere, quello che ciascuno di noi ha dentro di sé, come modello ideale di rapporto.

Parlando nascosti dietro un nickname, stereotipati in un cocktail di misure fisiche ottimizzate e di interessi mentali sublimati, incasellati in un profilo di sé perfetto, ci si sente capiti, si possono condividere tante cose, si ritorna a quello stato di grazia di una “cotta” adolescenziale.

“L’amore al tempo del colera” dei nostri quattordici anni, era basato molto sulla fantasia, e non a caso, bastava una foto, una stimolazione minima, per far scattare dentro di noi quella complessa reazione psico-affettiva, che chiamavamo amore.

In effetti, prima scoperta, alcuni amano soprattutto chattare, mentre hanno resistenza ad incontrarsi, o anche solo a telefonarsi. Apparentemente questo è paradossale: se ci si piace tanto on-line, perché allora non incontrarsi, di persona? Ma questa resistenza non è contraddittoria, anzi, è razionalmente logica e psicologicamente umana.

Ed ha un nome: PAURA.

E’ la paura di conoscersi meglio, è la paura di barattare il sogno perfetto, con la realtà imperfetta, il virtuale con il reale.

Perché, più ci si conosce, più gli aspetti di realtà, necessariamente, tolgono spazio alla fantasia e limitano la possibilità di provare quei forti sentimenti che erano sbocciati dentro di noi. Infatti, quel complesso di stati affettivi, che in genere chiamiamo amore, si basa sempre su un grado di idealizzazione, di deformazione della persona amata, affinché essa rientri meglio nel modello che ci portiamo dentro. Questo è un meccanismo normale, utile al nostro adattamento e funzionamento sociale.

Dunque, ogni volta che ci innamoriamo, avviene una sorta di abbinamento tra un’immagine interna ed una esterna.

L’esterna deve, però, essere capace di evocare quella interna, perché, solo attraverso quest’evocazione, che produce il piacevole stato psico-affettivo e motivazionale, viviamo l’esperienza dell’innamoramento.

Ecco perché, così tanti, sono bisognosi di essere costantemente innamorati: per prolungare all’infinito questo stato di grazia.

Così, ho scoperto che ci sono persone che stanno benissimo solo in chat, individui che mi hanno raccontato che, mentre davanti ad uno schermo provavano un grande piacere ad aprirsi, una volta al telefono, con quella stessa persona con cui avevano chattato per giorni interi, non sapevano più cosa dire, si bloccavano, provavano imbarazzo, gelo, inibizione dei sentimenti.

Il motivo, con tutta probabilità, è che il tono della voce aumenta molto la conoscenza e quindi l’intimità, ed allora, subito, cresce la paura che quello che proviamo sia inappropriato. Il telefono è la prima “prova del nove”, il primo tentativo di tornare con i piedi per terra.

Ma è soprattutto quando ci si incontra “dal vivo”, che si è alla resa dei conti.

A quel punto, anche solo davanti un caffè, in un bar, si è maggiormente in contatto con una persona reale, e non più con quell’immagine precedentemente prodotta dalla nostra fantasia.

E, qui, viene il bello…

Amara scoperta, adesso, davanti a quella tazzina di caffè, quell’immagine non può più essere evocata con la stessa facilità.

Tutta la nostra psiche è in uno stato di allerta, adesso il nostro inconscio entra in collisione con il nostro conscio, ora bisogna “lavorarci sopra”, cioè fare un certo lavoro per adattare la nostra immagine interna alla nuova.

Prima conseguenza, la FUGA, il rinunciare alla fatica del confronto, perché, conoscersi per davvero, è faticoso.

Infatti, privata della dimensione ludica del virtuale, l’impegno di una conoscenza reale comporta dei rischi, non ultimo, quello di non riuscire più a provare le cose che provavamo prima.

Ma, questo, è il normale percorso dello sviluppo dei sentimenti: in certi casi, quando all’inizio non eravamo tanto innamorati, una conoscenza approfondita fa aumentare l’amore, mentre, se siamo già molto innamorati di una persona che conosciamo poco, può accadere che, con la conoscenza, il sentimento diminuisca o comunque si modifichi molto.

Dunque, è tutto così rischioso e deprimente in una chat? Tutti i rapporti basati prevalentemente sulla fantasia sono destinati a fallire una volta che ci si vede? Assolutamente no!!!

Possono essere delle opportunità, molto belle, per conoscere e esprimere delle emozioni che abbiamo dentro, pronte a sbocciare.

Forse, il chattare con un estraneo, è una specie di terapia domestica, di psicanalisi “fai da te”…  In una chat, si verifica un po’quello che gli addetti ai lavori chiamano transfert, cioè quell’insieme complesso e delicato di sentimenti che possono emergere nei confronti del terapeuta. Un paziente, in cura da uno psicologo, assume la consapevolezza di sé, scopre e conosce sentimenti, soprattutto come sono stati i suoi precedenti rapporti significativi (col padre, con la madre ecc.,.) di cui appunto il rapporto trans-ferale è una sorta di riedizione .

Non a caso, lo psicoanalista classico cerca di non farsi conoscere dal proprio paziente, di comportarsi in modo abbastanza anonimo, appunto per non distruggere questa potenzialità (ben sapendo che eliminare del tutto la propria influenza è impossibile).

Ed in genere, il paziente ha paura di conoscere meglio il proprio terapeuta, ad esempio, si trova a disagio se lo incontra per strada, appunto perché, inconsciamente, sa che quel suo rapporto trans-ferale è prezioso e vuole preservarlo. Il paziente difende quel rapporto perché sa che, quella relazione asettica, gli fornisce conoscenza ed esperienze importanti utili alla terapia di cui ha bisogno.

Certo, il paziente vorrebbe anche conoscere il proprio terapeuta (così come chi chatta vorrebbe conoscere la persona con cui chatta), ma questo desiderio è in conflitto con la paura di perdere quell’altra cosa, basata sulla fantasia, a cui tiene molto.

Io, in passato mi sono interessata alla psicoterapia reale, ora sono attirata da quella on line (cioè tramite Internet), e ho notato un curioso paradosso: molti psicoanalisti sono scettici verso questa nuova potenzialità di Internet, eppure non si rendono conto che la psicoterapia on line estremizza (direi quasi in modo caricaturale) proprio alcuni aspetti centrali dell’approccio psicoanalitico reale.

Infine, per chi è guarito da questa prima fase, si rimanda alla prossima puntata, ma ad onor del vero, non l’ho ancora verificata…

 

Antonella Ferrari