La libertà di stampa

Mi soffermo spesso sul termine la Libertà di Stampa, e più ci penso più mi accorgo che viviamo ormai in un mondo più bieco ed ottuso nonché misero rispetto a quello in cui fu coniato questo termine.

l’Articolo 21 della nostra Costituzione (1948) recita:

” Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”

Ma quel tutti di allora a che società si riferiva?

A che strumenti faceva riferimento la nostra costituzione?

Ai giornali, agli scrittori, ai giornalisti, ai politici, a color che strutturavano il loro pensiero secondo regole del buon senso e della convivenza civile, a fonti certe, a notizie verificate, a possibilità di contraddittorio, a tempi precisi delle notizie, insomma ad un altro mondo.

Addirittura c’erano 24 ore per il sequestro di un giornale (ma anche solo 24 ore per tenerlo fermo), e questo a tutela di eventuali notizie che arrecassero danno immotivato o che violassero i diritti del pubblico ad avere notizie comprovate dai fatti, c’era un’etica della pubblicazione delle notizie (imperniata nel codice deontologico della professione giornalistica) che garantiva che nessuno si sarebbe permesso di fare uscire delle notizie senza averle verificate, a pena di gravi sanzioni ed addirittura di radiazione dall’ordine, massima pena morale per un giornalista.

L’articolo 2 della legge n. 69 del 3 febbraio 1963 sulla stampa:
«È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori».

Lealtà, buona fede, verità, rettifica, fiducia, cosa che oggi non si trova tra le migliaia di notizie pubblicate ogni secondo.

Oggi una notizia sbagliata esce in tre secondi e rimane sul web per decenni, oggi chiunque può pubblicare una notizia che diventa paradossalmente tale indipendentemente dalla fonte, perché viviamo in un mondo talmente affamato di media che qualsiasi cosa “fa brodo”.

Oggi la Costituzione non avrebbe più l’articolo 21, ma ne dovrebbe avere almeno altri tre, uno sui diritti del pubblico di leggere cose vere, un altro che impone ai giornalisti o presunti tali di citare non solo le fonti, ma anche chi non hanno sentito nello scrivere l’articolo (troppo spesso si parla di qualcuno senza averlo nemmeno consultato), ed infine l’ultimo che imponga a chiunque arrechi danno tramite informazioni di correggere al proprio errore nello stesso modo dimensionale in cui viene arrecato.

Oggi si legge solo la notizia cattiva: e già, oggi chi legge non ha interesse a sapere che c’è del bene nel mondo, vogliamo solo sapere se c’è qualcosa peggio di noi, se qualcuno è stato più cattivo, se in fondo in fondo noi siamo meglio di quello che siamo davvero.

Chi vive nella comunicazione lo sa benissimo ed i dati in nostro possesso lo confermano, facciamo un esempio:

abbiamo pubblicato una notizia su un senatore che non aveva titoli di studio 200.000 visite, abbiamo pubblicato la notizia del maestro di strada che vive per aiutare i ragazzi in difficoltà 20.000 visite.

Per carità, non che siano poche 20.000 visite, ma la differenza è notevole.

In fondo le Fake News sono il segno dei tempi e del decadimento morale di questo secolo, ma anche un pericoloso campanello d’allarme perché rappresentano l’insostenibile leggerezza sociale di oggi.

Questo mondo così veloce non ci lascia più il tempo di riflettere, il copia incolla parossistico dei giornali falsa qualsiasi comunicazione, il martellamento delle notizie ci lascia indifferenti all’umanità che le stesse sgretolano.

I mi piace, i click, le visite, tutto per aumentare la visibilità, tutto per guadagnare di più o sopravvivere in un mercato troppo cambiato e senza regole.

Certo che se devo verificare una notizia magari perdo qualche ora e così esce prima sulla concorrenza, poi google tiene in prima vista sul motore di ricerca quella uscita prima perché prende più click, quindi pubblichiamo poi al limite faremo una smentita se qualcuno ci dice qualcosa…

Questa è l’etica oggi, ma così si tradiscono i lettori, si tradisce lo spirito che lega la notizia al giornalista, al comunicatore, la fiducia che muove la coerenza di chi legge, ma sopratutto falsa i canali di comunicazione, li rende inutili, ne fuorvia i significati.

Forse dobbiamo anche riconoscere che oggi la verità non è più interessante, che abbiamo abituato le nuove generazioni a vivere in mondi virtuali con sfaccettature 3D e quindi la verità da sola non basta più per soddisfare i crescenti appetiti dei lettori, giovani o vecchi che siano, forse dobbiamo anche osservare che esiste una progressiva perdita di valori che ci lascia vuoti dentro e così dobbiamo riempirci di cose, dobbiamo sentirci pieni di qualcosa che sia però peggio di noi, proprio per poterci sentire meglio, per poter dire va beh, ma io non sono così cattivo, si io ho rubato ma lui di più, si è vero evado le tasse ma lui di più, si è vero tratto male i miei figli ma lui di più, si è vero sono insofferente su tutto ma lui di più…

Quel lui è la nostra salvezza, ci salva dal guardarci dentro e dal non trovarci, quel lui ci serve per poter rimanere convinti di essere brave persone, e lo cerchiamo ovunque pur di sfamare la nostra paura di non essere veri, autentici, quello che volevamo essere.

Quel lui lo troviamo nelle mille notizie false o magari anche vere ma che sono orrende, orribili, tragiche e che dovrebbero farci balzare sulla sedia, mentre invece ci danno tranquillità perché noi ci crediamo meglio.

Quel lui ha trasformato la libertà di stampa in necessità di dire qualsiasi cosa, in qualsiasi modo, purché subito, prima degli altri e possibilmente il più scabrosa possibile.

Inutile oggi parlare di libertà di stampa, inutile parlare di diritti se tutto è chiuso dentro il valore di un like, perdiamo un poco di tempo per ritrovare noi stessi ed i nostri valori, come persone, come comunità, come società, perdiamo tempo per aiutare i giovani a cercare la verità anche nel loro essere social, forse riusciremo anche a ritrovare la libertà di stampa, o quantomeno il suo significato.

 

Corrado Faletti

Direttore

 

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Targa Florio: dal 1906 cuore di Sicilia

Sono infinite le relazioni che affioreranno in noi nell’esatto istante in cui viene citata la Targa Florio.

Non so per voi ma per me, nata e cresciuta in Sicilia, non è semplicemente una gara, è la gara per eccellenza quella che percorre i tortuosi tragitti delle Madonie, la stessa che ha regalato emozioni infinite, batticuori e fiato sospeso, che ha attirato a sé migliaia di amatori, la gara che sin dagli esordi era destinata a divenire leggenda.

Alla fine dell’ultima competizione da poco conclusa, ho scelto di intervistare colui che per noi Siciliani, e non solo, è il campione indiscusso: Salvatore Riolo o come dice lui semplicemente Totò.

Quella che vi mostrerò non è semplicemente un’intervista concessa ai nostri microfoni di Betapress è diventata qualcosa di più, perché sebbene lui sia il campione ed io la Cronista, con Totò si finisce per fare due chiacchiere e dopo pochi istanti vi accompagnerà ad amare il Rally un po’ come lo ama lui.

Non ho intervistato solo un fuoriclasse ma un amico, un uomo distinto ed umile che si vanta della sua sicilianità ma che nonostante gli innumerevoli successi è rimasto sempre con i piedi per terra.

 

Saia: Dopo aver partecipato a 360 gare in tutta Italia, in tutta Europa, dopo 180 vittorie assolute, dopo aver scritto delle splendide pagine di sport, io vorrei partire dal momento in cui tutto ebbe inizio, come e quando è nata in te la passione per il Rally?

Riolo: la mia passione nasce dal fatto che siamo nati e cresciuti in un territorio in cui insita è la targa Florio. Quando ero bambino davanti la mia abitazione transitavano queste macchine fantastiche, con colori strabilianti e rumori eccezionali, credo che ciò abbia contribuito a scatenare in me questa sconfinata passione per il mondo automobilistico. Sono nato nel 1965 e negli anni importanti della targa Florio ero solo un bambino, all’età di 12 anni ero il piccolino che rimaneva incollato al balcone per veder sfrecciare, una dietro l’altra, le auto da corsa. Questa passione la mettevo in pratica non appena patentato, all’età di 18 anni, con la mia prima vera gara; è lì che iniziavo a realizzare il mio sogno: quello di correre la targa Florio. La mia prima gara è stata da navigatore con accanto un grande e fraterno amico Pietro S., fu lui che mi condusse al debutto, perché debutto è stato! Da lì inizia una carriera fantastica, ed oggi dopo 30 anni di gare sono ancora qua ad emozionarmi rivivendo la mia prima gara, l’esatto momento in cui tutto ebbe inizio, l’istante in cui ho compreso che si accendeva in me una passione destinata a durare nel tempo.

Saia: Hai scritto delle straordinarie pagine dell’automobilismo, qual è l’emozione che provi ogni volta che gareggi in quelle strade che ti hanno visto crescere dal punto di vista professionale e che ti hanno regalato infinite emozioni?

Totò: Dopo 30 anni di gare, un po’ ci si abitua anche se correre in casa è sempre un emozione particolare, come si suol dire essere profeta in patria non è mai facile. Quest’anno per scelte del mio team legate agli sponsor abbiamo deciso di correre in pianta stabile nel campionato italiano Rally auto storiche, si tratta di un campionato molto seguito, una competizione con numeri importanti che si svolge in tutta Italia. La targa era la terza gara; siamo partiti con il Valli Aretine in Toscana competizione che mi ha condotto alla vittoria, la seconda è stata il Rally di Sanremo, in cui per un piccolo problema mi sono dovuto fermare e poi il targa che era la terza gara del campionato che ci ha permesso di portare a casa molti punti. In questo due cose si uniscono due cose importanti: passare in testa al campionato Rally auto storiche e vincere di nuovo la Targa. Devo ammettere che vincere la Targa Florio, gareggiando in casa, regala sempre emozioni uniche. Indescrivibile è l’orgoglio provato quando nel 2002 conquistavo la mia prima vittoria della Targa Florio: ero di fronte grandi nomi che hanno scritto pagine indimenticabili del Rally quali Andreucci, Basso e molti altri, quella vittoria ha rappresentato per me non un punto di arrivo ma di partenza perché comunque un siciliano che vinceva la Targa non accadeva dal 1975 quando il grande Vaccarella, trionfava nella targa Florio storica. Un siciliano dominava il podio della targa Florio, scusami il giro di parole: un siciliano, da privato che vinceva la Targa Florio, quel siciliano ero io e quella è stata una gioia indescrivibile.

Saia: Come è cambiato il mondo del Rally in questi anni?

Riolo: È cambiato tanto perché la Targa Florio di velocità non si può più praticare, per motivi di sicurezza la nostra federazione non concede più le autorizzazioni per attraversare i Paesi in gara. Oggi il mondo dell’automobilismo si è spostato dalla velocità ai rally che sono a tappe, prove speciali che vengono chiaramente chiusi al traffico e lì si corre mentre poi ci sono tutti i tratti di trasferimento dove devi chiaramente si devono rispettare i codici della strada. Come è strutturato oggi, il rally avvicina tantissima gente perché comunque nell’ideale collettivo il Motor Sport oltre la salita, oltre la pista è Rally; la targa si è aggiornata, si è dovuta aggiornare, per continuare ad essere la gara più famosa e più antica al mondo.

Saia: Noi di Betapress siamo molto vicini ai giovani e ad investire su di loro e su ciò che il nostro territorio può offrire, come volete investire voi facenti parte del mondo automobilistico nei confronti dei giovani.

Riolo: Il Motor Sport in generale è uno sport molto costoso, abbiamo moltissimi giovani che amano questo sport ma il problema di fondo sta nel fatto che non ci sono azienda che credono nel Motor Sport, o per lo meno ci sono ma sono molto poche, i giovani che si avvicinano allo sport hanno bisogno di sovvenzioni. Io come Totò Riolo ma soprattutto noi come Targa Racing Club che annovera 150 associati, prettamente piloti, nasce per promuovere il Motor sport nei ragazzi, attingiamo a loro dal mondo dei Kart e per poi condurli a debuttare nel mondo Rally. Il progetto che stiamo cercando di realizzare è quello di far nascere una scuola di pilotaggio, questo è un sogno che da tempo voglio realizzare. Sembra che finalmente i tempi siano maturi e se tutto andrà bene Targa Racing Club si occuperà innanzitutto della promozione del territorio, ed in questo volevo fare un piccolo appunto: ho corso in tutto il mondo ed ovunque mi sono trovato la gente mi chiedeva la mia provenienza, ho sempre risposto di essere Cerdese, bastava nominare Cerda per far scattare quasi automaticamente l’indiscusso connubio con la terra della Targa Florio. Quanto appena detto non può che riempire d’orgoglio un siciliano; sono stato il trade union di tutte le amministrazioni che si sono susseguite in questi ultimi 20 anni a Cerda, sono stato il beniamino della Regione Sicilia nel campionato europeo, dove avevo un contributo dalla Regione denominato “Sicilia tutto il resto in ombra”, per cui sono sempre stato punto di riferimento nella valorizzazione del territorio. Ritornando alla domanda iniziale, i giovani sono un mio progetto che stiamo cercando di realizzare, e poi parliamoci chiaramente non posso correre ancora per chissà quanti anni, sono ancora molto competitivo ma voglio dedicarmi anche ad altro e le nuove generazioni, tra cui mio figlio Ernesto, sono il mio obiettivo principale.

Saia: Le domande non in programma fanno parte del nostro lavoro e mi hai spianato la strada ad una domanda personale; hai menzionato Ernesto, tuo figlio, che segue le tue orme e dunque la mia domanda sorge spontanea, cosa si prova a gareggiare sapendo che il proprio figlio partecipa alla medesima gara?

Riolo: Abbiamo già fatto un paio di gare assieme, chiaramente il mio pensiero è sempre stato quello di chiedere a Gianfranco Rappa, il mio navigatore, notizie di Ernesto, diciamo che da padre non è facile, nonostante questo ciò Ernesto lo vedo abbastanza bene perché sta crescendo motoristicamente mettendo in ciò che fa impegno e dedizione, sono certo che farà la sua strada ed io lo seguirò ad ogni passo, augurandogli di poter ripercorrere i miei successi.

Saia: Cosa ti aspetti per il futuro?

Riolo: Mi aspetto che il nostro territorio e soprattutto noi siciliani potremo vantare ancora tanti successi, mi aspetto che i giovani abbiano il loro attimo di gloria così come a me è stato concesso e poi chiaramente voglio seguire Ernesto ad ogni suo passo. Devo aggiungere un grazie a delle persone speciali che fanno parte della mia vita, se oggi sono qui ed ho realizzato i miei sogni è grazie alla mia famiglia, a mia moglie e ai miei figli che mi hanno sostenuto e supportato in qualunque scelta e ad ogni gara, in particolare voglio dire grazie a mia moglie per essere stata al mio fianco e per avermi dato la possibilità di potermi muovere, senza lei sono certo che mai sarei arrivato dove sono.

 

Milena Saia

 

 

 

 

 

 




Grazie Ciro

“Penso che Ciro ci abbia dato un altro dei suoi grandi insegnamenti su un tema sul quale stiamo riflettendo in questi giorni.

Non è la morte che trovi ma la vita che fai.

Ciro poteva benissimo rimanere in casa come Tigro.
Poteva addirittura essere un gatto buono e mansueto e restare nella sua prima casa
Ma lui era uno spirito libero e irrequieto

Lui aveva fame di tutto come dovremmo averne noi
Lui pretendeva, recriminava e otteneva, come dovremmo fare noi
Lui non aveva paura di nulla, come dovremmo fare noi

Se è morto, è stato un accidente della vita che ha vissuto al meglio e non dobbiamo avere sensi di colpa o rimorsi
Noi siamo stati un incontro nella sua vita che lui ha vissuto come ha voluto
Adesso forse è in viaggio verso un’altra vita e rinascerà Napoleone
Forse tornerà da noi ma non siamo i suoi padroni”

Questo messaggio l’ho inviato a Fulvio una sera che pensavamo che Ciro fosse stato investito.

Poi, il giorno dopo, abbiamo verificato che non era lui il gatto investito

Ad oggi pensiamo che abbia trovato un’altra casa

La riflessione su un gatto che ha dato tanto spunti, resta.

Senza Ciro e senza la possibilità di raccontare le sue avventure, sarò una persona meno interessante.




Pinguini Tattici Nucleari: Noi, “Fuori dall’Hype” per vocazione.

Carissimi lettori, inizia oggi, venerdì 17 maggio 2019, la collaborazione esecutiva con Rockography, come già comunicato le scorse settimane. E’ un passo in avanti, è una storia tutta nuova fatta di musica, di informazione e innanzitutto di “amicizia operativa” con la redazione di Rockography e nello specifico con uno dei giovani giornalisti più promettenti: Sacha Tellini.

Recensioni, interviste approfondimenti e rivelazioni di tutto quel mondo musicale italiano ed estero che può definirsi ancora “ARTE”! Abbiamo abituato i lettori di MUSIC a dettagliati reportage e linee editoriali chiare con l’obiettivo di farvi conoscere il pensiero e la musica di molti Artisti (con la “A” maiuscola) lontani da tutta quella finzione commerciale che domina i social ed i media (la televisione in primis).

Abbiamo intervistato Riccardo Zanotti, leader e cantante dei Pinguini Tattici Nucleari prima del loro concerto all’Auditorium Flog di Firenze, una delle band più promettenti del panorama pop/indie italiano. Buona lettura.

PERTH

Pinguini Tattici Nucleari: Noi, “Fuori dall’Hype” per vocazione.

Allora, partiamo dalle origini: come nascono i Pinguini Tattici Nucleari ?

“Beh, probabilmente come sono nate tante altre band. Eravamo un gruppo di amici, che un giorno ha deciso di provare a fare questa esperienza. All’inizio dunque, tutto è partito per gioco, per divertimento: salivamo sul palco senza neanche sapere le canzoni che avremmo suonato davanti al pubblico, questo per darti l’idea di quanto fosse per noi, appunto, solo un gioco. Con il tempo, è diventata una cosa sempre più seria, anche se non eravamo minimamente preparati a questo: infatti, eccetto me, tutti gli altri componenti avevano fatto studi diversi rispetto alla musica, ed è così quindi, un po’ per caso direi, che sono nati i Pinguini Tattici Nucleari.”

A cosa si deve, invece, il nome della band ?

“Il perché di questo nome è un segreto che non posso dire, perché altrimenti il nostro manager Gianrico me la fa pagare cara!” (Nel frattempo abbiamo scoperto da nostra fonte la genesi del nome, ma per rispetto al nostro ospite non lo riveleremo; n.d.r.)

Non puoi darci neanche un indizio ?

“Neanche questo purtroppo, mi dispiace. Posso solo dirti che il pinguino è il nostro animale guida, e infatti è un elemento molto ricorrente anche nei nostri live: dal pupazzo che sale ad un certo punto dei nostri concerti sul palco ai visual, è una presenza davvero costante. Scusami davvero, ma è un segreto che proprio non posso rivelare.”

Dal vostro album di esordio “Il re è nudo” (2014), passando per “Gioventù bruciata” (2017), fino ad arrivare ad oggi, con il vostro ultimo lavoro, “Fuori dall’Hype”, come sono cambiati i Pinguini Tattici Nucleari ?

“Guarda, come ti dicevo prima, giorno dopo giorno ci siamo resi conto che stava diventando un lavoro vero e chiaramente la vita ti cambia, si sconvolge. Gli equilibri e le relazioni che hai con un “lavoro normale” vengono completamente stravolti. Con un lavoro come questo, non riesci più ad avere un orario normale in cui mangi e in cui vai a letto, e di conseguenza anche il tuo rapporto con ciò che hai muta, inevitabilmente. Io sono diventato una persona molto più paziente: ad esempio mi sono molto abituato ai viaggi lunghi, rispetto ai quali prima non lo ero affatto. Mi ricordo che quando abbiamo iniziato ad andare a Torino da Bergamo, mi sembrava che ci volesse tantissimo tempo; poi ho iniziato a vedere il tempo con una prospettiva diversa, proprio grazie a questo lavoro, e quella distanza, rispetto ad altre tratte che percorriamo oggi, mi sembra davvero molto breve. Nel nostro caso però, devo precisare che se tante cose sono cambiate, altre non sono cambiate affatto. Per esempio, lo spirito con cui ci approciamo ai concerti è ancora quello dell’inizio: suoniamo semplicemente per il gusto di farlo e per divertirsi, cercando ogni volta di dare il meglio di sé.”

Qual è stato il punto di svolta della vostra carriera ?

“Direi che ce ne sono stati tanti, come spesso succede se una carriera può essere definita sana. Ci sono infatti tanti steps, è difficile che ce ne sia uno soltanto: pensa che, in inglese, esiste un termine coniato appositamente per definire tutte quelle band che dopo aver fatto una sola canzone spariscono dalla circolazione: le band in questione vengono definite one hit wonder, ed è in questo caso che si può parlare di un solo punto di svolta. Le cose nel nostro caso fortunatamente sono diverse: abbiamo macinato palco dopo palco, abbiamo scritto tante canzoni, segno di un lavoro graduale, costante e progressivo. Posso forse identificarti un punto di svolta che sia stato più forte degli altri: questo coincide con la scrittura di una nostra canzone, ossia Irene, che per prima ci ha fatto rendere conto di quella che sarebbe stata la nostra nuova vita di musicisti.”

Veniamo dunque al vostro ultimo album, “Fuori dall’Hype”: come nasce questo lavoro e che cosa rappresenta per voi ?

“Nasce tra una data e un ritorno a casa in furgone, nel senso che è nato on the road, mentre eravamo in giro per fare concerti. Abbiamo pensato molto al nome dell’album, e penso che ne abbiamo trovato uno davvero appropiato per noi. Volevamo dargli un titolo che ci permettesse di collocarci fuori da un certo modo di intendere la musica, che è appunto quello dell’Hype, nel senso che il percorso di carriera che vogliamo per noi stessi non è qualcosa che finisce senza nemmeno aver avuto il tempo di cominciare: vogliamo qualcosa che sia più graduale, proprio come ti ho accennato prima. Non vogliamo essere una one hit wonder per intendersi.”

Avete all’attivo 20 milioni di streaming e oltre 7 milioni di visualizzazioni su Youtube, e “Fuori dall’Hype” ha già superato il milione di ascolti su Spotify: quanto ha influito sul vostro successo la possibilità di fruire attraverso queste piattaforme della musica ?

“Tanto, tantissimo, come succede per quasi tutte le band di oggi! Non dimenticherei, oltre agli strumenti a cui hai accennato tu, i social media, che a mio avviso rivestono un ruolo molto importante. Se Spotify e Youtube permettono di fruire come mai prima di un prodotto finito, che è appunto la canzone, i social media, indipendentemente da quali essi siano, permettono di dare visibilità e fare luce su tutto quello che è il processo che porta alla scrittura di una canzone piuttosto che di un album: dalla sala prove alle ore di registrazione in studio, passando per altri grandi piccoli aneddoti legati alle fasi pre pubblicazione, si ha modo di costrutire una narrazione, di raccontare la storia che sta dietro un particolare processo creativo. Tutto questo, ha la forza di far avvicinare, e magari appassionare, le persone al tuo lavoro: ci piace l’idea di dare visibilità a tutti gli sforzi che sottendono ai nostri lavori.”

Quali saranno, dopo la fine del tour, i vostri progetti ?

“Sicuramente ci riposeremo molto. Personalmente mi dedicherò molto alla mia famiglia e al mio cane, e magari nel tempo libero perché no, cominciare a lavorare al prossimo album.”

 

PERTH & SACHA TELLINI




Cadere dalla bici

Sono caduta con la bici (ormai qualche anno fa)

Non mi sono fatta niente.

Stavo cercando di superare il traffico salendo sul marciapiede.

Non ce l’ho fatta.

Sono scivolata lunga sull’asfalto.

Uno scooter mi ha raggiunta per aiutarmi e il pullman di turisti che stavo cercando di superare ha aperto le porte per vedere come stessi.

Mi sono rialzata immediatamente.
Addirittura una turista dal pullman panoramico mi ha guardata applaudendo e ha detto “quanto è bella, brava”
(mistero).

Lo scooterista, accerttato che mi fossi rialzata, voleva andare via
Ma io l’ho fermato e gli ho fatto raddrizzare la bici che si era un po’ storta.

Poi voleva ancora andare

E io gli ho detto:
“no stai fermo qui che io faccio un giro in bici per vedere se è tutto a posto”.

Era tutto a posto.

Ad un certo punto, probabilmente vedendo che ero molto tranquilla e lucida, lo scooterista mi ha detto:

“meno male che non passava nessuno, se no sai che brutta figura?”

E io:

“brutta figura?!
Ma io sono in mito: sono caduta e non mi sono fatta niente.
Quale brutta figura?”

L’ho ringraziato per l’aiuto e sono andata via.

———————
Cosa ho imparato – morale circolare.

– Se metti in conto di poter cadere, alzarti è molto più facile
(ovviamente è simbolico e vale solo se non ti fratturi)

– Se sai di avere bisogno di aiuto, devi sapere esattamente di cosa hai bisogno perché è probabile che trovi gente disposta ad aiutarti ma che non sappia cosa fare.

– se una caduta agli altri può sembrare vergognosa, fregatene perché in realtà tu che ti rialzi sei un mito.

– se non sai salire sui marciapiedi, è possibile che tu cada

– ricomincia dalla prima




Il perdono di Giuda

Quando Giuda contò i suoi trenta denari e capì che né quelli né mille volte quelli potevano comprare quello che cercava, si sentì perso.

Giuda aveva fatto il più grande sbaglio della sua vita,

aveva preso tutto quello per cui aveva vissuto e lo aveva venduto 

e quel che era peggio, era che in mano si trovava delle monete senza valore,

delle monete che non erano buone neppure per essere donate ai poveri perché erano macchiate dell’errore.

Agli occhi di Giuda e di chi lo giudicava, nulla di quello che aveva fatto, era buono o poteva diventarlo.

Giuda aveva fatto una azione per distinguersi e si è trovato con nulla in mano e una infinità di sensi di colpa.

A me Giuda fa pena.

Giuda siamo noi quando sbagliamo,

quando facciamo gli errori grandi,

quelli veramente grandi.

Giuda siamo noi quando facciamo del male e compiamo una di quelle azioni che cambiano tutto, 

una di quelle azioni dopo le quali nulla sarà più come prima.

Giuda siamo noi quando quella azione è una azione che fa del male.

Giuda siamo noi quando agiamo male.

Giuda però, DOVEVA farlo.

A pensarci bene, senza Giuda gli uomini non avrebbero trovato salvezza.

Se Giuda non avesse tradito, Gesù non sarebbe diventato Cristo.

Il tradimento di Giuda era una tappa obbligatoria per la salvezza del mondo.

E allora dov’è il peccato di Giuda?

Il peccato di Giuda è sempre lo stesso.

L’unico e solo peccato riconosciuto ufficialmente come tale dal Concilio Vaticano II ad oggi (giuro: l’unico).

Il peccato di Giuda è stato non accettare l’amore di Dio, 

non accettare il perdono di Dio.

Giuda è stato talmente tanto male da non credere di meritare il perdono,

perché l’aveva fatta davvero grossa,

perché tutti ce l’avevano con lui,

perché lui stesso, per primo, si vergognava.

Si vergognava talmente tanto da non riuscire a pentirsi 

e, così, non riuscendo a perdonarsi, si è condannato.

Dio, da contratto, lo avrebbe perdonato ma lui non ha perdonato sé stesso.

E fu così che Giuda si allontanò, scelse un albero e si impiccò

e morì strozzato dai suoi sensi di colpa.

————————————————————————————————

Noi lo facciamo di continuo.

Sbagliamo,

non ci perdoniamo,

e facciamo una serie sistematica di piccoli gesti che, negli anni, ci portano alla morte.

Pensiamo di non meritare amore e scegliamo persone che non ci amano,

pensiamo di non meritare dignità e intraprendiamo strade che ci mortificano,

pensiamo di non meritare successo e intraprendiamo strade che ci portano al baratro.

Lo vediamo ogni giorno nelle persone che soffrono senza perdonarsi,

in chi ha scelto di vivere per strada perché fugge da una sua vecchia vita,

in chi non vuole chiarire un malinteso perché non crede di meritare perdono.

I primi che devono perdonare i propri errori siamo noi stessi,

Giuda non doveva morire.




ANCODIS: alla ricerca del vicepreside perduto…

Dopo un’intesa raffica di articoli nostri e di comunicati stampa di Ancodis, una luce si accende in fondo al tunnel: si terrà a Palermo il primo convegno nazionale in cui si parlerà di middle management nella scuola italiana.

Un argomento importante e chiave per il funzionamento della scuola italiana, purtroppo troppo sottovalutato.

Noi di Betapress siamo convinti che non è più possibile far finta di niente, e che le istituzioni non possono nascondere la testa sotto la sabbia in attesa che “passi la bufera”.

I collaboratori dei DS sono a tutti gli effetti una categoria che è assolutamente equiparabile per lavoro e per responsabilità ad un quadro intermedio, non è più possibile far finta di niente.

Speriamo che questo convegno che per la prima volta vede raggruppate molte delle organizzazioni coinvolte nella vexata quaestio, porti una sensibilizzazione di tutti che ottenga almeno il risultato di dare significato all’argomento presso il governo.

 

 

A.N.Co.Di.S. (Associazione Nazionale Collaboratori Dirigenti Scolastici) organizza Venerdi 24 maggio 2019 un convegno nazionale con tema “Il middle management nella scuola italiana a 20 anni dall’istituzione dell’autonomia scolastica: innovazione culturale o utopia di sistema?”

Lo scorso 10 marzo i Collaboratori di Ancodis hanno voluto ricordare i 20 anni dell’istituzione dell’autonomia scolastica (8 marzo 1999) con la proposta di uno spazio unitario di riflessione sull’autonomia (che ritengono di fatto essere una perfetta incompiuta!) e sul ruolo dei Collaboratori del DS nell’attività gestionale, organizzativa e didattica in ciascuna scuola (oggi di fatto contrattualmente inesistenti).

Il Convegno, dunque, sarà l’occasione per chiedersi se il riconoscimento dei “quadri intermedi” – che ai sensi dell’art. 25 comma 5 del D. Lvo 165/2001 e dell’art. 1 comma 83 della Legge 107/2015 operano nella visione dell’autonoma Istituzione scolastica al fianco dei DS, dei docenti, dei DGSA e del personale non docente – possa considerarsi una necessaria innovazione contrattuale o rimanere un’utopia nel sistema scolastico italiano.

Sarà un momento di confronto unitario per capire se è arrivato il tempo per sostenere nelle sedi proprie quelle azioni giuridiche e contrattuali finalizzate all’istituzione delle figure quadro nella scuola italiana attraverso la determinazione di procedure di accesso, di selezione, di carriera, di formazione.

I Collaboratori dei DS ritengono che il tema non possa più essere condizionato da posizioni ideologiche arcaiche che hanno discriminato il lavoro di alto profilo che essi quotidianamente espletano in favore delle Istituzioni scolastiche in ruoli, mansioni e tempi diversi.

Abbiamo, dunque, chiesto alle Associazioni dei DS (ANP, ANDIS, DISAL, UDIR, DIRIGENTISCUOLA), dei DSGA (ANQUAP), degli EE.LL. (Anci Sicilia piccoli comuni), alle OO.SS dei DS (CISL, CGIL, UIL), al MIUR di presentare le loro posizioni e di avanzare proposte costruttive su un tema che i Collaboratori dei DS ritengono sostanziale per le moderne Istituzioni Scolastiche.

Il coinvolgimento dell’ANCI Sicilia piccoli comuni è stato richiesto poiché è nelle piccole realtà locali che le relazioni istituzionali in prima istanza vengono tenute dai Collaboratori Fiduciari di plesso che quotidianamente si adoperano in tutti i modi per consentire all’Istituzione scolastica di espletare al meglio il proprio servizio per alunni e famiglie.

Siamo grati a tutti i partecipanti per la sensibilità manifestata e confidiamo sinceramente che il confronto possa far scaturire proposte innovative e sostenibili a partire dal prossimo rinnovo del CCNL, far emergere posizioni unitarie con l’unico obiettivo di garantire la qualità del funzionamento delle moderne autonome Istituzioni scolastiche e la loro offerta formativa.

Il convegno si terrà a Palermo presso l’Aula Magna dell’IC A. UGO dalle ore 8,00 alle ore 14,00.

Le informazioni si possono ricevere scrivendo ad ancodis1@gmail.com entro e non oltre MARTEDI 21 maggio 2019.

 

Il Presidente A.N.Co.Di.S. Palermo

Prof. Rosolino Cicero    

 

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https://betapress.it/index.php/2017/07/21/a-n-co-di-s-lotta-estrema-contro-le-ingiustizie/

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La tensione al miglioramento

Cosa hai fatto per diventare migliore? Post edificante e piccola indagine estiva

“Mia cara, ma tu chi frequenti per ora?”

Questa era la domanda (nella versione molto edulcorata) che mi faceva un tempo il mio amico quando veniva a cena a casa mia e io gli preparavo cibo che veniva sempre di colore nero.

Da quelle cene ad oggi sono passate diverse passeggiate al freddo in motorino, diversi chilometri, diverse città, tantissimi traslochi, missioni impossibili e competizioni, qualche articolo che raccontava di noi e pochi, pochissimi cambi di partner.

Possiamo proprio dire che da quelle cene ad oggi abbiamo messo la testa a posto.

Tanto che adesso la domanda è diventata:

“Mia cara, e tu cosa hai fatto in questi giorni per diventare migliore?”

Nel giro di poche settimane, dopo aver passato tanto tempo a riflettere e capire,

– Ho iniziato ad agire prima di pensare troppo.
– Mi sono stancata di avere paura e di essere diffidente.
– Ho deciso che sono più forte delle debolezze altrui e perfettamente in grado di affrontarle sempre e comunque
– Ho scelto di rispettare le scelte altrui e di appoggiarle, se per loro sono bellissime.

In poche parole, ho deciso di fare il salto in fretta e senza pensarci e di non avere più paura.


E così, di fronte questa domanda mi sono chiesta?
E le persone cosa fanno per diventare migliori?

Tu che fai per diventare migliore?

Il fatto è che in questo momento sono dell’idea (o nell’età, chissà?) che non ci sia più molto tempo per i cambiamenti graduali ma esiste l’urgenza di diventare migliori nel più breve tempo possibile.

Prendendo tutto quello che si è imparato nel corso della vita e portandolo a frutto subito.

Tu che fai per diventare migliore?

Non mi interessa farmi i fatti di chi vorrà rispondermi ma mi interessa capire se c’è in giro una spinta, una urgenza al miglioramento.

– Niente discorsi generici
– Niente deprecatio temporis acti (se non sai cos’è te lo cerchi e migliori te stesso)
– Niente vista sugli altri
– Niente progetti

Solo analisi semplice, diretta e onesta.




L’isola che non c’è e la maledizione di Kronos

LA SICILIA SENZA FUTURO

“Si narra che il più giovane dei Titani, Kronos dio del tempo, invidioso che gli abitanti della Sicilia vivessero in una terra così bella scagliò contro gli isolani una maledizione privandoli del futuro e condannandoli a vivere in un’eterno presente”. Questo è quello che si racconta.

 Sembrerebbe una di quelle affascinanti storie legate alla mitologia greca se non fosse per il fatto che è completamente inventata, non ci è stata tramandato infatti nessun racconto riguardo l’invidia di Kronos per i siciliani, da nessuna parte si parla di questa maledizione è tutto inventato di sana pianta per puro diletto, ma mi piace pensare che sarebbe potuto essere.

 Fatto sta però che, dei e incantesimi a parte, il futuro ai siciliani manca davvero ed è quello della loro lingua, o dialetto che dir si voglia, se ci si riflette un attimo, ci si accorge infatti che se un siciliano deve declinare un verbo al futuro gli è impossibile perché nella lingua siciliana non esiste il tempo del futuro.

 Un esempio? Se bisogna dire “domani andrò a mare” in siciliano diventerà “devo andare” o “domani vado” e quindi “dumani vaiu a mari”, se devo dire “domani verrò” dirò domani vengo “dumani vegnu” in questo modo il verbo è sempre al presente preceduto da un avverbio che invece indica il tempo.

 In una ormai famosa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia alla giornalista francese Marcelle Padovani e divenuta un libro dal titolo “La Sicilia come metafora” il grande intellettuale diceva con amarezza: “ E come volete non essere pessimista in una terra dove non esiste il tempo futuro?” ed il  futuro a cui si riferiva Sciascia era in questo caso proprio quello della “lingua” siciliana.

È questa una singolarità del siciliano parlato, un’anomalia che da sempre ha affascinato linguisti ed intellettuali sembra insomma che la parola futuro noi siciliani non riusciamo neanche a pronunciarla.

È come se fossimo  prigionieri  di un sortilegio che ci fa vivere in un’eterno presente, in una dimensione temporale che non contempla altro che l’oggi.

Come spiegare tutto ciò?

 Il filosofo Manlio Sgalambro asserisce che ogni isolano non avrebbe voluto nascere, l’essenza della Sicilia è spiegata per lui con la volontà di sparire. Ma congetture filosofiche a parte è veramente così?

 È innegabile che questo lembo di terra posto quasi al centro del Mediterraneo, tra Oriente ed Occidente, questa testa di ponte tra l’Africa e l’Europa partecipi in maniera rilevante alla bellezza paesaggistica e monumentale di questa parte di pianeta.

 È stato scritto che “il bello è lo splendore del vero” e basta guardarsi in giro dove tutto ciò viene espresso nella magnificenza dei monumenti barocchi, nella fantasia e nell’abbondanza dell’arte culinaria, in un paesaggio mai scontato che passa da una montagna che sputa fuoco da millenni a dorate distese di grano, da foreste rigogliose a spiagge dove il mare ha i colori di un sogno.

 Ma dietro questa immagine di una bellezza patinata e le parole suadenti da ufficio promozione del turismo traspare nei fatti e nella storia comunque  un malessere che fa dei siciliani personaggi tendenti quasi all’autodistruzione, un caso patologico di quelli da manuale.

L’intera Sicilia è una dimensione fantastica in cui è impossibile viverci senza immaginazione diceva ancora una volta Sciascia che di questa terra e dei suoi abitanti è stato un mentore arguto ed appassionato.

Già come si fa a viverci?

Lo sanno bene le civiltà che si sono succedute nei secoli che qui vivevano ed anche bene che però al futuro pensavano eccome, lasciando testimonianze che rappresentano il meglio di quanto fossero capaci, monumenti che sembrano sfidare l’eternità.

Civiltà e culture esterne hanno prodotto in quest’isola quello che neanche nei loro luoghi di provenienza hanno potuto osare immaginare, quasi fosse un’obbligo nei confronti di  una terra di conquista ma dalla quale sono stati inesorabilmente ammaliati e conquistati.

 Ma allora per pensare al futuro, per uscire fuori da questo loop temporale bisogna non nascere in Sicilia?

È questo l’unico modo per annullare la “maledizione” che non ci fa vedere oltre il presente?

La diffidenza verso quello che sarà o potrebbe essere è forse banalmente la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce e che potrebbe divenire peggio di quello a cui ci si è già abituati.

Avvezzi a spaccare i capelli in quattro” faceva dire Tomasi di Lampedusa a  Don Fabrizio nel  Gattopardo parlando del rapporto tra i siciliani e i governanti di  turno “Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa , siamo fatti così”.

Ma il futuro non ci è stato negato da un Titano invidioso ma da qualcuno potente anch’egli, una serie di qualcuno meglio dire, che ha deciso con lucidità e cinismo che se si risolvono i problemi e le esigenze di un popolo quello stesso popolo non sarà più ricattabile ed allora conviene tenerlo perennemente sotto scacco ad ogno costo, il do ut des qui è diventata legge.

Il problema è non fare diventare legge la rassegnazione.

Prendo in prestito ancora una volta le parole del principe di Salina al piemontese Chevalley che invitava il principe a diventare senatore per contribuire a sanare quelle che già allora erano le tante piaghe, i tanti desideri da esaudire: “ I siciliani credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria” rispondeva Don Fabrizio. Un’analisi impietosa del carattere di un popolo ma troppo letteraria, non perfettamente corrispondente alla realtà che in questo caso è sempre molto più complessa di un romanzo se pure un capolavoro.

Lo sforzo dovrebbe a mio avviso essere quello di uscire fuori dalla cornice di un ritratto che in parte ci appartiene pure ma che non è detto sia quello definitivo. L’atteggiamento di diffidenza nei confronti della vita spesso ce lo si legge in faccia come se si fosse usciti fuori da un quadro di Antonello da Messina, da uno dei suoi celebri ritratti, ma quelli sono capolavori noi molto più semplicemente gente di passaggio.

Si parla sempre di riscatto dei siciliani come se fossimo nati col peccato originale di esserlo. Quelli che continuamente vengono chiamati i mali della Sicilia e che a tutti sono ben noti sono gli stessi che ci tengono prigionieri di un cliché ormai parte di un immaginario planetario duro a morire.

La parola d’ordine per chi finisce gli studi è andare via, qui non c’è nulla, nessuna prospettiva, nessuna speranza lavorativa e già da tempo l’Italia stessa è diventata stretta per chi vuole crearsi un’avvenire.

Crisi economiche, bolle finanziarie, banche che falliscono, corruzione….che se mettono in ginocchio una nazione, un’intero continenete figurarsi cosa possono provocare ad una  regione a rischio fallimento.

Cosa fare? Ah saperlo!

Per chi ha una fede ed è credente pregare, per gli altri lo stesso non si può mai sapere, vuoi vedere che…

Più seriamente penso si potrebbe  ricominciare e partire da una parola, una semplice parola dal significato bellissimo: “etica”. L’applicazione della morale nella vita di tutti i giorni, quella propensione a fare il bene senza essere dei santi, a preoccuparsi per gli altri senza essere madre Teresa di Calcutta, fare quello che si deve fare e magari farlo pure bene ed in ultimo ritornare ad indignarsi cosa alla quale sembriamo ormai anestetizzati.

Tutto ciò non è la soluzione a tutto ma potrebbe diventare l’inizio di un cambiamento, perché no?

Ed allora come nei versi di una famosa canzone degli anni 80: ”Seconda stella a destra…e poi dritto fino al mattino” alla ricerca di un’isola senza santi ne eroi,  senza ladri e guerre…insomma l’isola che non c’è!

Siamo la città più europea dell’Africa come dice qualcuno parlando di Palermo, già la Sicilia è la Svizzera africana che messa così non è poi tanto male, in questo caso basta sapersi accontentare.

 

Sandro Mammina




1937 1945: Buchenwald e la memoria.

Era l’11 aprile 1945 quando gli americani arrivarono nel campo di concentramento di Buchenwald.

Parecchi non sanno la storia di questa funesta distesa e dei drammi che si consumarono al suo interno, tra l’impassibilità di coloro che pur capendo si stringevano in un dedito silenzio.

Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio del 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.

Era il 16 luglio del 1937 quando un commando di circa 300 deportati, elevò, con attrezzi arcaici e limitati, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Goethe».

(Le SS lasciarono in piedi L’albero di Goethe sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Questo campo, eretto da mezzi primitivi, giunse a contenere un numero pari a 238.980 anime, esso fu uno tra i lager dove si eseguì principalmente lo sterminio tramite il lavoro.

Alcune fonti rimandano ad un numero complessivo di 43.045 vittime, secondo altre fonti furono invece 56.554 secondo altre, tra essi 11.000 erano ebrei. Poco importa oggi trovare l’esatta cifra da inserire negli annuali più tristi della storia, il massacro andava fermato non conteggiato.

Il campo fu dapprima istituito come luogo di prigione cautelativa e di punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi.  

Se nel luglio del 1937 al suo interno si contavano 149 persone, alla fine di quello stesso anno il numero crebbe in modo sproporzionato fino a raggiungere 2.651 vite limitate tra i fili spinati di quel campo. Per le cifre che doveva contenere non poteva che essere eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti.  

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali”, e ai testimoni di Geova, si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la Notte dei cristalli, Kristallnacht, altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale», e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Al momento della liberazione il 95% degli internati non erano tedeschi.

Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano, e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo. Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo.

Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti.

Era l’11 aprile del 1945 quando il campo veniva liberato al suo interno si contarono 16.000 internati, 4.000 erano ebrei e circa 1000 bambini.

Molte cifre numeriche sono state inserite in questo articolo e non è un caso, il mio intento era quello di dare attraverso quelle cifre un’idea dell’orrore che quotidianamente ed inarrestabilmente in quegli anni avveniva. 

L’olocausto è una delle pagine dell’Umanità da cui ma si deve togliere il segnalibro della memoria.