ANCoDIS: ennesima presa in giro

Noi di Betapress abbiamo ormai da un anno segnalato in più riprese l’assurda situazione dei collaboratori dei Dirigenti Scolastici.

Ed in più occasioni abbiamo dato voce alle segnalazioni di ANCoDIS che strenuamente cerca di difendere una posizione che è fondamentale per la scuola italiana, vi rammentiamo alcune delle segnalazioni:

https://betapress.it/index.php/2017/06/18/ancodis-batte-miur-non-risponde/

 

https://betapress.it/index.php/2018/04/14/presidi-e-vicepresidi-tutti-in-ferie-per-protesta/

https://betapress.it/index.php/2018/07/14/ancodis-i-vicepresidi-lavorano-eccome/

https://betapress.it/index.php/2018/01/06/ancodis-basta-le-demagogie/

https://betapress.it/index.php/2018/02/11/ancodis-firmato-contratto-docenti-inadeguato/

https://betapress.it/index.php/2018/09/26/vicepresidi-e-chi-sono/

https://betapress.it/index.php/2018/07/17/dirigente-o-non-dirigente-questo-e-il-problema/

 

per l’ennesima volta lo Stato se ne frega altamente delle professionalità che ha sottomano e preferisce buttar via i soldi per far entrare nelle sue file persone a cui dovrà fare anni di formazione invece che agevolare chi questa formazione l’ha fatta sul campo per anni!!

riportiamo una segnalazione giustissima di ANCoDIS:

 

COMUNICATO STAMPA del 19 gennaio 2019

 

ANCoDiS: emendamento al D.L. 989 in merito alle procedure di semplificazione nella P.A..

Ennesima discriminazione dei Collaboratori dei DS.

 

E’ in corso nella 1a Commissione Affari Costituzionali del Senato il confronto parlamentare sul DECRETO-LEGGE 14 dicembre 2018, n. 135 “Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione”.

Da fonti di stampa leggiamo che – tra i temi della semplificazione – è stato proposto un emendamento unico che prevede una nuova modalità di selezione dei futuri Dirigenti Scolastici che di fatto supererà la procedura del corso-concorso previsto dalla Legge 107/2015 abbreviandone le fasi ed, in particolare, il percorso di formazione conclusivo.

Riteniamo ragionevole per i tempi ma non sufficiente tale iniziativa in quanto continua a non tenere conto delle professionalità presenti nella scuola italiana a partire dai Collaboratori del DS nominati ai sensi dell’art. 25, comma 5, del D.lgs. n. 165/2001.

La selezione per il ruolo di Dirigente Scolastico – oggi molto complesso proprio per le peculiarità di una autonoma Istituzione scolastica (funzioni organizzative, gestionali, di indirizzo, di promozione) – non può non tenere conto di quei docenti che in anni di servizio prestato alla collaborazione di DS titolari e reggenti hanno acquisito indubbie competenze in ordine ai temi della governance di una scuola.

Si tratta di donne e uomini (insegnanti in primis) che investono tempo ed energie in servizio dedicato anche alla gestione ed all’organizzazione della propria scuola, nella formazione specifica, consapevoli di un ruolo che, seppur non riconosciuto dallo Stato, è oggi più che mai necessario in ogni Istituzione scolastica.

Nell’espletamento del concorso che è in fase di svolgimento non si è voluto riconoscere tutto questo!

Ci era sembrato allora uno “schiaffo morale” per quei docenti professionisti (con esperienza professionale di insegnamento con un certo numero di anni di servizio nella funzione docente) che non chiedono facili scorciatoie ma giusti riconoscimenti in considerazione del fatto che hanno acquisito competenze e professionalità che – indiscutibilmente – sono sotto gli occhi di tutti.

In merito alla specifica formazione possiamo affermare senza dubbio alcuno che, grazie alla attività di collaborazione, essa è per noi “esperienza formativa” sul campo (esperienza professionale gestionale, nel diritto scolastico ed amministrativo, nel coordinamento, nella sicurezza, nella programmazione), acquisita   attraverso il confronto quotidiano con i DS, con i DSGA, con i colleghi, con gli alunni, con le famiglie.

Per queste ragioni Ancodis chiede al Legislatore di prendere atto di questa iniqua condizione e di riconoscerne formalmente la loro professionalità anche nelle fasi concorsuali che invece li hanno visti nel passato completamente discriminati.

Occorre procedere ad un riconoscimento di tale servizio nella carriera docente ed anche nel concorso per la selezione dei futuri DS (in diversi paesi europei per concorrere si deve certificare un’esperienza almeno triennale nella governance della scuola).

E’ un “risarcimento morale” per chi – in tanti anni scolastici – ha servito la Scuola Italiana senza nulla ricevere in cambio!

Chiediamo, dunque, l’integrazione dell’Art. 10 Decreto Legge 14 dicembre 2018, n. 135 prevedendo per i Collaboratori in possesso dei titoli richiesti per l’accesso alla carriera dirigenziale nella P.A. il riconoscimento del servizio reso (almeno 36 mesi di incarico in analogia a quanto già previsto dagli organi europei), la riserva di posti (una percentuale dei posti vacanti e disponibili), la formazione riconosciuta e certificata, un adeguato punteggio aggiuntivo nella graduatoria di merito sulla base degli anni di servizio espletato nell’incarico di Collaboratori dei DS.

Non vogliamo ancora essere “vittime” di una ennesima ingiustizia perpetrata ai nostri danni NON riconoscendone il RUOLO svolto nei tanti anni scolastici, il LAVORO quotidianamente espletato, le COMPETENZE faticosamente acquisite sul campo, il TEMPO dedicato alla governance.

Chiediamo ai rappresentanti delle Istituzioni ed alle OO.SS. di dare attenzione a questi professionisti che sono importanti figure del moderno sistema scolastico italiano.

E’ il caso di ricordare che nella maggior parte dei paesi europei, la governance della scuola è condivisa da un gruppo/staff riconosciuto formalmente negli ordinamenti scolastici.

Se così avvenisse in Italia, potremmo dire di essere a pieno titolo in Europa…

 

Prof. Rosolino Cicero, Presidente ANCODIS Palermo




SSSS: tutto legato allo sport.

Studio, Sport, Sacrifico e Successo iniziano tutte con la stessa lettera “S”.

Le prime due sono legate, grazie alle seconde, da un rapporto di amore ed odio.

Lo studio e lo sport tendono ad avvicinarsi perché in fondo sono due facce della stessa medaglia, la persona umana che naturalmente vuole tendere a migliorarsi.

Queste hanno un grande nemico che si chiama “tempo”, il tempo che abbiamo a disposizione che, purtroppo, è sempre limitato, è proprio lui che cerca sempre di escludere lo Studio dallo Sport e viceversa.

Per ottenere successo bisogna applicarsi, allenarsi, migliorarsi e questo richiede tempo sia nello Studio che nello Sport. Per potersi cimentare in entrambi è necessario il sacrificio che significa organizzare al meglio il proprio tempo e rinunciare a molte delle attività ludiche che normalmente si presentano ai ragazzi.

Io sono sempre stato un privilegiato in questo senso, non per meriti particolari ma per un mix di fortuna ed intuizione dei miei genitori. Nella scuola dove ho frequentato le elementari e le medie, la Laura Sanvitale di Parma, la mia attività sportiva e soprattutto i risultati positivi che ne conseguivano, è sempre stata supportata.

All’ingresso della scuola c’era una bacheca dove venivano affisse notizie ed avvisi riguardanti la scuola. Un giorno, entrando, ho visto appeso un articolo che parlava dell’ultima gara che avevo vinto e questo mi ha riempito di orgoglio.

Molto simile è stata la situazione al liceo, lo scientifico “San Benedetto”, sempre a Parma, dove, anche se le giornate di assenza da scuola inevitabilmente aumentavano perché le trasferte erano sempre più lontane, ho trovato sempre professori che vedevano di buon occhio la pratica sportiva.

Importante è stato instaurare, fin da subito, un rapporto di estrema trasparenza e in questo sono stato facilitato dal fatto che il Prof. di Educazione Artistica, Antonio Figna, giocava a golf e quindi poteva comprendere la lunghezza delle trasferte e il Prof. di matematica, Gino Passigatti, è un appassionato nuotatore, oltre che un tifosissimo della Roma. Il clima di comprensione dello Sport unito a risultati mediamente buoni hanno sicuramente aiutato il mio percorso scolastico.

Dopo il liceo ho proseguito alla facoltà di Ingegneria, dell’Università degli Studi di Parma. Anche in quel caso sono stato molto fortunato e ho trovato professori disponibili come la prof di disegno o quello di informatica. Tuttavia seguire le lezioni ed essere presente ed attivo agli allenamenti non era certamente facile. Ad un certo punto, considerando le normali sessioni d’esame diventava particolarmente difficile.

Nel 2008, con l’infortunio, temevo che lo studio avesse perso ogni speranza di continuare a far parte della mia vita. Gli allenamenti dovevano essere doppi, inizialmente per riabilitarmi poi per recuperare uno stato di forma accettabile. Ho sempre mantenuto attiva la mia iscrizione universitaria, con la speranza che prima o poi sarei stato in grado di fare qualcosa di più.

Sulla porta della mia stanza in casa ho una frase che racconta la vita di Abraham Lincoln e dice così:

He failed in business in ’31. He was defeated for state legislator in ’32. He tried another business in ’33. It failed. His fiancee died in ’35. He had a nervous breakdown in ’36. In ’43 he ran for congress and was defeated. He tried again in ’48 and was defeated again. He tried running for the Senate in ’55. He lost. The next year he ran for Vice President and lost. In ’59 he ran for the Senate again and was defeated. In 1860, the man who signed his name A. Lincoln, was elected the 16th President of the United States. The difference between history’s boldest accomplishments and its most staggering failures is often, simply, the diligent will to persevere.

Ecco che forse la voglia di perseverare ha avuto ragione anche questa volta.

L’occasione è arrivata nel 2014 quando, per la mia passione politica ho iniziato a seguire un corso intitolato la Politica 2.0 all’Università Telematica Pegaso. Ero veramente felice quando ho scoperto di poter studiare nuovamente e da li ho ripreso il mio percorso di studi passando da ingegneria a giurisprudenza.

Non so se nel 2003, quando i Ministri Moratti e Stanca vollero aprire la possibilità anche in Italia alle Università Telematiche o nel 2006 quando il dott. Danilo Iervolino, l’ideatore e presidente di UniPegaso, avessero o meno in mente il mondo dello Sport.

Sta di fatto che, anche se ancora troppo poco pubblicizzato e con qualche luogo comune di troppo, hanno creato dal punto legislativo i primi, da quello imprenditoriale pratico il secondo uno strumento che potrà cambiare drasticamente il rapporto tra gli sportivi e l’Università.

In occasione di una delle lunghe e proficue chiacchierate con il dott. Roberto Ghiretti, titolare dell’omonimo studio che si occupa di sport advisoring, ho ricevuto in regalo un libretto intitolato “secondo tempo” commissionato dalla Associazione Italiana Calciatori ed incentrato sulle prospettive che si presentano ai calciatori che terminano la loro attività professionistica.

La lettura, come prevedibile, mi ha coinvolto particolarmente sia per la mia passione per i libri, sia per la materia sportiva. Tuttavia, ho dovuto rileggere più volte la pagina dove si parlava della percentuale di atleti che conseguivano una laurea, circa il 3%*.

Secondo i dati ISTAT del 2017, pubblicati nel 2018, la percentuale di laureati in Italia si attesta al 15,7% e ci posiziona al penultimo posto in Europa.

Il mondo del Calcio in Italia è, per numeri, il più rappresentativo e constatare quanto nei suoi principali atleti, quelli che raggiungono il professionismo, il dato sia un quinto di quello nazionale è emblematico.

Premesso che sono fermamente convinto che la laurea non sia indice di intelligenza, anzi molte delle persone che hanno dimostrato di avere capacità oltre la media non sono laureate a partire da William Henry Gates III (Bill Gates) che grazie alle sue intuizioni ha di fatto rivoluzionato il mondo.

Tuttavia, preso con le dovute cautele, il dato è quasi drammatico perché non tutti sono Bill Gates, o Steve Jobs anche perché molti degli atleti in questione sono già stati “fuori dalla norma” nella loro disciplina.

La formula telematica per lo studio può diventare una soluzione ottimale per gli sportivi. Questo si può verificare spiegandone le potenzialità per quanto riguarda il tempo.

Nella mia esperienza all’UniPegaso, ho potuto visualizzare le lezioni comodamente dal computer in casa o in una camera d’albergo durante le gare, ho potuto scegliere fra le molte opzioni di date e sedi per sostenere gli esami e, forse una cosa ancora più importante, ho avuto degli insegnanti straordinari.

Un altro punto a favore delle università telematiche è proprio quello di poter avere dei docenti di altissimo livello, in quanto anch’essi non sarebbero più obbligati alla presenza in aula ad ogni lezione ma possono comodamente registrarla e lo studente, come detto, può visualizzarla quando è più opportuno.

Ritengo questo punto estremamente accattivante per gli sportivi in quanto uno atleta è abituato a competere e vuole vincere per questo cerca di circondarsi sempre del meglio: dal tecnico al preparatore atletico, dal caddie nel golf al procuratore nel calcio e sapere anche nell’università di poter apprendere dal meglio sicuramente gli consente di sentirsi soddisfatto.

Non intendo dire che nelle università convenzionali i professori siano meno capaci. Sicuramente quanto detto è un valore aggiunto per l’attrattiva delle telematiche verso il mondo sportivo.

Non tutto è “rose e fiori”. Naturalmente si contrae il rapporto ed il confronto con gli altri studenti che, così come alcune attività laboratoriali, possono essere dei momenti estremamente formativi che, per ora, sono riservati alle Tradizionali.

Spero tuttavia che ci possa essere più sinergia tra entrambe le modalità per agevolare gli sportivi, non certo per i profitti, quanto per concedere la possibilità di proseguire gli studi a tutti quelli che hanno anche altre attività, in particolare quelle sportive che hanno in media una continuità molto ridotta nel tempo ma che richiedono il massimo della dedizione.

 

*3,8% riferito ai calciatori professionisti nella stagione sportiva 1992/1993

 

 

 

 

 

Andrea Vaccaro




L’indipendenza di Stampa

La libertà di stampa viaggia a braccetto con quella che, mi permetto di chiamare, è l’indipendenza di stampa.

Mi rendo conto che i puristi storceranno il naso alla frase “indipendenza di stampa”, ma certamente è una frase che diviene sempre più significativa al giorno d’oggi.

Essere indipendenti quando si è giornalisti è un dovere nonché diritto fondamentale per svolgere al meglio il mestiere di giornalista, infatti un giornalista indipendente è portato a tutelare la notizia che racconta ed il lettore che la legge, e nessun altro.

Oggi è fin troppo facile ammantarsi la bocca con la parola libertà di stampa, ma è l’inevitabile abbinamento di libertà con indipendenza che oggi dovrebbe essere elemento di attenzione da parte dei lettori.

Forse oggi la stampa è libera, ma di sicuro non è indipendente!

Ovviamente quando parliamo di stampa intendiamo anche le televisioni, le radio etc. etc., insomma tutti quei mezzi di diffusione dell’informazione a livello di massa.

Ma quali sono le vere dipendenze che oggi vincolano la stampa italiana?

Prima fra tutte la “morbosità” del lettore, il piacere quasi tranquillante di vedere che qualcuno è peggio di noi, o sta peggio di noi, o vive peggio di noi, o alla via così avete capito benissimo; questa “morbosità” porta i giornalisti a fare delle domande idiote come ad esempio alla mamma che ha perso il bambino “signora come si sente?”, o cose similari che normalmente al sentirle mi fanno personalmente andare in bestia ma che purtroppo vedo far alzare gli indici di ascolto.

La seconda non meno significativa è la dipendenza da un editore; ma non è detto che sia lo stesso del giornale o della tv,  a volte è quell’editore che sui suoi mezzi di comunicazione di massa apre spazi assoluti ai vari direttori di giornale dando credibilità e visibilità alla testata da loro diretta.

Se ci fate caso in quasi tutte le trasmissioni televisive ci sono direttori di giornale / giornalisti che commentano i fatti del giorno!

Una volta in tv i direttori di giornale andavano per intervistare i politici e non per fare i politici.

Questa seconda dipendenza diventa gravissima quando riesce a distogliere l’attenzione, di chi svolge il ruolo di giornalista, dai fatti.

E poi c’è la terza dipendenza, la legge del click, la mortale dipendenza dagli sponsor, dagli inserzionisti, che oggi obbliga i giornalisti a diventare dei “marchettari” pur di raccogliere sponsorizzazioni / Pubblicità.

Infine c’è il finanziamento pubblico all’editoria!

Non fraintendetemi questo istituto nasce con un buon intento, proprio quello di togliere la carta stampata dall’influenza degli sponsor, ma inevitabilmente l’ha messa sotto lo scacco dell’influenza politica.

In pratica impossibile parlare di stampa indipendente, cosa grave anche solo perché oggi ci sono troppi canali di diffusione delle informazioni, e di tutti questi nessuno risulta affidabile.

Libertà, Indipendenza, Affidabilità, questi sono i principali vocaboli che identificano, o che dovrebbero identificare, una fonte di informazioni, che sia essa un giornale, una tv, una radio, ma anche solo il singolo giornalista che scrive.

Troppe volte vediamo un uso distorto dell’informazione, piegata a necessità differenti da quelle del servizio al lettore, troppe volte uccidiamo un poco di noi stessi per poter aumentare la visibilità.

Tutto questo mina alla radice il rapporto con il lettore, distruggendo un altro valore importante, ovvero la credibilità.

Ormai nessuna fonte gode più della credibilità assoluta, ma tutte sono soggette al maleficio del dubbio da parte del lettore, ovvero quella sottile sfiducia che ci guida nella lettura di ogni notizia su qualsiasi fonte.

Una situazione insostenibile che, se non sanata nel breve, potrebbe portare ad una incolmabile frattura fra lettore e giornale, portando qualsiasi notizia a livello di fake news.

Quali sono le soluzioni?

Questa la mia ricetta che offro sempre ai miei giornalisti quando iniziano a scrivere per betapress:

  1. Intanto riflettere su quello che si scrive!
  2. Anche a rischio di non essere i primi ad uscire con la notizia, sarebbe bello se il ragionamento fosse: “meglio una notizia vera che una notizia subito”.
  3. Magari verificare le fonti, anche con una telefonata di approfondimento in più, piuttosto che fidarsi di un riporto da altra testata.
  4. Scrivere dopo essersi informati sul fatto e su tutto quello legato al fatto: troppo spesso chi scrive non approfondisce la tematica che tratta, il tutto a danno del lettore.

Viene una facile considerazione: se si facesse davvero il mestiere del giornalista, oggi non uscirebbe più una notizia in tempo reale, ma viene anche da dire che forse sarebbe meglio.

Libertà, Indipendenza, Affidabilità, Credibilità, difficile trovarle tutte in una fonte.

Alla fine mi rendo conto che oggi è diventato un mestiere anche quello del lettore, se viene fatto bene, perché scegliere a chi dare la propria fiducia, scegliere a chi regalare il proprio tempo è importante tanto quanto scrivere con onestà.

La mia convinzione è che per fare un buon giornale non occorre scrivere tanto, ma scrivere bene.

 

Corrado Faletti

Direttore

 

 

 

 

 

 

 




Genocidio Culturale

Le ruspe della politica contro gli ulivi secolari della cultura.

E’una triste storia, quella che vi stiamo raccontando. E, nessuno, sinora, ha deciso di raccontarla, perché scomoda, molto scomoda.

Siamo a Foggia, precisamente a Cerignola. C’è un Istituto Agrario, il Pavoncelli, con una fiorente azienda agricola annessa. Ogni anno aumenta il numero degli iscritti dell’Istituto. Ed i ragazzi dell’azienda agricola fanno ricerca e sperimentazione su nuove forme di “cultivar” autoctone, straniere ed ibridi genetici, oggi introvabili. Arrivano a produrre persino un olio certificato d’eccellenza seguendo ed amando, quotidianamente, 1650 piante di ulivo. I terreni su cui coltivano sono un lascito testamentario del 1868. Il patrimonio immobiliare rimanda infatti ad una benefattrice. Anna Maria Raffaella Manfredi, vedova Pignatari, che nel suo testamento lasciò i suoi terreni affinché fosse costituita l’Opera Pia Manfredi–Pignatari. Lungimirante e generosa donna d’altri tempi che volle un Ente morale per realizzare la Scuola pratica di agricoltura, col fine di “accogliere e mantenere dei giovanetti poveri e di educarli avviandoli principalmente nell’agricoltura”.

Dunque, da più di un secolo, generazioni di allievi dell’Istituto agrario Pavoncelli continuano a studiare la teoria, ed applicare la pratica, sui terreni dell’azienda agricola annessa. Terreni che non sono del Comune, ma fondi rustici aziendali di proprietà del Pavoncelli.

Fino a che, un brutto giorno, arrivano le ruspe.

Di chi? Del Comune. Per fare cosa? Distruggere tutto.

Bisogna fare spazio e costruire un Palazzetto dello sport ed un centro commerciale. Con quali soldi? Con quelli ottenuti dalla vendita dei terreni dell’azienda agricola.

Tutto a norma di legge, dice il Comune.

Un po’ meno, per noi, che siamo andati ad informarci.

Il Tribunale di Foggia con Sentenza n.1039 del 19/10/1991, passata in giudicato, nella causa civile tra Istituto Tecnico Agrario Pavoncelli C/ Comune di Cerignola, ha dichiarato il Comune di Cerignola proprietario del fabbricato adibito a scuola e possessore a titolo enfiteutico dei fondi rustici dell’azienda agraria.

Nella richiamata Sentenza è effettuata un’analitica ricostruzione delle vicende.

I fondi rustici, costituenti l’azienda agraria, appartenevano alla Fondazione Opera Pia Manfredi-Pignatari, fondata nel 1872.

Due anni dopo, la Fondazione diventa “Istituto Agricolo” e gestisce la distinta “Scuola pratica di agricoltura”, originariamente istituita dalla stessa testatrice.

Nel 1933, la Scuola pratica di agricoltura si trasforma in “Regia Scuola Tecnica a indirizzo agrario”. Ed infine, la Regia scuola Tecnica è rinominata Istituto Tecnico Agrario Statale “Giuseppe Pavoncelli”.  Si tratta di soggetto giuridico distinto dall’originaria fondazione Opera Pia Manfredi-Pignatari, che era stata sciolta alla fine del 1923, individuando, nell’Ospedale civile di Cerignola, il successore e gestore della cessata Opera Pia.

Fatto molto importante, tra l’Opera Pia e il Comune di Cerignola, ai fini degli scopi della fondazione, è stato stipulato in data 4/07/1889 e 13/07/1889 un ATTO ISTITUTIVO DI ENFITEUSI PERPETUA, avente ad oggetto i fondi costituenti l’attuale azienda.

Cioè il Comune, dal 1889, gode di un diritto reale di godimento su un fondo altrui, però s’impegna a migliorarlo. In tal senso, il Comune di Cerignola si è impegnato a destinare gli stessi fondi agli scopi della Scuola pratica di agricoltura.

Stante gli obblighi derivanti dalla Legge n.889/1931 (che poneva a carico degli enti locali i mezzi necessari per l’espletamento dell’attività didattica delle scuole e degli istituti di istruzione), il Comune ha poi destinato i fondi posseduti sempre a titolo di enfiteusi con vincolo di destinazione all’ITAS Pavoncelli;

Infine, Il Comune di Cerignola nel mese di agosto 1889, ha acquistato dall’Opera Pia il fabbricato destinato a sede dell’Istituto con impegno a mantenere ferma la destinazione scolastica.

Fin qui tutto bene.

Purtroppo, con la Legge n.23 del 1996, gli immobili utilizzati come sede delle istituzioni scolastiche, sono trasferiti, in uso gratuito con vincolo di destinazione ad uso scolastico, alle province.

Le province, si assumono gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria nonché gli oneri dei necessari interventi di ristrutturazione, ampliamento e adeguamento alle norme vigenti. I relativi rapporti sono disciplinati mediante convenzione.

Ebbene, con Atto di Convenzione del 17.09.1999 il Comune di Cerignola ha trasferito alla Provincia di Foggia gli immobili scolastici, fabbricati e fondi rustici, in forza di quanto previsto dall’art. 8, comma 1 della Legge n.23/96.

Praticamente, cosa è successo?

il Comune di Cerignola, enfiteuta, cioè locatario perpetuo dei terreni, si è comportato da proprietario.

  • con D.G.C. n.54 del 27/02/2017 ha inserito nel “Piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari” il suolo, facente parte dell’azienda agraria, una superficie di 10.000 mq. (Peraltro, nella stessa delibera è precisato che il Comune ha il titolo di livellario e non di proprietario!).
  • con D.G.C. n.98 del 12/04/2017 ha approvato il progetto esecutivo per la realizzazione del palazzetto dello sport sull’area individuata al foglio 276, p.lla 579 (parte ex95), facente parte dell’azienda agraria annessa all’Istituto Agrario Pavoncelli.

E come se non bastasse, si legge nella delibera: “…  si procederà ai sensi dell’art.191 del D.Lgs 50/2016, a finanziare l’opera, in toto, con la permuta di un’area di proprietà comunale, prevista nel Piano di alienazione e valorizzazione dei Beni comunali, giusta deliberazione n.54 del 27/02/2017, individuata nel Foglio 276 particella 94 (parte) di circa 10.000 mq. Zona F2 di Prg, per un importo pari a € 1.830.000,00 …”.

Cioè si finanzieranno i lavori di costruzione con l’esproprio dei terreni!!! Infatti, la particella da permutare fa anch’essa parte dell’azienda agraria annessa all’Istituto.

E per non aver problemi, il Comune di Cerignola, con Delibera del Consiglio n.55 del 25/07/2017 ha inserito nel Piano delle Alienazioni e Valorizzazioni dei Beni Comunali il suolo facente parte dell’azienda agraria dell’Istituto, come livellario.

Giusto per intendersi, il “livello” non ha una definizione normativa, tuttavia la giurisprudenza di legittimità lo considera un istituto corrispondente di fatto all’enfiteusi e quindi ad esso applicabili le relative norme del codice civile.

Allora il “livellario” gode di un diritto reale che esercita su fondo appartenente ad altri, detto concedente. Quindi il Comune di Cerignola ha disposto liberamente di un bene, ma, come enfiteuta, non può liberamente disporre e tanto meno alienarlo!!!

Ma, la vergogna nella vergogna, è che il fondo rustico permutato (foglio 276, p.lla 94) era investito a oliveto super intensivo con 1650 piante di varietà nazionali ed estere, impianto sperimentale realizzato con il contributo della Regione Puglia e la partecipazione attiva dell’Università di Bari (vedi relazione tecnica del Direttore del Dipartimento di Scienze agroambientali e territoriali Università di Bari).

L’oliveto sperimentale rientrava tra le strutture messe a disposizione per la realizzazione del Laboratorio di Occupabilità, in rete con altre scuole cittadine e pugliesi, università, enti pubblici e privati, associazioni e aziende, capofila IISS “R. Lotti – Umberto I” di Andria, risultato beneficiario del finanziamento di 500.000,00 euro per il laboratorio denominato “Oligreen tech lab”, previsto nell’ambito del Piano Nazionale Scuola Digitale di cui alla Legge n.107/15, la cd Buona Scuola.

A tutela dell’IISS Pavoncelli è stata presentata interrogazione parlamentare da parte dell’onorevole Umberto D’Ottavio,  e dalla senatrice Angelica Saggese, in ordine all’alienazione dei fondi aziendali.

In risposta alle interrogazioni, l’allora Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli ha assicurato di continuare a seguire la vicenda al fine di salvaguardare l’offerta formativa dell’Istituto “Pavoncelli” di Cerignola. (ci sembra che il risultato sia stato ottimo. NdR)

L’Avvocatura Distrettuale di Bari ha presentato in data 26/07/2016 ricorso al TAR Puglia contro la Determina del Dirigente Settore Patrimonio del Comune di Cerignola n.434/22 del 07/06/2016, in esecuzione della D.G.C. n.29 del 5/02/2016, che concedeva in comodato d’uso gratuito per la durata di anni 9 (nove) all’Associazione “Gli Amici di Balto” la superficie di 10.000 mq – foglio 276, particella 446 (ex 9) – facente parte dei fondi rustici dell’azienda di istituto.

Nella stessa Determina si legge a pagina 2 “il Comune di Cerignola è proprietario del fabbricato adibito a scuola dell’Istituto Tecnico Agrario Statale “G. Pavoncelli” nonché possessore a titolo enfiteutico di appezzamenti di terreni dell’estensione di circa ha 25 e che costituiscono l’azienda agraria di cui il detto Istituto è titolare”.

Con Ordinanza n.434/2016 il TAR Puglia rigettava la domanda cautelare per insussistenza di “periculum in mora” e per l’attualità si è ancora in attesa del giudizio di merito.

L’Avvocatura distrettuale ha presentato anche azione di manutenzione in possesso presso il Tribunale Civile di Bari, che ha rigettato la domanda così motivando: “La declaratoria del difetto di giurisdizione preclude l’esame del merito della vicenda …”.

Praticamente, nulla di fatto a tutela dei diritti del Pavoncelli.

Ora, dopo aver tediato i nostri lettori con questa dovizia di particolari, ci limitiamo a segnalare che le azioni realizzate dal  Comune di Cerignola sono palesemente fuori legge.

E vi spieghiamo come.

  • violazione artt. 957 c.c. e seguenti per effetto dei quali non appartiene all’enfiteuta il diritto di vendere o permutare un fondo;
  • violazione Legge n.23 del 1996, art.8, comma 1 – trasferimento degli immobili utilizzati come sede delle istituzioni scolastiche alle province.
  • violazione D.Lgs 50/2016, l’art.191 prevede la permuta quale corrispettivo qualora il bene da cedere non assolva più, secondo motivata valutazione, funzione di pubblico interesse, funzione che permane visto il vincolo di destinazione scolastica.

Per effetto delle azioni poste in essere è stato operato dal Comune di Cerignola spoglio violento, privando l’IISS Pavoncelli del possesso dei beni, così catastalmente individuati al foglio n.276:

  • lla n.604 (ex 94 parte) di Ha 1.05.62;
  • lla n.446 (ex 9 parte) di Ha 1.00,00;
  • lla n.579 (ex 95 parte) di Ha 1.00,00.

Non abbiamo altro da aggiungere, se non questo.

Cerignola ha bisogno di una moderna struttura sportiva, dove realizzarla?

Sui fondi rustici dell’Istituto Agrario Pavoncelli.

Quale la fonte di finanziamento per la nuova struttura?

L’oliveto sperimentale dell’Istituto Agrario Pavoncelli.

La miopia dei nostri amministratori ha sottratto alle ordinarie esercitazioni agrarie 30.000 mq di superficie aziendale.

“Il nove agosto 2018- è il preside Pio Mirra che parla- abbiamo assistito all’estirpazione di 1650 piante di olivo con le ruspe, trattando le piante come mattoni. Eppure in quel campo sperimentale si faceva ricerca, sperimentando nuove forme di allevamento di cultivar autoctone, straniere e ibridi genetici, oggi introvabili. Le ruspe senza fare alcuna distinzione non hanno avuto alcun riguardo e annullato anni di ricerca. La logica del cemento sta affossando il nostro paese e i toni del dibattito non di rado ci autorizzano a pensare che la cultura, la scuola non siano più la bandiera dei nostri governanti. Nelle nostre terre i genitori contadini si spezzavano la schiena pur di fare studiare i figli e assicurare loro un futuro migliore. Oggi sono diventati “eletti” coloro che magari a scuola occupavano l’ultimo banco e si è convinti che sport e ipermercati siano più importanti della scuola, rovesciata dalla cultura del danaro. Chi, prima di stare in mezzo alla gente, si è fatto un giro in mezzo alle pagine dei libri, dovrebbe saperlo, ma a guidare il paese ci mandiamo quelli dell’ultimo banco”.

Non possiamo che condividere, pienamente ed amaramente, la posizione del dirigente scolastico e di tutto il personale del Pavoncelli.

Siamo convinti che anche altri cittadini, fuori dal mondo della scuola, vedano, in questo scempio, un’assurda manovra politica contro la proprietà, ma soprattutto la libertà di chiunque di noi.

E’ vergognoso che venga violata la volontà di una benefattrice che più di un secolo fa, ha creduto nella cultura come riscatto sociale. E’ inammissibile che, con dei giochetti politici, ci si appropri indebitamente di terreni di proprietà inalienabile di un Istituto scolastico. Ed è anticostituzionale che lo Stato avvalli il sopruso di compromettere il diritto alla cultura, oltre che alla coltura, per assecondare delle logiche consumistiche.

Altro che insegnare che la cultura è libertà! Gli alunni del Pavoncelli, e noi con loro, cosa vediamo?

L’abuso di potere politico, la connivenza delle Istituzioni con degli interessi economici consumistici di parte, e l’asservimento del diritto all’istruzione al connubio politica-marketing.

Il sogno proposto per le future generazioni non è più il riscatto sociale con la cultura, lo studiare per capire e l’imparare per migliorare. Il sogno, anzi l’incubo proposto alle nuove generazioni, è crescere per diventare un popolo ignorante, che consuma prodotti fittizi, secondo bisogni indotti.

E, magari, l’ha già imparato vedendo cos’è successo a scuola, vota per chi è ricco, potente, famoso e pure mafioso.

Un popolo complice, lentamente, ma inesorabilmente complice, di chi gli ha tolto la libertà di ribellarsi, convincendolo pure che è per il suo bene!

 

Antonella Ferrari

 




L’umile fioraia, la figlia talentuosa e il seme della presunzione

C’era una volta una umile fioraia.

Nel villaggio tutti conoscevano l’umile fioraia e tutti andavano a comprare i fiori da lei.

Era brava nel suo lavoro e tutti le volevano bene.

La fioraia aveva una figlia che cresceva nella sua bottega.

La bambina aveva molta passione per i fiori e osservava con fame di sapere tutto quello che faceva e diceva la madre.

La madre insegnò alla figlia tutto quello che sapeva.

Poiché l’umile fioraia sapeva che il talento va nutrito per diventare virtù,
quando capì che la figlia era migliore di lei e lei non aveva più nulla da insegnarle, cercò in giro a chi poter affidare la figlia talentuosa.

Cercò e cercò
Chiese e chiese
Verificò e verificò.

Fu così che seppe che in un villaggio lontano viveva la regina dei fiori.
Una coltivatrice di fiori con grande esperienza e tanto da insegnare.

L’umile fioraia prese la figlia talentuosa e la accompagnò, attraverso valli, fiumi e montagne, dalla regina dei fiori affinché imparasse da lei.

La regina dei fiori prese in simpatia la figlia talentuosa tanto che desiderò farla diventare coltivatrice.

Ogni volta la regina dei fiori insegnava qualcosa alla figlia talentuosa e la rimandava a casa affinché applicasse la regola sul suo piccolo e nascente giardino.

La figlia talentuosa era diventata così brava e famosa che nel villaggio e dai villaggi vicini altre figlie volevano imparare la virtù.

Così chiesero aiuto all’umile fioraia che, di buon grado, insegnava loro tutto ciò che sapeva per coltivare il talento e poi le mandava a imparare la virtù dalla regina dei fiori.

Fu un periodo bellissimo:

Nel villaggio e nei villaggi vicini era tutto un fiorire di nuovi bellissimi giardini e l’aria era piena di inebrianti profumi.

Un giorno accadde una cosa.
Un seme nero e sconosciuto germogliò nel cuore della fioraia e fece sbocciare un pensiero triste nella sua mente:

“Ormai sono anni che accompagno la mia virtuosa figlia dalla regina dei fiori.
Ho ascoltato ogni sua parola e visto mettere in pratica ogni suo insegnamento.
Cosa ha oggi la regina dei fiori da insegnare alle mie allieve che io non sappia già?”

Quello fu l’inizio della fine.

Purtroppo una fioraia, a differenza di una coltivatrice, non conosce la natura dei semi e non sa come estirpare le piante maligne.

E così il triste fiore divenne, nel cuore della fioraia, una robusta pianta infestante.

Da allora, a poco a poco, l’arida fioraia dissuase le sue giovani giardiniere dall’affrontare tutti quei viaggi e quei disagi dicendo che avrebbe lei insegnato quello che c’era da imparare.

Sua figlia, d’altronde, era la prova della sua bravura.

Le giovani giardiniere si fidarono della loro maestra e si affidarono a lei per i loro giardini.

Ma una fioraia non è una coltivatrice.

La fioraia sa scegliere i fiori e farne belle confezioni,
sa insegnare come migliorare la vita delle piante
ma non sa nulla di come si prepara la terra e di quante stagioni cattive bisogna aspettare per averne una buona.

Né come fronteggiare le condizioni avverse per trasformarle in propizie.

La fioraia sa curare ma non conosce la pazienza della coltivatrice.

È facile allora immaginare quello che accadde:

nel giro di poco la bellezza cominciò a venir meno e i profumi si affievolirono.

Per colpa della presunzione della fioraia i giardini cominciarono a seccare.

Alcuni mantennero qualcosa di bello, ma molti altri andarono perduti.

Tra chi scelse di continuare a fidarsi della fioraia presuntuosa, chi aveva talento lo mantenne ma tutta la virtù andò perduta.

Delle altre non sappiamo in questa fiaba.

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Dedicato ai delicati animi che hanno trovato il loro talento e lo vogliono trasformare e consolidare ogni giorno in virtù.

Che nessuno pensi mai che la conquista delle virtù possa essere fatta e mantenuta con la comodità.




Il docente invisibile

Leggo sui siti dedicata alla scuola che vi è una proposta del Ministero della Pubblica Istruzione per limitare i passaggi a cattedra dei docenti di sostegno, che sono pochi e tendono, dopo i 5 anni di obbligatorietà, a  ritornare su cattedra e per questo sono disposti a lasciare sedi “comode” e conosciute per sedi magari lontane o in montagna con conseguente disagio.

Il Ministero, come sempre, risponde con divieti e norme volte a penalizzare i docenti, invece di chiedersi come risolvere il problema alla fonte.

Perché i docenti di sostegno decidono di tornare in cattedra?

La risposta è abbastanza semplice: perché non sono considerati docenti, né dai colleghi, che li vedono come degli scansafatiche, privilegiati, perché” non hanno le classi”, “non fanno niente”, “ hanno pochi alunni” , “ non sarebbero in grado di insegnare”, e dai genitori degli alunni della classe come “quelli incapaci di insegnare, perciò puniti  con questo ruolo”.

IL docente di sostegno è in realtà docente pluri specializzato, poiché ha almeno due specializzazioni, talvolta anche più di due; è un docente della classe che deve favorire l’integrazione dell’alunno disabile, ma non è un precettore privato per un solo ragazzino; il docente di sostegno è una risorsa, poiché è chiamato a provare e trovare altre strategie per insegnare contenuti complessi.

Tutto questo è un docente di sostegno, ma molto spesso non si sente così, sente di aver perso qualcosa, di non avere un ruolo definito e si trova a fronteggiare da solo situazioni complesse, che non sono prese in carico dagli altri docenti, ma solo da lui, perché non viene consultato talvolta neppure per quanto riguarda il “suo alunno”, perché sente di non avere un ruolo definito, di non godere della stima degli altri professori, di essere in altre parole invisibile, se non addirittura il capro espiatorio del gruppo docente.

Quale potrebbe dunque essere la soluzione? Poiché no ho fiducia che cambi la percezione sociale del ruolo docente, tanto meno di quello di sostegno, ritengo che sarebbe utile intanto , come alcuni dirigenti illuminati hanno già pensato e fanno, fare in modo che i docenti di sostegno siano chiamati a tenere lezioni su argomenti , ovviamente della propria materia, alla classe nella quale esercitano, in modo che i ragazzi possano percepire il docente di sostegno come un docente effettivo e i colleghi possano confrontarsi nel proprio modo di insegnare con altre strategie  e metodi; ovviamente ciò dovrebbe essere imposto dall’alto, poiché i docenti sono spesso gelosi della propria classe e refrattari a ogni confronto costruttivo ( generalizzando, si intende, poiché esistono molti insegnanti disposti al cambiamento e alla autocritica).

Ne lungo periodo suggerirei al Ministero di operare in modo che ogni docente debba fornire una parte di orario da dedicare al sostegno, in altre parole, che, per ogni insegnante curricolare, almeno una porzione di orario ( 4 /5 ore settimanali) sia dedicata ai ragazzi diversamente abili, in modo che imparino a conoscerli, a comprenderne le difficoltà e a capire quali strategie utilizzare.

Ovviamente ciò non sarà e quindi diaspora sia !!

 

Paola Delibra

 




Mors tua, vita mea.

Mors tua, vita mea.

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici irresponsabili e, amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia.

Sembra quasi che l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù, ma una legittima opinione.

Quante volte, discutendo, abbiamo detto: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?

Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo.

Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema.

Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo.

Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico.

Se uno non ha un nemico, non riesce a caratterizzare sé stesso.

Secondo il noto psichiatra Vittorio Andreoli, stiamo vivendo un periodo di regressione antropologica, un’epoca in cui si agisce in base alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici.

Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.

E’ considerare l’altro inferiore, perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo.

Se uno è diverso da te, è un nemico, e va combattuto. Si torna a fare la guerra, perché il diverso è un nemico. Il nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera.

E, così come c’è una gerarchia dei potenti, così c’è anche una gerarchia delle razze.

Perché sono presi di mira solo alcuni. Anche se, paradossalmente, il razzismo unisce.

Il razzismo non esclude nessuno. Il razzismo e i pregiudizi sono universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni.

E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio.

Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia, ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto.

Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più?

Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata, ma non vissuta. L’Italia è un Paese che, come tutto l’Occidente, sta regredendo alla irrazionalità, all’uomo pulsionale.

” Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.”, così si esprime Vittorio Andreoli. “Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che, all’origine, c’è sempre una esclusione. E’terribile, stiamo diventando un popolo incivile”, così continua il noto psichiatra.

Secondo lui, nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali. “Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”.

Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza”.

Di fronte a questa disamina, tanto negativa quanto realista, della nostra società, un unico consiglio, da parte di Vittorio Andreoli.

“Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa.  Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti”.

Infine, riguardo al formarsi del pregiudizio nella mente delle persone, lo psichiatra ci avverte: “L’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti”. Secondo lui,” quando gli individui nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo”.

Purtroppo, oggi, sui social, non si nasconde più il proprio pensiero. lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano sempre più violente e l’espressione dei pregiudizi, magari formulati anche in modo razionale, serve solo a rafforzare l’ego di chi parla.

Tristemente vero.

Ed ancora più grave. Perché, un tempo, se un individuo pieno di false credenze e di pregiudizi razziali stava zitto in pubblico, e si esprimeva solo a casa, agiva male in famiglia, o con un gruppo ristretto di interlocutori.

Adesso, diventa un’azione diffusa, per gli individui al tempo dei social, parlare a vanvera. Anche da casa, incollati allo schermo e alla tastiera di un computer. E’ normale, tribalmente normale, sfogare le proprie pulsioni, trasformarle in vera e propria propaganda politica, e concorrere al degrado sociale. Per tornare tutti insieme, appassionatamente, al “mors tua, vita mea”…

 

Antonella Ferrari



PROFESSIONE DOCENTE: MISSION IMPOSSIBLE!

La professione del docente non è cosa da tutti, ma è percepita come se lo fosse.

L’altro giorno una mia collega giovanissima mi ha detto che non intendeva partecipare ai consigli di classe perché ha un altro lavoro ed è a scuola per una supplenza, che spera comunque breve, ma intanto qualcosa si guadagna.

Il professore è quindi un mestiere ricettacolo, nel quale ognuno, proveniente da esperienze diversissime, ma in possesso di una laurea in una qualche materia, si sente capace di cimentarsi.

Nessuno però dice che il mestiere dell’insegnante è faticoso, forse perché la vulgata è che i professori non facciano niente, scaldino i banchi, siano insoddisfatti e rancorosi e godano di ferie infinite, insomma che non guadagnino la pagnotta.

Eppure ai colloqui raccogliamo genitori in lacrime, che chiedono consulenze sulla gestione dei figli, perché questi ultimi trovano nella scuola, nei docenti e nei compagni un punto di riferimento, ascoltiamo lamentele, pettegolezzi, reprimende, perché il genitore ha necessità di comunicarti tutto ciò che concerne il figlio, fin nei minimi particolari.

Quindi dobbiamo essere un po’ psicologi? Si anche.

Ma non è finita, perché al varco ci aspetta la burocrazia, con quantità enormi di documenti da compilare, PDP, PEI, Programmazioni per competenze, programmazioni di classe e infine la vera parte didattica che comprende il saper veicolare la materia nel modo più comprensibile possibile, perché in classe abbiamo mediamente due o più stranieri appena arrivati, qualche ragazzo con disturbi dell’apprendimento, qualche ragazzo che non riesce proprio a concentrarsi e allora ci dobbiamo anche improvvisare attori.

Le verifiche? Devono essere oggettive , inattaccabili con punteggio chiaro e definito, scritte e stampate con carattere leggibile, ma soprattutto diverse, per i ragazzi stranieri, per quelli con difficoltà di apprendimento, che sono diverse tra loro, insomma da una verifica ne spuntano magicamente 8 o 9 diverse.

Estenuanti collegi docenti nei quali si deve decidere tutto perché tutto deve essere rintracciabile e sancito dal collegio: progetti, iniziative, attività; poi il lavoro che riguarda l’organizzazione delle uscite didattiche, delle gite scolastiche, le riunioni per materia, la correzione delle verifiche e qui mi fermo per pietà.

Una però è la cosa tra tutte che rende questo mestiere non accessibile a tutti indiscriminatamente: il cuore, perché ci vuole cuore per capire che questi ragazzi hanno bisogno di noi per crescere e imparare, ci vuole cuore per avere pazienza e passione e equilibrio.

 

Paola Delibra

 




SCI, SCI, SCI…

 

Ho iniziato a sciare quando avevo una decina d’anni grazie alle settimane bianche organizzate dalla scuola che frequentavo, la Laura Sanvitale di Parma.

Da lì, quello con lo sci, è sempre stato  un rapporto particolare: da un lato mi è sempre piaciuto perché sciare, come giocare a Golf, è una di quelle poche discipline nelle quali esiste una pratica non agonistica che consente comunque una buon livello di divertimento e competizione, dall’altro ho sempre avuto paura di eventuali infortuni e, va da se, che la paura di qualcosa è forse peggio dell’eventualità negativa stessa.

Sono andato con regolarità in montagna nelle occasioni dove c’era un gruppo che mi coinvolgeva; prima il mio vicino di casa Rocco e poi il mio amico Pimpi, che si è recentemente stupito delle mie capacità dopo qualche anno d’inattività.

A dire il vero non sono mai stato un bravo sciatore, mi limito a scendere le piste abbastanza lentamente con una certa regolarità e pochissime cadute (questa sulla fiducia NdR).

Di recente sono stato a Skipass, la principale fiera di settore in Italia, che si svolge alle Fiere di Modena. Grazie all’amico e Delegato del CONI Point di Modena, Andrea Dondi, ho potuto conoscere i presidenti, regionale e nazionale, della FISI (Federazione Italiana Sport Invernali).

Da subito sono risultati evidenti la passione e l’impegno che stanno mettendo nelle loro iniziative.

Poi, nella sala principale, è stato spettacolare vedere proiettati i video delle vittorie di due Medaglie d’Oro Olimpiche, quelle di Sofia Goggia e Michela Moioli, rispettivamente nella discesa libera e nello snowboard cross e rivivere i quei momenti che ci avevano incollato alla televisione, con le vincitrici sedute davanti.

L’Italia, anche grazie alla natura che ci ha regalato delle splendide montagne, ha  spesso ottenuto buoni risultati nelle discipline invernali ma ogni vittoria, sopratutto alle Olimpiadi, ha una storia dietro che è qualcosa di speciale e impareggiabile.

A tal proposito, invito ad andare sul sito del CIO per vedere il video dedicato a Michela Moioli che parte dalla rovinosa caduta nella finale di Sochi alla vetta olimpica di PeyongChang.

Il video di Michela mi ha emozionato anche perché, nel mio piccolo, dall’infortunio che avevo avuto nel 2008 al professionismo nel 2010 ho vissuto tante di quelle sensazioni.

Tuttavia ciò che mi ha impressionato di più nella fiera, da Dirigente, è stato quando ho scoperto maggiormente i dettagli del progetto Cortina 2021.

Cortina nel 2021 ospiterà i Campionati del Mondo di sci. È una delle grandi manifestazioni che si svolgeranno nel nostro Paese nel giro di pochissimi anni.

Solo per citarne alcune abbiamo già visto nel 2018 i Mondiali di Pallavolo, nel 2019 ci sono i Campionati Europei di Calcio Under21 e le Universiadi a Napoli, nel 2020 la partita inaugurale degli Europei di Calcio assoluti e nel 2022 la Ryder Cup di Golf.

Questa è l’Italia che mi piace, quella che accetta le sfide e si prepara al meglio non solo per competervi ma anche per vincerle, partendo dall’organizzazione.

Dal mio punto di vista, le dolomiti di Cortina si stanno preparando nel migliore dei modi per meravigliare quei 500 milioni di persone che di solito guardano le grandi manifestazioni sciistiche in televisione, oltre ai titolari dei più di 150.000 biglietti che saranno venduti per chi vorrà godersi lo spettacolo dal vivo.

Mezzo miliardo di persone potranno, non solo supportare i loro beniamini che sceglieranno tra i circa 600 atleti ed atlete in campo, che si daranno battaglia nei giorni di gara, ma potranno anche ammirare gli impianti, i paesaggi unici che le nostre montagne regalano e, magari, essere invogliati a venire in Italia per le loro prossime vacanze.

Entrando più nello specifico del progetto si evince quanto questo punti su concetti che credo siano fondamentali per lo sviluppo non solo dello sci ma dello Sport in generale.

Uno su tutti è quello delle infrastrutture “L’obiettivo è investire (e favorirei investimenti pubblici e privati) solo su infrastrutture plurifunzionali, che potranno essere utilizzate per un lungo periodo…”.

Nel nostro Paese la maggiore criticità in campo sportivo è quella infrastrutturale.

Oltre ad essere un aspetto critico è anche la maggiore opportunità di crescita che ci troviamo davanti e ogni investimento in tal senso è apprezzabile, a maggior ragione se questo è pensato e realizzato con una visione progettuale di lungo termine.

Il Campionato del Mondo di Sci non sarà un evento “spot” ma il culmine di una serie, che vedrà quasi 30 gare internazionali e le finali della Coppa del Mondo nel 2020.

Questo permetterà anche allo staff organizzativo di testarsi e migliorarsi in previsione del grande evento.

La scorsa estate sono stato a Kazan, in Russia, dove hanno fatto un percorso simile anche se non incentrato su una singola disciplina ma sugli eventi sportivi in generale.

Giusto per elencarne alcuni, hanno ospitato le Universiadi nel 2013, i Campionati del Mondo di Nuoto nel 2015, la Confederations Cup lo scorso anno e i Mondiali di Calcio 2018.

Ho avuto modo di toccare con mano quanto siano importanti infrastrutture plurifunzionali e di alto livello così come la preparazione dei vari comitati organizzatori che, evento dopo evento, riescono a migliorarsi.

Un ulteriore aspetto meritorio dei Campionati del Mondo di Sci a Cortina è la comunicazione.

Già nel 2018, ma il lavoro è sicuramente iniziato molto prima, negli eventi e via social, una campagna per la ricerca di volontari per i giorni della manifestazione e sopratutto nei mesi invernali non si contano le occasioni promozionali che vengono organizzate per coinvolgere ogni fascia di persone che possono avere interesse, o come va di moda dire, ogni tipo di stakeholders, dell’evento.

Sono sicuro sarà un successo per l’organizzazione, per il mondo dello sci, per lo sport ma, soprattutto, per il nostro di Paese!  

 




Scrivere per crescere

Beppe Severgnini, grazie!

E’ un’eterna lotta, contro il tempo e contro la moda dilagante, quella di convincere gli alunni a scrivere bene e a mano.

Ogni anno, nei primi giorni di scuola (e mi riferisco alle medie in cui insegno da parecchi anni), è tremendamente deprimente impostare la scrittura, ma ancor più la calligrafia, degli alunni.

Arrivano dalle elementari che scrivono poco e male, quasi sempre in stampatello.

Il corsivo è un optional, giusto per le grandi feste, ovvero, la ricerca o il compito in classe.

Ma non me la sento assolutamente di criticare i colleghi insegnanti delle elementari.

Siamo tutti sulla stessa barca, quella dell’addio alla scrittura, e dell’abbandono della calligrafia.

Oggi, leggendo quanto ha scritto Beppe Severgnini, a proposito del valore della scrittura e dell’importanza dello scrivere a mano, ho esultato di gusto.

Questa la sua opinione in proposito:” A scadenze regolari, qualcuno scopre che scrivere a mano è bello. Non si tratta di anziani tecnofobi o giovani eccentrici che rinunciano alla tastiera, ma di persone equilibrate, impegnate in campi diversi”.

Qualche giorno fa, il Corriere è tornato sul tema con Candida Morvillo che, riprendendo un’inchiesta di Medium Magazine, ha raccontato come diverse scuole e università Usa impongano agli studenti di prendere appunti manuali.

Invece, secondo Emanuele Trevi, la calligrafia è uno strumento intimo, quello che più si addice alla sfera personale: «un potente ansiolitico, innocuo e a basso costo».

Sull’effetto tranquillante dello scrivere a mano, non mi esprimo. Anzi, quando impongo ai miei alunni di scrivere sotto dettatura, in corsivo, di solito, si genera tensione in classe.

Ma adesso c’è un perché. E non è solo questione di pigrizia. Non solo per chi è appassionato di grafologia, ma per tutti, è evidente che scrivere a mano significa spogliarsi.

In generale, quando si impugna una penna e ci si accinge a scrivere, si prova la sensazione di mettersi a nudo. Aggredire lo spazio bianco significa aggredire la vita.

Tenere il rigo esprime stabilità ed equilibrio.

Lasciare o meno uno spazio tra lettere, parole, righe indica apertura o chiusura agli altri. Allargare o stringere il margine destro o sinistro manifesta slancio verso il futuro o attaccamento verso il passato… Il tratto rivela la personalità e la pressione sul foglio indica l’energia di un individuo.

E’ evidente, la scrittura è unica ed irripetibile, come ognuno di noi.

E cambia, a seconda delle emozioni che stiamo vivendo.

Fiorisce, si assesta, si trasforma come noi, ogni giorno, giorno dopo giorno.

E proprio perché, molti di noi intuiscono, empiricamente, quanto la grafia è rivelatrice, alcuni di noi hanno paura di quello che potrebbe saltar fuori.

A livello collettivo, poi, un po’ tutti proviamo un timore subliminale, di cui non ci rendiamo conto.  La paura di scoprirci e di renderci vulnerabili. La paura di armare l’altro con la conoscenza delle nostre debolezze o fragilità.

Ma, altrettanto inquietante, è l’uso nevrotico dello smartphone per prendere appunti. Prendere appunti con un telefonino, non è normale; è la spia di un disagio.

E il ricorso allo stampatello, soprattutto tra le nuove generazioni, non è pigrizia o ricerca di omologazione: è ansia.

Beppe Severgnini smaschera in pieno il disagio di chi teme la scrittura ed il disegno quando scrive:”La stessa ansia che ritroviamo quando proponiamo l’Intervista Disegnata, che ogni settimana chiude 7-Corriere.

La prima risposta, quasi sempre, è: «Non so disegnare!».

Allora Stefania Chiale, che cura quello spazio, pazientemente spiega: non cerchiamo virtuosismi, ma originalità e spontaneità; contano le idee e la fantasia, non l’abilità nel tratto.

Molti si lasciano convincere, e confessano d’aver trovato l’esperienza liberatoria. Ma qualcuno si ritira, e ammette: disegnare le mie convinzioni e le mie paure mi spaventa”.

E’ pazzesco!

Nell’epoca in cui, grazie o per colpa dei social, tutti, o quasi tutti, fanno a gara a spogliarsi. Nell’epoca in cui non ci sono più confini tra il pubblico ed il privato. Nell’epoca in cui ci si esibisce in senso fisico, e ci si scopre in senso traslato, non si vuole più scrivere a mano.

Perché si teme di essere scoperti.  E’chiaro! Molti tra noi non hanno paura di denudarsi emotivamente su Facebook, Instagram (o Tinder); ma si sentono vulnerabili se scrivono a mano o disegnano.

Ma, non c’è contraddizione. I social sono uno schermo, la rete è uno scudo: in qualche modo, pensiamo di poter nascondere quello che siamo e sentiamo davvero. Un biglietto scritto a mano o un disegno sono invece una confessione.

Anzi, uno spogliarello. Non tutti sono lì a guardare, ma qualcuno potrebbe intravedere qualcosa.

E forse, allora, non andremmo poi così fieri di quello che realmente siamo, spogliati di tutte le mille illusorie, estemporanee ed immaginifiche pseudo-realtà, virtuali.

Antonella Ferrari