L’isola che non c’è e la maledizione di Kronos

LA SICILIA SENZA FUTURO

“Si narra che il più giovane dei Titani, Kronos dio del tempo, invidioso che gli abitanti della Sicilia vivessero in una terra così bella scagliò contro gli isolani una maledizione privandoli del futuro e condannandoli a vivere in un’eterno presente”. Questo è quello che si racconta.

 Sembrerebbe una di quelle affascinanti storie legate alla mitologia greca se non fosse per il fatto che è completamente inventata, non ci è stata tramandato infatti nessun racconto riguardo l’invidia di Kronos per i siciliani, da nessuna parte si parla di questa maledizione è tutto inventato di sana pianta per puro diletto, ma mi piace pensare che sarebbe potuto essere.

 Fatto sta però che, dei e incantesimi a parte, il futuro ai siciliani manca davvero ed è quello della loro lingua, o dialetto che dir si voglia, se ci si riflette un attimo, ci si accorge infatti che se un siciliano deve declinare un verbo al futuro gli è impossibile perché nella lingua siciliana non esiste il tempo del futuro.

 Un esempio? Se bisogna dire “domani andrò a mare” in siciliano diventerà “devo andare” o “domani vado” e quindi “dumani vaiu a mari”, se devo dire “domani verrò” dirò domani vengo “dumani vegnu” in questo modo il verbo è sempre al presente preceduto da un avverbio che invece indica il tempo.

 In una ormai famosa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia alla giornalista francese Marcelle Padovani e divenuta un libro dal titolo “La Sicilia come metafora” il grande intellettuale diceva con amarezza: “ E come volete non essere pessimista in una terra dove non esiste il tempo futuro?” ed il  futuro a cui si riferiva Sciascia era in questo caso proprio quello della “lingua” siciliana.

È questa una singolarità del siciliano parlato, un’anomalia che da sempre ha affascinato linguisti ed intellettuali sembra insomma che la parola futuro noi siciliani non riusciamo neanche a pronunciarla.

È come se fossimo  prigionieri  di un sortilegio che ci fa vivere in un’eterno presente, in una dimensione temporale che non contempla altro che l’oggi.

Come spiegare tutto ciò?

 Il filosofo Manlio Sgalambro asserisce che ogni isolano non avrebbe voluto nascere, l’essenza della Sicilia è spiegata per lui con la volontà di sparire. Ma congetture filosofiche a parte è veramente così?

 È innegabile che questo lembo di terra posto quasi al centro del Mediterraneo, tra Oriente ed Occidente, questa testa di ponte tra l’Africa e l’Europa partecipi in maniera rilevante alla bellezza paesaggistica e monumentale di questa parte di pianeta.

 È stato scritto che “il bello è lo splendore del vero” e basta guardarsi in giro dove tutto ciò viene espresso nella magnificenza dei monumenti barocchi, nella fantasia e nell’abbondanza dell’arte culinaria, in un paesaggio mai scontato che passa da una montagna che sputa fuoco da millenni a dorate distese di grano, da foreste rigogliose a spiagge dove il mare ha i colori di un sogno.

 Ma dietro questa immagine di una bellezza patinata e le parole suadenti da ufficio promozione del turismo traspare nei fatti e nella storia comunque  un malessere che fa dei siciliani personaggi tendenti quasi all’autodistruzione, un caso patologico di quelli da manuale.

L’intera Sicilia è una dimensione fantastica in cui è impossibile viverci senza immaginazione diceva ancora una volta Sciascia che di questa terra e dei suoi abitanti è stato un mentore arguto ed appassionato.

Già come si fa a viverci?

Lo sanno bene le civiltà che si sono succedute nei secoli che qui vivevano ed anche bene che però al futuro pensavano eccome, lasciando testimonianze che rappresentano il meglio di quanto fossero capaci, monumenti che sembrano sfidare l’eternità.

Civiltà e culture esterne hanno prodotto in quest’isola quello che neanche nei loro luoghi di provenienza hanno potuto osare immaginare, quasi fosse un’obbligo nei confronti di  una terra di conquista ma dalla quale sono stati inesorabilmente ammaliati e conquistati.

 Ma allora per pensare al futuro, per uscire fuori da questo loop temporale bisogna non nascere in Sicilia?

È questo l’unico modo per annullare la “maledizione” che non ci fa vedere oltre il presente?

La diffidenza verso quello che sarà o potrebbe essere è forse banalmente la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce e che potrebbe divenire peggio di quello a cui ci si è già abituati.

Avvezzi a spaccare i capelli in quattro” faceva dire Tomasi di Lampedusa a  Don Fabrizio nel  Gattopardo parlando del rapporto tra i siciliani e i governanti di  turno “Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa , siamo fatti così”.

Ma il futuro non ci è stato negato da un Titano invidioso ma da qualcuno potente anch’egli, una serie di qualcuno meglio dire, che ha deciso con lucidità e cinismo che se si risolvono i problemi e le esigenze di un popolo quello stesso popolo non sarà più ricattabile ed allora conviene tenerlo perennemente sotto scacco ad ogno costo, il do ut des qui è diventata legge.

Il problema è non fare diventare legge la rassegnazione.

Prendo in prestito ancora una volta le parole del principe di Salina al piemontese Chevalley che invitava il principe a diventare senatore per contribuire a sanare quelle che già allora erano le tante piaghe, i tanti desideri da esaudire: “ I siciliani credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria” rispondeva Don Fabrizio. Un’analisi impietosa del carattere di un popolo ma troppo letteraria, non perfettamente corrispondente alla realtà che in questo caso è sempre molto più complessa di un romanzo se pure un capolavoro.

Lo sforzo dovrebbe a mio avviso essere quello di uscire fuori dalla cornice di un ritratto che in parte ci appartiene pure ma che non è detto sia quello definitivo. L’atteggiamento di diffidenza nei confronti della vita spesso ce lo si legge in faccia come se si fosse usciti fuori da un quadro di Antonello da Messina, da uno dei suoi celebri ritratti, ma quelli sono capolavori noi molto più semplicemente gente di passaggio.

Si parla sempre di riscatto dei siciliani come se fossimo nati col peccato originale di esserlo. Quelli che continuamente vengono chiamati i mali della Sicilia e che a tutti sono ben noti sono gli stessi che ci tengono prigionieri di un cliché ormai parte di un immaginario planetario duro a morire.

La parola d’ordine per chi finisce gli studi è andare via, qui non c’è nulla, nessuna prospettiva, nessuna speranza lavorativa e già da tempo l’Italia stessa è diventata stretta per chi vuole crearsi un’avvenire.

Crisi economiche, bolle finanziarie, banche che falliscono, corruzione….che se mettono in ginocchio una nazione, un’intero continenete figurarsi cosa possono provocare ad una  regione a rischio fallimento.

Cosa fare? Ah saperlo!

Per chi ha una fede ed è credente pregare, per gli altri lo stesso non si può mai sapere, vuoi vedere che…

Più seriamente penso si potrebbe  ricominciare e partire da una parola, una semplice parola dal significato bellissimo: “etica”. L’applicazione della morale nella vita di tutti i giorni, quella propensione a fare il bene senza essere dei santi, a preoccuparsi per gli altri senza essere madre Teresa di Calcutta, fare quello che si deve fare e magari farlo pure bene ed in ultimo ritornare ad indignarsi cosa alla quale sembriamo ormai anestetizzati.

Tutto ciò non è la soluzione a tutto ma potrebbe diventare l’inizio di un cambiamento, perché no?

Ed allora come nei versi di una famosa canzone degli anni 80: ”Seconda stella a destra…e poi dritto fino al mattino” alla ricerca di un’isola senza santi ne eroi,  senza ladri e guerre…insomma l’isola che non c’è!

Siamo la città più europea dell’Africa come dice qualcuno parlando di Palermo, già la Sicilia è la Svizzera africana che messa così non è poi tanto male, in questo caso basta sapersi accontentare.

 

Sandro Mammina




1937 1945: Buchenwald e la memoria.

Era l’11 aprile 1945 quando gli americani arrivarono nel campo di concentramento di Buchenwald.

Parecchi non sanno la storia di questa funesta distesa e dei drammi che si consumarono al suo interno, tra l’impassibilità di coloro che pur capendo si stringevano in un dedito silenzio.

Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio del 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.

Era il 16 luglio del 1937 quando un commando di circa 300 deportati, elevò, con attrezzi arcaici e limitati, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Goethe».

(Le SS lasciarono in piedi L’albero di Goethe sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Questo campo, eretto da mezzi primitivi, giunse a contenere un numero pari a 238.980 anime, esso fu uno tra i lager dove si eseguì principalmente lo sterminio tramite il lavoro.

Alcune fonti rimandano ad un numero complessivo di 43.045 vittime, secondo altre fonti furono invece 56.554 secondo altre, tra essi 11.000 erano ebrei. Poco importa oggi trovare l’esatta cifra da inserire negli annuali più tristi della storia, il massacro andava fermato non conteggiato.

Il campo fu dapprima istituito come luogo di prigione cautelativa e di punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi.  

Se nel luglio del 1937 al suo interno si contavano 149 persone, alla fine di quello stesso anno il numero crebbe in modo sproporzionato fino a raggiungere 2.651 vite limitate tra i fili spinati di quel campo. Per le cifre che doveva contenere non poteva che essere eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti.  

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali”, e ai testimoni di Geova, si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la Notte dei cristalli, Kristallnacht, altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale», e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Al momento della liberazione il 95% degli internati non erano tedeschi.

Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano, e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo. Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo.

Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti.

Era l’11 aprile del 1945 quando il campo veniva liberato al suo interno si contarono 16.000 internati, 4.000 erano ebrei e circa 1000 bambini.

Molte cifre numeriche sono state inserite in questo articolo e non è un caso, il mio intento era quello di dare attraverso quelle cifre un’idea dell’orrore che quotidianamente ed inarrestabilmente in quegli anni avveniva. 

L’olocausto è una delle pagine dell’Umanità da cui ma si deve togliere il segnalibro della memoria.