3200 giovani: il senso del Trofeo CONI Kinder+Sport

Nel 2018, essendo membro della Giunta del Comitato Regionale Emilia Romagna del CONI ho avuto la possibilità di organizzare il Trofeo CONI Kinder+Sport, una sorta di mini olimpiade destinata ai ragazzi Under14, divisi in rappresentative regionali.

A partire dal titolo che unisce il nome del Comitato Olimpico a quello di una importante azienda come Kinder, si vede quanto possa essere utile e proficuo il collegamento tra marchi e Sport.

Nell’edizione 2018, giocata a Rimini, abbiamo visto in campo ben 3200 ragazzi e ragazze che si sono dati battaglia in 45 discipline che derivano da ben 35 Federazioni Sportive Nazionali e 10 Discipline Sportive Associate.

Due sono stati i giorni di gara ai quali se n’è aggiunto uno per la cerimonia di apertura.

Ci vorrebbe molto tempo e spazio per raccontare tutto quello che è stata questa esperienza, per cui mi limito a tre episodi significativi.

Il primo momento è la cerimonia di apertura che si è svolta giovedì 20 settembre nel parco Marecchia di Rimini, davanti al ponte Tiberio.

Il ponte Tiberio è un ponte di epoca romana ed è uno dei monumenti più importanti della provincia riminese.

Io avevo già iniziato a scrivere la mia tesi incentrata sulle evoluzioni del diritto e dello Sport nel tempo e, la prima cosa che ho pensato è che quel ponte, nei suoi duemila anni di storia, ha vissuto dalle Olimpiadi antiche a quelle moderne dei giorni nostri, tutta la parabola dello Sport cosi come lo conosciamo ed è stato emozionante.

Proprio li, seduto al mio posto nelle prime file del parterre allestito per l’occasione, ho visto passare davanti a me, uno ad uno, i 3200 ragazzi, con i circa 800 tecnici alla presenza di migliaia di appassionati e l’atmosfera è subito diventata magica.

Non ho ancora avuto la fortuna di partecipare ad una edizione dei Giochi Olimpici ma la sfilata inaugurale è uno di quei momenti di ritualità dello sport che collegano idealmente atleti da ogni parte del mondo e in ogni tempo.

Verso la fine della cerimonia, il presentatore ha fatto una domanda al Presidente del CONI, Giovanni Malagò il quale ha risposto con una sola parola “felice” e mi perdonerà se prendo in prestito questa sua risposta per definire in modo preciso e sintetico la sensazione che ha avvolto me e tutte le persone che erano li in quel momento.

Eravamo senza dubbio stanchi per aver  fatto le corse per giorni ad organizzare ed allestire i 45 campi di gara, per distribuire tutto il materiare e coordinare l’arrivo di tutti ma eravamo FELICI.

A conclusione della cerimonia c’è stato qualcosa di ancora più bello, l’inno nazionale accompagnato dai fuochi d’artificio che partivano dal ponte e che con i loro giochi di luce ci hanno permesso di vedere che su tutte le sponde si era assiepata una folla imponente di persone incuriosita dalla manifestazione.

Il secondo episodio è del giorno successivo.

Con alcuni delegati provinciali, Antonio Bonetti di Parma, Andrea Dondi di Modena e Stefano Galetti di Bologna, abbiamo fatto un giro di visite ad alcune discipline tra cui quelle della F.I.G.E.S.T. (Federazione Italiana Sport e Giochi Tradizionali) dove i ragazzi si stavano per dare battaglia nella competizione di Freccette, poi una prova veloce dell’Arrampicata e siamo arrivati nuovamente nel parco Marecchia che serviva come campo di gara per varie discipline.

Nel centro del parco avevano allestito una zona per l’Agility, disciplina collegata alla F.I.D.A.S.C. (Federazione Italiana Discipline Armi Sportive da Caccia) stava per iniziare la competizione.

Già era bellissimo vedere i ragazzi prepararsi e concentrarsi con il loro amici a quattro zampe quando il Comitato di gara ha distribuito una lettera a tutti i Partecipanti, di buon augurio per le competizioni, a firma del presidente nazionale della F.I.D.A.S.C.

Inutile dirvi quanto questo piccolo gesto abbia avuto successo tra i ragazzi, alcuni leggevano la lettera a voce alta per farla sentire anche ai loro partner a quattro zampe che, forse non potevano capirne il contenuto letterale, ma sicuramente avranno percepito la gioia e l’emozione dei ragazzi.

L’ultimo episodio arriva dalla terza ed ultima giornata, la seconda di gara, quando mi sono dedicato alle premiazioni.

Nella prima mattinata sono andato ad una disciplina che sinceramente non conoscevo molto e che mi ha stupito in modo estremamente positivo: la Palla Tamburello, dove sono stato accolto dal Vice Presidente nazionale, Flavio Ubiali.

Entrato nella palestra che ospitava la gara ho assistito agli ultimi punti della finale, estremamente combattuta, che mi ha coinvolto in un clima di tifo straordinario, rispettoso ma molto caloroso, che ha sostenuto le squadre impegnate a giocarsi la coppa in un tre contro tre alternato maschi/femmine ed incerto fino all’ultimo punto.

Che bella atmosfera!

Il tutto reso ancora più sportivamente bello quando uno dei ragazzi ha segnalato che un arbitro aveva sbagliato una valutazione a suo favore.

Un fatto che non dovrebbe essere un’eccezione, anche se purtroppo lo è, ma in questo caso ha contribuito ad affermare il vero senso dello Sport.




Italia paese maschilista…

Ancora mi viene da ridere (amaramente però!) quando ripenso ad uno storico sketch di Zelig.

Una brava ragazza, assetata di conoscenza e motivata nello studio, rivendicava il suo diritto a farsi spazio nella vita, studiando prima, e lavorando dopo, perché “una donna intelligente, arriva dove vuole “.

Immancabilmente, il padre, maschilista e fallocrate, la zittiva, deprimendola ed umiliandola.

La figlia, soggetto intellettivo, affamato di cultura e di libertà, era sempre più criticata, ridicolizzata, e tutta la sua persona si riduceva ad un mero oggetto sessuale.

Ogni sogno di affermazione meritocratica culturale si convertiva in “Le chiappe devi mostrare!”.

Parole profetiche, tristemente profetiche!

In Italia, le donne sono le più istruite e le meno occupate. Sempre, intendendo quelle che non mostrano il loro lato B in televisione o sui social!

Secondo i dati del World Economic Forum, siamo primi al mondo per iscrizioni di donne all’università, ultimi in Occidente per partecipazione femminile al mercato del lavoro. In altre parole: stiamo buttando via la componente più istruita della popolazione. E poi ci chiediamo perché non si cresce.

Word Economic Forum, nel suo annuale rapporto sul Global Gender Gap, ci segnala infatti che siamo il primo paese al mondo per numero di donne che si iscrivono a percorsi di formazione terziaria, dall’università in su.

Ma siamo 118esimi su 140 – peggiori in Europa, peggiori in Occidente – per partecipazione femminile alla vita economica del Paese.

E, come se non bastasse, siamo 126esimi per parità di trattamento economico.

Per chi non l’avesse capito, in Italia, le donne, quelle che “le chiappe non le mostrano…” fanno una brutta fine. O non lavorano, o sono sotto pagate. Nel dettaglio: per ogni cento maschi iscritti all’università, ci sono 136 donne.

Il percorso di studi è completato dal 17,4% delle donne, contro il 12,7% dei maschi. E sono ancora donne il 60% circa dei laureati con lode.

Le donne si laureano di più e meglio, insomma.

E non è una novità.

Ma quando inizia la ricerca di un posto di lavoro, viene il bello.

Non solo in Italia si assiste sempre più ad un’inflazione del titolo di studio, ma non c’è proprio lavoro.

E, ironia della sorte, su 10 persone che, scoraggiate, smettono di cercare lavoro, sei sono donne!

La disoccupazione femminile è di tre punti percentuali più alta di quella maschile ed il part time, molto spesso imposto, riguarda il 40% delle lavoratrici contro il 16% dei lavoratori!

Ed una donna che non lavora, o lavora poco e male, rinuncia al suo sacrosanto diritto alla maternità. Una donna che ha studiato, sognando cultura e libertà, non accetta di stare a casa, a fare figli, mantenuta dal marito!

E’così facile da capire! L’Italia è il paese occidentale con il più basso indice demografico.

Allora, un consiglio, ai nostri cervelloni politici. Nel Paese che cresce meno di tutto l’Occidente mettete come primo punto all’ordine del giorno di un consiglio dei ministri o di tutte le tavole rotonde la questione lavorativa femminile.

Forse, per far ripartire l’Italia, bisogna far lavorare le donne. Iniziamo a mettere al lavoro la parte più istruita della popolazione. Sono i numeri che parlano: secondo l’agenzia europea Eurofound il costo complessivo per l’Italia della sottoutilizzazione del capitale umano femminile è pari a 88 miliardi di euro, cioè al 5,7% del Pil, il 23% di tutta la ricchezza persa in Europa a causa della discriminazione di genere.

Mettiamo al lavoro le donne, garantiamo loro paghe e percorsi di carriera all’altezza di quelli dei loro colleghi maschi e, forse, possiamo combattere il calo demografico italiano. Anche in questo caso, sono i dati a dirlo.

In tutta Europa, è il secondo stipendio che permette alle famiglie di pensare di fare quel secondo figlio che garantirebbe la sostenibilità del nostro sistema sociale. Viceversa, un mondo del lavoro in cui se rimani incinta sei licenziata, o se ti va bene congelata a mansioni di basso livello, è il miglior incentivo alle culle vuote.

In Italia siamo indietro culturalmente, cioè, convinti del contrario!

C’è ancora chi pensa che i figli arrivino con l’angelo del focolare, non con l’emancipazione femminile.

Infatti, siamo proprio noi, il Paese che fa meno figli al mondo, quelli che discriminano le donne sul lavoro, quelli che ancora oggi pensano che la cura dei figli sia affare esclusivo delle donne, quelli del maschio che procaccia il cibo e della femmina che accudisce la prole.

Basta guardare la tutela politica della genitorialità per averne la conferma.

La Francia, il Paese più prolifico d’Europa, garantisce sei mesi di congedo parentale per entrambi i genitori e il 40% dei bimbi sotto i 2 anni ha posto in un servizio per l’infanzia.

In Spagna i padri possono beneficiare già oggi di 35 giorni di congedo parentale alla nascita del figlio, e presto si arriverà alla parità totale: 16 settimane a testa, tra padre e madre.

In Italia, invece, hanno pure provato a dimezzare di nuovo il congedo di paternità da 5 a 2 giorni.

Perché, tanto, i nostri guai sono tutti colpa dell’Europa.

E di chi, in Italia, si ostina a non mostrare le chiappe…

 

Antonella Ferrari

 

 




Chi è lo schiavo e chi è il padrone?

Riflessioni a seguito della lettura de La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe

Noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che troviamo, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici, consideriamo la nostra umanità.

L’incipit di questo articolo è chiaramente una parafrasi della poesia “se questo è un uomo” di Primo Levi.

Ho scelto queste parole perché, lo confesso, sono in difficoltà nel trovarne di mie.

Come tanti, sono una lettrice di romanzi, di essi mi piace il fatto che, naturalmente, passano sottobanco una serie di stimoli che da sola non saprei neppure di voler cercare.

Purtroppo questo non è del tutto un bene perché non sempre quello che troviamo è quello davanti a cui vogliamo trovarci.

Il lettore sa che può capitare che si legga per il piacere di farlo e poi, alla fine, ci si ritrovi come “scomodi”.

Un sorta di spina nella carne, come mutuava Kierkegaard da Paolo di Tarso.

Ma forse la letteratura, come l’arte in genere, potrebbe essere questo: un pungiglione.

Alle volte potrebbe venire da pensare che se concilia non è arte.

Ma torniamo alle mie scelte letterarie che, per caso, questa volta sono ricadute su “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, romanzo celeberrimo, soprattutto per i solutori di parole crociate.

Romanzo notissimo, dicevo, ma nei confronti del quale io, oltre al nome di Tom inserito più volte nelle caselle in senso orizzontale o verticale, non ero andata.

L’incipit sembra quello di un classico romanzo dell’Ottocento che racconta le romantiche (nel senso etimologico del termine) dinamiche dei personaggi 

Andando avanti le cose cambiano velocemente e arrivano già le prime avvisaglie della vergogna.

Per chi come me avesse sottovalutato la trama del romanzo, la capanna dello zio Tom racconta le dinamiche della schiavitù nell’America dell’Ottocento, di come venivano percepiti e trattati di schiavi e di come fosse mortificante e mortificata l’umanità degli schiavi e dei padroni.

Oltre ai personaggi con nomi e caratteri, i protagonisti trasversali del romanzo sono la religione cristiana, la cultura e la schiavitù.

Le vittime, come in tutti i romanzi, siamo noi lettori che pensiamo di passare qualche ora di benessere e ne usciamo scossi.

La storia è ambientata nella prima metà del 1800, per un periodo lungo una vita (quella di Tom), siamo prima del 1850 e siamo in America.

Quello che fa pensare è che si tratta di meno di 200 anni fa, un lasso di tempo che interessa ancora le storie di qualche bisnonno, praticamente l’altro ieri.

La schiavitù

In America, la terra dei grandi sogni e della libertà, era accettata la schiavitù ed esistevano gli schiavi, bene mobile del patrimonio umano.

In Europa, non da meno, la prima rivoluzione industriale portava in seno e dava alla luce la classe operaia paragonata nel corso del romanzo, a una simile schiavitù.

Il pretesto letterario è la storia di Tom: schiavo fedele venduto controvoglia dal suo amato padrone e in attesa di essere riscattato per tornare dalla sua famiglia.

Tom, viaggiando con un carico di schiavi e l’altro, attraversa stati e fiumi e incontrata tanti schiavi, tanti padroni e tanti mercanti di schiavi.

Gli schiavi dalla descrizione della storia hanno nella loro essenza il marchio di infamia della loro origine cattiva (ovvero legata alla cattività), di loro si pensa che non abbiano affezioni né sentimenti umani, anche il padrone più progressista e pio li guarda con benevolenza ma non riesce a vederli come pari a lui.

Più simili a quelli che per noi oggi sono gli animali domestici che agli uomini, gli schiavi portavano le catene ai piedi e dentro l’anima.

Chi conosce il romanzo, la tematica e la critica, sa che questo romanzo ha gettato le basi per tanti stereotipi che descrivono lo schiavo negro americano.

Può piacere o non piacere, può apparire troppo sentimentale o penoso o, addirittura, riduttivo, ma è comunque un documento e una testimonianza.

Le storie raccontate sono vere e i sentimenti sinceri ed è questo che destabilizza e scuote dal torpore

La religione


La religione viene offerta loro come placebo per sopportare i dolori e diventare esempi di santità; dà la forza per cambiare vita ed è il pretesto e la strada per acculturarsi.

Leggere la bibbia e scrivere alle persone care, sono le leve che spingono i protagonisti a voler imparare a leggere e scrivere.

La religione è la doppia leva che, se da un lato spinge i padroni – soprattutto le donne – alla carità, dall’altro lato legittima la schiavitù.

La cultura

La cultura distingue schiavi da padroni.

Chi sa leggere e scrivere ha diritto di avere sentimenti perché anche il più sciocco e vuoto personaggio, grazie alla cultura, è un uomo e non uno schiavo.

Lo schiavo che sa più o meno leggere diventa prezioso e acquista valore commerciale, lo schiavo che sa leggere e scrivere, si è insinuato nella società.

E tutto questo, lo ripeto, avveniva meno di 200 anni fa.

E oggi dove sta la nostra schiavitù?

Di che colore è la pelle dei nostri schiavi?

E quella dei padroni? 

Noi chi siamo? Schiavi o padroni?
Ci sono persone che, crediamo, non abbiano i nostri stessi sentimenti?
Ci sono persone rispetto alle quali, crediamo di avere passioni inferiori?

C’è qualcosa di tangibile che ci fa sentire superiori o inferiori ad altri?

C’è per caso una schiavitù che sopportiamo perché pensiamo non ci riguardi o sia naturale?

Quanto devono essere recenti le disumanità perché possiamo dimenticarle o ignorarle?

Riferimenti:

Poesia Se questo è un uomo di Primo Levi

https://www.riflessioni.it/testi/primo_levi.htm

Audiolibro de La capanna dello zio Tom

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/harriet-beecher-stowe/la-capanna-dello-zio-tom-audiolibro/




Il punto di vista di Barbablu

Quelli come me tagliano carne ed ossa.

C’è chi dice persino che certe notti ululiamo alla luna
ma non vi dirò se questa diceria sia vera o no.

Una cosa però non potremmo negare né dissimuleremo mai, neppure se lo volessimo: 

siamo predatori e del predatore portiamo il segno.

Quelli come me hanno fatto la guerra e praticato la magia.

Dalla guerra abbiamo preso il gusto del sangue, 

a causa della magia ci è cresciuta la barba blu.

La nostra razza l’abbiamo scritta in faccia.

La barba ci rende riconoscibili e racconta i nostri segreti.

In guerra abbiamo imparato che il compagno è l’unico del quale ci possiamo fidare e che senza di lui che ci guarda le spalle, saremo spacciati.

Dalla magia abbiamo imparato la potenza della parola e come essa possa costruire, se ben usata, e distruggere, se abusata.

Non siamo persone raccomandabili e a prima vista non piaciamo a nessuno.

Siamo sinistri, inquietanti, scontrosi, silenziosi e predatori;

brutti, offensivi, efferati e furiosi.

E anche noi abbiamo bisogno di amare.

Anche noi sentiamo il bisogno di una compagna.

Una piccola creatura da amare, di cui prenderci cura e da fare ricca.

Qualcuno in grado di prendere e dare e non distrarsi in altre cose.

Cercavo anche io qualcuna che si fidasse di me e non mi tradisse 

qualcuna dalla parola sincera 

qualcuna a cui la mia barba non sembrasse poi così blu…

L’ho cercata 

e l’ho trovata.

Sono entrato nei salotti e mi sono fatto civile, ho corteggiato un fiore e l’ho sposato.

Portai la mia giovane sposa nel mio palazzo dalle infinite stanze.

Le ho dato le chiavi di tutte le porte e del mio cuore e mi sono fidato di lei.

Le ho permesso di aprire tutte le porte tranne una.

Era una buona prova: anche Dio l’aveva usata con Adamo ed Eva.

E lei non l’ha superata.

Mia sposa amara,

sono uscito dal castello, ti ho lasciata libera e mi hai tradito.

Ti è sembrata troppo bella la vita con me da cercare un segreto che ti avevo detto di non violare.

Mi conoscevi quando hai accettato la promessa e, nella sincerità del tuo cuore, non potrai dire che non te lo aspettavi.

Mi hai mentito, hai negato e vuoi dare a me la colpa

Ma io ora soffro 

e per colpa tua, 

mia vecchia amata, 

dovrò ucciderti.

—–

Simbolico dialogo interno, personale e opinabile del Signor Barbablu tradito e ferito dalla sposa scelta e amata.

Dedicato a chi crede di riconoscersi.