Il docente invisibile

Leggo sui siti dedicata alla scuola che vi è una proposta del Ministero della Pubblica Istruzione per limitare i passaggi a cattedra dei docenti di sostegno, che sono pochi e tendono, dopo i 5 anni di obbligatorietà, a  ritornare su cattedra e per questo sono disposti a lasciare sedi “comode” e conosciute per sedi magari lontane o in montagna con conseguente disagio.

Il Ministero, come sempre, risponde con divieti e norme volte a penalizzare i docenti, invece di chiedersi come risolvere il problema alla fonte.

Perché i docenti di sostegno decidono di tornare in cattedra?

La risposta è abbastanza semplice: perché non sono considerati docenti, né dai colleghi, che li vedono come degli scansafatiche, privilegiati, perché” non hanno le classi”, “non fanno niente”, “ hanno pochi alunni” , “ non sarebbero in grado di insegnare”, e dai genitori degli alunni della classe come “quelli incapaci di insegnare, perciò puniti  con questo ruolo”.

IL docente di sostegno è in realtà docente pluri specializzato, poiché ha almeno due specializzazioni, talvolta anche più di due; è un docente della classe che deve favorire l’integrazione dell’alunno disabile, ma non è un precettore privato per un solo ragazzino; il docente di sostegno è una risorsa, poiché è chiamato a provare e trovare altre strategie per insegnare contenuti complessi.

Tutto questo è un docente di sostegno, ma molto spesso non si sente così, sente di aver perso qualcosa, di non avere un ruolo definito e si trova a fronteggiare da solo situazioni complesse, che non sono prese in carico dagli altri docenti, ma solo da lui, perché non viene consultato talvolta neppure per quanto riguarda il “suo alunno”, perché sente di non avere un ruolo definito, di non godere della stima degli altri professori, di essere in altre parole invisibile, se non addirittura il capro espiatorio del gruppo docente.

Quale potrebbe dunque essere la soluzione? Poiché no ho fiducia che cambi la percezione sociale del ruolo docente, tanto meno di quello di sostegno, ritengo che sarebbe utile intanto , come alcuni dirigenti illuminati hanno già pensato e fanno, fare in modo che i docenti di sostegno siano chiamati a tenere lezioni su argomenti , ovviamente della propria materia, alla classe nella quale esercitano, in modo che i ragazzi possano percepire il docente di sostegno come un docente effettivo e i colleghi possano confrontarsi nel proprio modo di insegnare con altre strategie  e metodi; ovviamente ciò dovrebbe essere imposto dall’alto, poiché i docenti sono spesso gelosi della propria classe e refrattari a ogni confronto costruttivo ( generalizzando, si intende, poiché esistono molti insegnanti disposti al cambiamento e alla autocritica).

Ne lungo periodo suggerirei al Ministero di operare in modo che ogni docente debba fornire una parte di orario da dedicare al sostegno, in altre parole, che, per ogni insegnante curricolare, almeno una porzione di orario ( 4 /5 ore settimanali) sia dedicata ai ragazzi diversamente abili, in modo che imparino a conoscerli, a comprenderne le difficoltà e a capire quali strategie utilizzare.

Ovviamente ciò non sarà e quindi diaspora sia !!

 

Paola Delibra

 




Mors tua, vita mea.

Mors tua, vita mea.

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici irresponsabili e, amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia.

Sembra quasi che l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù, ma una legittima opinione.

Quante volte, discutendo, abbiamo detto: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?

Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo.

Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema.

Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo.

Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico.

Se uno non ha un nemico, non riesce a caratterizzare sé stesso.

Secondo il noto psichiatra Vittorio Andreoli, stiamo vivendo un periodo di regressione antropologica, un’epoca in cui si agisce in base alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici.

Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.

E’ considerare l’altro inferiore, perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo.

Se uno è diverso da te, è un nemico, e va combattuto. Si torna a fare la guerra, perché il diverso è un nemico. Il nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera.

E, così come c’è una gerarchia dei potenti, così c’è anche una gerarchia delle razze.

Perché sono presi di mira solo alcuni. Anche se, paradossalmente, il razzismo unisce.

Il razzismo non esclude nessuno. Il razzismo e i pregiudizi sono universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni.

E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio.

Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia, ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto.

Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più?

Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata, ma non vissuta. L’Italia è un Paese che, come tutto l’Occidente, sta regredendo alla irrazionalità, all’uomo pulsionale.

” Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.”, così si esprime Vittorio Andreoli. “Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che, all’origine, c’è sempre una esclusione. E’terribile, stiamo diventando un popolo incivile”, così continua il noto psichiatra.

Secondo lui, nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali. “Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”.

Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza”.

Di fronte a questa disamina, tanto negativa quanto realista, della nostra società, un unico consiglio, da parte di Vittorio Andreoli.

“Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa.  Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti”.

Infine, riguardo al formarsi del pregiudizio nella mente delle persone, lo psichiatra ci avverte: “L’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti”. Secondo lui,” quando gli individui nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo”.

Purtroppo, oggi, sui social, non si nasconde più il proprio pensiero. lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano sempre più violente e l’espressione dei pregiudizi, magari formulati anche in modo razionale, serve solo a rafforzare l’ego di chi parla.

Tristemente vero.

Ed ancora più grave. Perché, un tempo, se un individuo pieno di false credenze e di pregiudizi razziali stava zitto in pubblico, e si esprimeva solo a casa, agiva male in famiglia, o con un gruppo ristretto di interlocutori.

Adesso, diventa un’azione diffusa, per gli individui al tempo dei social, parlare a vanvera. Anche da casa, incollati allo schermo e alla tastiera di un computer. E’ normale, tribalmente normale, sfogare le proprie pulsioni, trasformarle in vera e propria propaganda politica, e concorrere al degrado sociale. Per tornare tutti insieme, appassionatamente, al “mors tua, vita mea”…

 

Antonella Ferrari



PROFESSIONE DOCENTE: MISSION IMPOSSIBLE!

La professione del docente non è cosa da tutti, ma è percepita come se lo fosse.

L’altro giorno una mia collega giovanissima mi ha detto che non intendeva partecipare ai consigli di classe perché ha un altro lavoro ed è a scuola per una supplenza, che spera comunque breve, ma intanto qualcosa si guadagna.

Il professore è quindi un mestiere ricettacolo, nel quale ognuno, proveniente da esperienze diversissime, ma in possesso di una laurea in una qualche materia, si sente capace di cimentarsi.

Nessuno però dice che il mestiere dell’insegnante è faticoso, forse perché la vulgata è che i professori non facciano niente, scaldino i banchi, siano insoddisfatti e rancorosi e godano di ferie infinite, insomma che non guadagnino la pagnotta.

Eppure ai colloqui raccogliamo genitori in lacrime, che chiedono consulenze sulla gestione dei figli, perché questi ultimi trovano nella scuola, nei docenti e nei compagni un punto di riferimento, ascoltiamo lamentele, pettegolezzi, reprimende, perché il genitore ha necessità di comunicarti tutto ciò che concerne il figlio, fin nei minimi particolari.

Quindi dobbiamo essere un po’ psicologi? Si anche.

Ma non è finita, perché al varco ci aspetta la burocrazia, con quantità enormi di documenti da compilare, PDP, PEI, Programmazioni per competenze, programmazioni di classe e infine la vera parte didattica che comprende il saper veicolare la materia nel modo più comprensibile possibile, perché in classe abbiamo mediamente due o più stranieri appena arrivati, qualche ragazzo con disturbi dell’apprendimento, qualche ragazzo che non riesce proprio a concentrarsi e allora ci dobbiamo anche improvvisare attori.

Le verifiche? Devono essere oggettive , inattaccabili con punteggio chiaro e definito, scritte e stampate con carattere leggibile, ma soprattutto diverse, per i ragazzi stranieri, per quelli con difficoltà di apprendimento, che sono diverse tra loro, insomma da una verifica ne spuntano magicamente 8 o 9 diverse.

Estenuanti collegi docenti nei quali si deve decidere tutto perché tutto deve essere rintracciabile e sancito dal collegio: progetti, iniziative, attività; poi il lavoro che riguarda l’organizzazione delle uscite didattiche, delle gite scolastiche, le riunioni per materia, la correzione delle verifiche e qui mi fermo per pietà.

Una però è la cosa tra tutte che rende questo mestiere non accessibile a tutti indiscriminatamente: il cuore, perché ci vuole cuore per capire che questi ragazzi hanno bisogno di noi per crescere e imparare, ci vuole cuore per avere pazienza e passione e equilibrio.

 

Paola Delibra