Igor Sibaldi: i libri per i contenuti e gli eventi per la magia

Lui è Igor Sibaldi ed incuriosisce e interessa molte persone appassionate di filosofia e psicologia (nel suo senso originario di argomentazione sull’anima).

È un autore molto generoso: chi cercherà la sua bibliografia vedrà come questa appaia vasta e apparentemente variegata.

Ogni tanto partecipo a un suo evento e leggo qualche suo libro.

Leggo i suoi libri perché mi piace curiosare tra le sue teorie e le sue prospettive.

Partecipo agli eventi con lui perché mi piace quello che mi accade quando vado.

Quando viaggio per raggiungere la città di un suo evento mi capitano sempre cose affascinanti: conosco qualcuno di interessante, rivedo amici o ne incontro di nuovi.

In definitiva potrei dire che leggo i libri di Sibaldi per i contenuti e partecipo agli eventi per la magia.

Quando partecipo agli eventi, ne approfitto per fargli qualche domanda; lui è sempre molto gentile e mi dedica del tempo nonostante la stanchezza; apprezzo la sua disponibilità.

Ecco cosa ho portato a casa dall’ultimo incontro durante il quale ha parlato di desideri.

Come si distinguono i desideri dai buoni propositi?

I desideri sono irrazionali, i buoni propositi possono essere costruiti dalla ragione. I desideri sono sempre una cosa di sensazione e di emozione.

Dedicarsi alla stesura e alla coltivazione dei desideri richiede anche disciplina: disciplina nello scriverli e nel leggere quotidianamente il proprio quaderno per esempio; di contro però uno dei tuoi temi preferiti è la disobbedienza.

Qual è la tua opinione sulla disciplina e a cosa serve?

Ammettiamo in questo momento che parliamo di disciplina nel senso di abituare sé stessi a fare una serie di cose nel tempo.

Intesa così sarebbe una sorta di addestramento… e io non la sento molto mia questa cosa.

Tutto quello che è ripetitivo – e la disciplina per forza di cose è ripetitiva – io la sento come insopportabile.

Intendo qualsiasi cosa ripetitiva come un girare in tondo invece di camminare e andare avanti.

In più, la disciplina intesa in questo senso, genera facilmente la nascita dell’Abitudine e, siccome è facile portare avanti le abitudini, io in linea di principio me ne tengo alla larga.

In generale, penso che la cosa più interessante sia avere la capacità di mollare tutto in qualsiasi istante, anche tutto quello che si è scoperto fino a questo punto.

Se ad un certo punto ti accorgi che tutto quello he hai scoperto fino ad adesso non funziona, molla tutto e fila via.

La disciplina invece in qualche modo vuol dire che tu hai deciso che quello che hai fatto fino ad adesso vale tanto da portarti al punto di abbonarti a determinati rituali quotidiani.

Nel corso della mia vita, quando ho seguito la disciplina ho sentito un senso di infelicità incredibile.

Mentre cercavo di portare avanti la mia intenzione, pensavo: “questo servirà” ma poi ho realizzato tra me e me: “se fa diventare così infelici a cosa serve?”

E allora ho smesso e quando ho smesso sono stato tutto a un tratto molto bene.

Piuttosto che la disciplina, io penso che sia molto utile la Procedura, intesa come preparazione ad una azione.

Per esempio, per fare un quadro, prima si preparano la tela, i pennelli, i colori… quindi si da inizio al processo creativo, altrimenti non viene bene.

La Procedura è utile: per fare una composizione, prima si compone la melodia e poi si fa l’orchestrazione.

La Procedura è un rapporto con la realtà e vuol dire avere un modo di andare avanti.

Capita che il gesto creativo della scrittura mostri all’autore degli aspetti molto più profondi di quanto in realtà non si aspettava, a te capita questo e, se sì, in che forma?

Mi capita ed è un sollievo quando capita.

Quando faccio una conferenza e capisco tutto quello che sto dicendo è una noia mortale e penso: “com’è andata male oggi che ho detto solo cose che sapevo già!”.

Quando scrivo qualcosa facendo un programma e annuncio: “in questo articolo parlerò di questo, questo e quest’altro” e obbedisco al programma, la sensazione che provo è di sconfitta.

La cosa bella per me è quando nello scrivere e nel parlare metto in moto qualcosa che mi meraviglia.

Di regola nelle mie conferenze preparo il 20% dei contenuti e il restante 80% viene da sé sul momento.

Il 20% noto è distribuito qua e là all’interno della mia esposizione e così, se ad un certo punto non so cosa dire mi appiglio a quello… ma capita di rado.

A dirla tutta, di solito il 20% neanche lo dico tutto…

Quando parlo non c’è un copione; in questo non sono un attore, sono più che altro un comico.

In che senso non sei un attore ma un comico?

L’attore deve sentirsi come un ferroviere alla guida di un treno: ha una rotaia davanti e deve portare il treno a quella velocità e su quella strada indicata dal regista.

E io non sono un attore; se mi trovo alla guida di un treno, se procedo e quello he mi aspetta è sempre uguale, io non sono io.

A volte mi capita ma rarissimamente; per lo più di volta in volta cambio tutta l’impostazione infatti se qualcuno del pubblico leggesse gli appunti delle mie conferenze, non riconoscerebbe ciò che ha ascoltato.

Questo capita anche sui libri

Quando rileggo i miei libri, poi capita che telefono all’editore e gli dico che lo rifacciamo da capo perché non va bene.

I miei libri hanno infatti diverse edizioni e diverse differenze tra loro.

Alcuni libri pubblicati di recente, per adesso sono rimasti uguali ma sarà così finché non li rileggerò.

Nel libro delle Epoche hai scritto che l’occidente è bloccato da un vuoto di futuro, è per questo che in questo momento l’arte è ferma?

Non solo l’arte, anche la filosofia perché è spaventata da una specie di tradimento.

All’inizio del ‘900 Tecnologia e Arte erano testa a testa: la cultura umanistica e l’arte producevano tante cose belle e interessanti. Ad un certo punto la tecnologia è partita in quarta e ha seminato la vecchia compagna.

Quando la tecnologia è arrivata alla costruzione della bomba atomica qualcosa è successo: la tecnologia ha surclassato troppo la cultura umanistica che è rimasta scioccata ed ha cominciato a fermarsi.

Ma perché la Cultura non ha reagito?

Immagina due compagni di classe che procedono più o meno testa a testa per tutto il periodo scolastico.

Una volta cresciuti, uno dei due si sposa con una americana, va in America,crea una azienda e diventa ricchissimo, poi fonda un’altra azienda ancora e poi viene eletto senatore.

L’altro amico intanto è rimasto in Italia nel negozio del papà e non riesce a competere più quasi neppure con sé stesso.

Non è che cresce per conto suo è come se fosse rimasto sconfitto e cresce meno perché il vecchio compagno lo ha surclassato.

La persona surclassata non la prende come una spinta per crescere di più ma abbandona.

E questo è quello che è successo tra la Scienza e l’Arte.

Vedi come la filosofia è diventata quasi totalmente storia della filosofia.

In età moderna ci sono rimasti ancora alcuni filosofi ma erano persone nate prima della guerra.

Finita quella generazione su questo versante non c’è più niente: l’arte sicuramente rimane indietro e si lamenta dicendo che c’è in giro tanta tecnologia e tanta tecnica ma mica è colpa di queste.

È come se ci fosse un diffuso sentimento di spavento che rientra nella sindrome della paura del futuro.

Una specie di intelligentia di struzzi che tengono la testa sotto la sabbia e stanno lì aspettando chissà che cosa.

… strano animale lo struzzo non trovi?

… Io con gli struzzi non ho mai avuto a che far personalmente però, descritti così, strani lo sembrano per davvero…

 

Riferimenti

Ecco alcuni riferimenti utili per partecipare a un incontro con Igor Sibaldi o acquistare un suo libro

? Eventi: fai clic  o anche qui I Maestri Invisibili

? Libri: fai clic

? Video: fai clic

 




La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

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Storia clicca qui




Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora

(…) Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora, per andarmene un po’ a piedi sulla strada maestra che attraversa il nostro villaggio, avvolto nella mia dorata solitudine, allo scopo di capire perchè devo morire.(…)

“Pilota di guerra”- Antoine de Saint-Exupéry

Anna ha soltanto otto anni ed è una bambina molto bella, il suo corpo è esile, il viso ha lineamenti delicati, i capelli neri sono raccolti in lunghe trecce.

Quella mattina di primavera Anna non sta giocando con le amiche, i suoi genitori non hanno voluto che si allontanasse da casa, eppure sembrava una domenica come tante altre.

Nell’atteggiamento degli adulti traspare tuttavia un pò di nervosismo, parlano con tono grave e preoccupato, talvolta alzano lo sguardo al cielo voltandosi in direzione di Palermo, dalle colline la città appare nel suo lungo dispiegarsi di abitazioni fino al mare.

Improvvisamente tutto cambia: dapprima il prolungato avvertimento delle sirene antiaeree, seguito dal rumore assordante dell’incursione aerea e immediatamente dopo da quello terribile delle bombe, innumerevoli bombe, per un tempo che sembra non finire mai. Scappano tutti disordinatamente, si barricano impauriti dentro casa, le donne pregano sommessamente mentre gli uomini lo fanno in silenzio. 

Anna trema, abbracciata alla mamma tiene gli occhi chiusi, si tappa le orecchie con le mani nel tentativo di non sentire quello che accade fuori ma le esplosioni delle bombe, seppur distanti, fanno ugualmente paura. 

E’ il mese di maggio del 1943 e le truppe alleate stanno decidendo le sorti della Seconda guerra mondiale: sbarcate in Africa hanno postazioni in Marocco e in Algeria, per cui la Sicilia ed il porto di Palermo assumono un’importanza primaria ai fini strategici. 

Al comando della VII Armata vi è il generale George Smith Patton, figura fondamentale nella campagna di Sicilia che decide di sferrare sulla città l’attacco aereo finale, dopo quelli devastanti cominciati a febbraio e proseguiti in maniera sistematica fino ad aprile. 

Tra le tante sarà ricordata a lungo l’incursione aerea del 22 marzo quando alle 15,35 i bombardieri americani attaccarono il porto, fu l’ultima incursione di quel mese ma per le devastazioni subite rimase a lungo nella memoria di chi vi assistette: l’attacco vide impiegati nella missione 24 bombardieri di stanza in Algeria carichi di bombe da 500 libbre, ovvero 227 Kg di tritolo. Tutto ciò che era presente in quella zona per un’area di 13 ettari fu distrutto, dalle navi ai magazzini. La nave Volta, ovvero la santabarbara, era carica di munizioni ed esplose provocando una colonna di fumo alta 4.500 metri. Il fuso di una delle sue ancore verrà proiettato ad 800 metri di distanza finendo nel luogo dove si trova,oggi come allora, la Banca d’Italia. L’acqua sollevata dall’esplosione allagherà anche un rifugio antiaereo sito sul molo per i 24 operai portuali, che proprio li avevano sperato di trovare protezione, non vi sarà scampo.

Toccherà la stessa sorte anche agli sventurati che il 17 del mese di aprile durante l’ennesima incursione dal cielo avevano cercato scampo nel riparo aereo dietro la Cattedrale, a piazza Sett’Angeli: una delle bombe infatti riesce a penetrare nel rifugio uccidendo tutti coloro che vi si trovavano, in gran parte donne e bambini. Il numero ufficiale delle vittime di quel giorno è di trenta persone e data la difficoltà di recupero dei corpi ben presto tutto verrà ricoperto da un manto di cemento che fa ancora oggi fa sudario.

E se i numeri spesso aiutano a focalizzare meglio un concetto si pensi che nel solo mese di aprile verranno sganciate su Palermo ben 484 tonnellate di bombe.

A maggio si cambia drammaticamente strategia, l’operazione militare pianificata per quel mese è diversa dalle precedenti sia per dinamica sia per potenza, si decide infatti di sferrare sulla città un “bombardamento di saturazione” conosciuto meglio come “bombardamento a tappeto”.

 Questa micidiale tecnica doveva avere tra l’altro lo scopo non solo di terrorizzare la popolazione, creare panico e distruzione totale, ma di fiaccare il morale dei civili colpendoli anche nei luoghi simbolo della propria identità culturale e religiosa quali i monumenti e le chiese. In ultimo si sperava così di spingere la popolazione a  ribellarsi e fare pressione sul governo per la resa; il capoluogo siciliano ha questo triste primato, fu proprio Palermo la  prima città in Italia a sperimentare tutto questo.

È la mattina del 9 maggio e il comando americano decide che Palermo deve cadere: l’Apocalisse può avere inizio. 

Quella giornata Radio Londra aveva invitato la popolazione a disertare una cerimonia pubblica che era stata organizzata dalle autorità nell’attuale piazza Bologni, all’epoca piazza Italo Balbo. Si trattava di una ricorrenza particolare che non era di certo sfuggita agli americani, e cioè la “Giornata  dell’Esercito e dell’Impero”,  la scelta del 9 maggio per l’incursione aerea quindi non è certamente casuale, inoltre lo stesso giorno si sarebbe consegnata alla città una medaglia al valore di città mutilata dai bombardamenti.

L’attacco aereo arriva dall’Algeria da dove partono i caccia bimotore P38 a bassissima quota così da eludere i radar e la contraerea nemica, evitano di passare da Capo Zafferano scegliendo invece i cieli di Termini Imerese. Si dirigono quindi sull’aeroporto militare di Boccadifalco distruggendo in breve gli aerei in sosta sulla pista impedendo di conseguenza qualsiasi tentativo di reazione e di difesa aerea, sono soltanto le 11 del mattino. 

Alle 12,35  il cielo sulla città si oscura, l’urlo cupo e lamentoso di allarme delle sirene non ha tregua, sono arrivati i bombardieri americani B17 le cosiddette “Fortezze volanti” armati di bombe da 500 libbre. La prima formazione vede 222 bombardieri scortati da 118 caccia pesanti P38, è solo la prima di ben dodici ondate di incursioni, per contrastare l’attacco ben poco può la pur temibile contraerea dell’Asse poiché i bombardieri volano troppo in alto.

Alle 13,15 l’operazione è terminata, finite le bombe vengono lanciati sulla città 15.000 volantini che invitavano i palermitani a chiedere la resa dopo che su Palermo in soli 40 minuti erano state sganciate 1.570 bombe di vario calibro per un totale di 469 tonnellate di tritolo.

La stessa notte, a partire dalle 23,00 e fino alla mezzanotte, è la volta dei bimotori Wellington della RAF che finiranno il “lavoro” con ben 74 bombe e come se non bastasse verranno sganciate anche le Blockbuster, cosiddette “spianaquartieri”, bombe HC (High capacity) ovvero due ordigni da 4000 libbre (1.814 Kg) di potenza devastante. 

Ufficialmente il triste bilancio delle vittime tra i civili di quel 9 maggio 1943  sarà di 373 morti e di 421 feriti, un numero che forse può non sembrare proporzionato rispetto alla potenza di fuoco, ma bisogna tenere conto che dall’inizio dei bombardamenti la città si era lentamente svuotata dagli abitanti che avevano trovato riparo ed alloggi provvisori nei paesi limitrofi.

Per quanto riguarda il tessuto urbano nulla è stato risparmiato: abitazioni civili, caserme ma anche chiese, palazzi nobiliari ed antichi, monumenti per non parlare dei diversi  rifugi antiaerei, colpiti e distrutti, in cui trovarono la morte circa un centinaio di palermitani, e come se non bastasse i vigili del fuoco stentano a spegnere gli incendi probabilmente per l’uso di bombe incendiarie al fosforo.

Il colpo di teatro.

Il bombardamento di quel giorno su Palermo è stato definito un “colpo di teatro”, forse più che una reale esigenza dal punto di vista tattico militare questa mossa appagava il desiderio di conquista da parte degli americani della città più importante e grande dell’isola.

L’alba del giorno dopo quel 9 maggio restituisce ai palermitani una città tremendamente devastata, il centro storico con i suoi 250 ettari di estensione è quasi irriconoscibile, macerie e morti dappertutto. Il 42,3% della città secondo fonti della Prefettura è andato distrutto, centodiciannove monumenti compromessi per non parlare delle abitazioni civili, ben 60.000 persone nel solo centro storico non hanno più una casa.

 Per avere un’idea si pensi che successivamente per sgomberare la città dalle macerie  si decise di riversarle lungo il tratto di mare che la  delimita a nord ricoprendo così un’area di oltre 40.000 metri quadrati di detriti, quel tratto di città chiamato Foro Italico è divenuto oggi luogo di passeggiate e sport all’aperto.

Il 22 luglio fanno il loro ingresso a Palermo gli americani tra ali di folla festante ed incuriosita, ma le bombe non cesseranno di funestare la città e stavolta saranno quelle della Luftwaffe e della Regia aeronautica, facendo della città il bersaglio di buona parte delle forze aeronautiche impegnate nel conflitto per un totale, dall’inizio delle ostilità, di ben settanta bombardamenti.

A guerra finita nella sola Palermo tra i civili si contavano 30.000 feriti e 2.123 morti. 

Sono questi i numeri di una tragedia dalle proporzioni bibliche che non risparmiò nessuno tra uomini e donne, vecchi e bambini, vittime senza colpa se non quella di trovarsi nel posto sbagliato quando l’Europa sembrava impazzita. 

 Anna non ha mai lasciato il posto in cui è nata, non si è mai sposata ma ha avuto una famiglia che le ha voluto bene, di cui  ha sempre fatto parte integrante ed un nipote su cui riversare, ricambiata, tutto l’affetto di cui è stata capace.

 Si svolge nei primi giorni di maggio la festa religiosa più importante di quel paese che come da tradizione si conclude a notte inoltrata con lo spettacolo dei  fuochi d’artificio.

A casa di Anna assistervi dal terrazzo era una tradizione che si ripeteva ogni anno: uno spettacolo affascinante, rumoroso e suggestivo, un susseguirsi di scoppi e di boati che generavano nel cielo notturno geometrie di luci di incredibile bellezza e più aumentava il fragore più il cielo si rischiarava con colori luminosi. Tante e continue esplosioni assordanti e  tutti con il naso in su a riempirsi gli occhi di quella meraviglia. 

Ma ad ogni festa tutti gli anni in quella terrazza mancava una persona, sempre la stessa, che invece preferiva rimanere in casa.

 Quando iniziavano a sparare i fuochi, puntualmente, Anna veniva cercata dal nipote che voleva non si perdesse lo spettacolo di luci e colori, lei a quel punto della serata era sempre dentro casa e malgrado i ripetuti inviti dolcemente diceva che  avrebbe raggiunto tutti a breve, che stava per farlo, ma non era vero e non accadeva mai.

 Anna rimaneva da sola seduta in un angolo, i capelli candidi, col fare di una bimba che se ne sta in disparte come fosse in castigo, con gli occhi chiusi e le dita affusolate delle sue mani a coprire le orecchie. 

Aspettava così che la festa dei botti e dei fuochi finisse, composta e in un certo senso rassegnata, se ne stava immobile ed in silenzio immersa nei suoi ricordi, sul volto l’accenno di un malinconico sorriso.