Separati per il bene.

Quando meno te l’aspetti, arriva un gancio dal cielo che ti rimette in piedi.

“A volte la separazione è la soluzione migliore per il bene dei figli “, queste le parole pronunciate dal Papa, due giorni fa, all’incontro con i Gesuiti in Romania.

E capisci che se l’ha detto il Papa, dall’alto della sua infallibilità, forse è proprio vero che il matrimonio non è un valore assoluto, a prescindere, costi quel che costi.

Che Papa Bergoglio avesse intrapreso un percorso d’avanguardia rispetto alla posizione anacronistica della Chiesa, lo si era capito sin da subito.

Nel febbraio del 2014 aveva raccomandato di non condannare chi ha vissuto il fallimento di un amore.

” Accompagnare, non condannare” era stato il suo monito.

Prendendo spunto dal Vangelo, aveva commentato l’atteggiamento dei dottori della legge che cercano di porre delle trappole a Gesù per “togliergli l’autorità morale”. I farisei, aveva osservato, si presentano da Gesù con il problema del divorzio. Il loro stile, è sempre lo stesso: “la casistica”, “È lecito questo o no? “Sempre il piccolo caso. E questa è la trappola: dietro la casistica, dietro il pensiero casistico, sempre c’è una trappola. Sempre! Contro la gente, contro di noi e contro Dio, sempre”

Nell’ aprile del 2016, altro passo avanti del Papa, verso i divorziati risposati. 

“Ci sono divieti che si possono superare”.

Quindi, valutando caso per caso, i divorziati, potranno ricevere la comunione e fare i padrini e i catechisti in Chiesa. Non una regola generale, però, ma un discernimento affidato ai confessori come chiesto dai vescovi che avevano partecipato al Sinodo del 2015 sulla famiglia

Questa era stata la decisione presa da Papa Francesco nella sua attesa esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia  a conclusione di un cammino di riflessione durato oltre due anni con consultazione di fedeli e di vescovi di tutto il mondo.

Ma nel testo non c’erano soltanto questioni che riguardavano i divorziati, perché Bergoglio aveva parlato anche di sesso coniugale, ribadendo la sua contrarietà alle nozze gay e sottolineando come la Chiesa dovesse fare autocritica.

In particolare sull’eccessivo peso dato al “dovere della procreazione” nel matrimonio e sull’insistenza quasi esclusiva, “per molto tempo”, su “questioni dottrinali, bioetiche e morali”, una concezione troppo “astratta”, negativa, e un “atteggiamento difensivo” nei confronti del mondo.

Per Bergoglio, poi, nei confronti di chi vive situazioni ‘irregolari’ i pastori della Chiesa non possono applicare leggi morali “come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone.

È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa”.

“Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto”.

Così, Il Papa riflettendo sulla sessualità coniugale e sul matrimonio, aveva già evidenziato come la sua “idealizzazione eccessiva” non avesse fatto sì che diventasse “desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

“In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi “

E anche San Giovanni Paolo II, aveva già ricordato il Papa, ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a una negazione del valore del sesso umano o che semplicemente lo tolleri ‘per la necessità stessa della procreazione’.

Dunque, secondo il Papa, a partire dal Sinodo sulla famiglia del 2015, c’era tutto un cammino da percorrere per concretizzare un’apertura della Chiesa verso la vera realtà coniugale.

E, Lui, questo cammino, ha continuato a farlo.

Diverse volte, Bergoglio, ha insistito sulla necessità di “riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita”

Allo stesso tempo, Papa Francesco si è più volte domandato chi si occupi “oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?”.

Ha persino espresso una profonda autocritica verso la posizione della Chiesa sul dovere della procreazione.” Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione”

A proposito della formazione e del sostegno al matrimonio, il Papa ha riconosciuto i limiti della Chiesa che non ha fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte, la Chiesa ha presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. “Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario”.

Sembra proprio che il filo conduttore di ogni esortazione papale sia sempre lo stesso: formare le coscienze, non sostituirle.

Sulla possibilità per i divorziati risposati di accostarsi ai sacramenti, Francesco ha sempre risposto in modo chiaro: “Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi.

È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento a un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi”.

“I divorziati risposati – ha sottolineato il Papa – dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno”.

Il Papa non ha voluto stabilire una norma valida per tutti perché “i divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”

Per esempio, secondo il Papa, “c’è il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi, in coscienza, che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Altra cosa invece – ha precisato – è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia”.

Dunque, a partire dalla sua esortazione AMORIS LAETITIA del 2016, Papa Francesco,  ha continuato a recepire, integralmente, le conclusioni del Sinodo del 2015, approvate dalla maggioranza dei vescovi, sulla partecipazione dei divorziati risposati a “diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate”.

Per il Papa “si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino”

Bergoglio ha sempre ribadito la condanna della Chiesa sull’aborto, l’eutanasia, la teoria del gender, la pedofilia, la violenza che purtroppo si verifica anche in famiglia molto spesso a danno delle donne, la pratica dell’utero in affitto.  Spesso, il Papa ha  ricordato la sua riforma del processo di nullità matrimoniale incoraggiando le coppie in crisi a verificare la validità della loro unione canonica.

Insomma, Papa Francesco, ha sempre avuto parole molto comprensive verso ogni persona. Persino a proposito delle unioni di fatto, ha sottolineato che esse sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto.

Situazioni che, per il Papa, “vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo”.

Dunque, due giorni fa, incontrando i Gesuiti in Romania, il Papa ha continuato un unico discorso, quello di sempre.

“Ci sono matrimoni nulli per mancanza di fede. Poi magari il matrimonio non è nullo, ma non si sviluppa bene per l’immaturità psicologica.

In alcuni casi il matrimonio è valido, ma a volte è meglio che i due si separino per il bene dei figli”.

Questo il suo messaggio che non apre un cambiamento significativo della posizione della Chiesa sul tema del divorzio, quanto mantiene un ‘apertura che dura da anni.

Il Papa ha infatti nuovamente parlato del Sinodo sulla famiglia: “Quando è incominciato il Sinodo sulla famiglia, alcuni hanno detto: ecco, il Papa convoca un Sinodo per dare la comunione ai divorziati. E continuano ancora oggi! In realtà, il Sinodo ha fatto un cammino”.

Per il Papa “sul problema matrimoniale dobbiamo uscire dalla casistica che ci inganna” e “si devono accompagnare le coppie. Ci sono esperienze molto buone. Questo è molto importante. Ma servono i tribunali diocesani. E ho chiesto che si faccia il processo breve. So che in alcune realtà i tribunali diocesani non funzionano. E ce ne sono troppo pochi. Il Signore ci aiuti!”

Ed allora, che davvero il Signore ci aiuti a liberarci dal formalismo e dal bigottismo che troppe volte hanno allontanato la Chiesa dall’amore vero, quello che il Papa ci esorta a vivere…

 

Antonella Ferrari

 

 

 

 

 




Eneide nello spirito

Dopo i lunghi viaggi e le grandi avventure, spesso iniziate al primo vagito,

dopo le digressioni e gli errores 

distraenti e devianti,

alla fine della fiera, 

il desiderio dell’eroe è quello di tornare a casa propria.

Sintomatico e notevole è 

che la caratteristica dell’eroe sia riconoscere la casa propria.

Beato chi guarda il proprio cuore e vi riconosce l’approdo.




Cantone lascia: è lutto per lo Stato.

Lo aveva detto chiaramente “gli onesti non fanno carriera nella pubblica amministrazione”, ed anche se tutti si erano chiesti come mai lui allora era arrivato lì, oggi Raffaele Cantone ha dimostrato di essere persona coerente.

Lascia la guida dell’ANAC per tornare in magistratura ” la mia vera casa” come lui stesso la definisce.

Lo Stato ha riguadagnato un bravo magistrato, ma di certo quest’abbandono non è un significato positivo, specie quando si parla di strutture che hanno un potere di controllo sull’operato della pubblica amministrazione.

Ci sono in ogni caso delle domande da porsi:

ma se c’è una legge a che serve l’autorità? ed ammesso che serva allora ha ragione Cantone nel suo discorso chiaro in cui sostiene che le attività dell’autorità non possono essere uguali ad una tavola delle leggi scritta sulla pietra, deve essere un organismo fluido e dinamico che si adatta al mutevole e veloce cambiamento di mercato.

Cosa che sicuramente non può piacere al potere politico.

Chi ha vissuto nel piccolo quello che Cantone avrà sicuramente visto nel grande non si meraviglia di quest’abbandono, più o meno giusto, di certo lineare, il potere non può essere affiancato da organismi che sono in grado di analizzare giorno per giorno ciò che accade ed intervenire, in più con un potere esecutivo per farlo.

Chi scrive ha visto uffici di ispettori chiusi dall’oggi al domani solo perché avevano esclamato “il re è nudo”.

Certo allora nessun clamore, nessuna meraviglia, anzi quasi la soddisfazione perché quegli ispettori erano troppo sceriffi e facevano troppe ispezioni…

Il caso Cantone, certamente più eclatante e di una magnitudo assolutamente più ampia, ci lascia però comunque l’amaro in bocca, nulla cambia in questo paese.

Ora si scatenerà la polemica Cantone bravo, Cantone  cattivo, governo giusto, governo ladro, opposizione colpevole opposizione innocente, Mio Dio, che assurdità, paese lobotomizzato da se stesso.

Ci vengono in mente parole sempre attuali:

Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cantone, non a lodarlo.

Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cantone.

Il nobile Governo v’ha detto che Cantone era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cantone ne ha pagato il fio.

Qui, col permesso del Governo e degli altri – ché il Governo è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cantone.

Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma il Governo dice che fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cantone? Quando i poveri hanno pianto, Cantone ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione?

Eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, il Governo è uomo d’onore.

Non parlo, no, per smentire ciò che il Governo disse, ma qui io sono per dire ciò che io so.

Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione.

Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cantone e debbo tacere sinché non ritorni a me

La nostra convinzione è che il gesto eclatante di Cantone, pur facendogli onore, a nulla serva.

In Italia, dopo un mesetto di polemica e di sciacquio dei panni, si tornerà come prima.

La riflessione profonda che si dovrebbe introdurre è legata al meccanismo con cui lo stato ricopre ruoli chiave e ne determina i comportamenti.

Non siamo in grado di dare un profilo etico o forse chi ha questo profilo “… non fa carriera nella pubblica amministrazione…” ma è ora di cambiare, e come si cambia? solo dando l’idea dello Stato, di comunità, di unità di intenti e di obiettivi.

Oggi mancano i Simboli, e se ci sono vengono usati strumentalmente (vedi i crocifissi), perché tendiamo a dare un significato alle figure individuali, siamo nel mezzo di un mondo individuale, carico di avatar inutili di noi stessi, di profili social che spesso per nulla rappresentano  la realtà dietro la maschera.

L’amore per il proprio paese si coltiva, non nasce spontaneo come un fungo, è un processo che inizia fin da piccoli, quando si incomincia a vedere la bandiera tricolore e ci viene da cantare l’inno nazionale.

Il luogo in cui nasce quest’amore è la famiglia, la scuola, ma se lo Stato opera per distruggere la famiglia e la scuola come possono questi due incubatori diffondere l’amore per il proprio carnefice?

Occorre cambiare, servono persone intelligenti che capiscano che lo stato deve amare per essere amato, non è difficile …

Incominciamo ad aiutare i genitori, i docenti, i dirigenti, il personale della scuola, facciamo in modo che ci sia lavoro, stipendi dignitosi per tutti, smettiamola di dare i soldi a chi non crea amore per lo stato, non è difficile …

Proviamo a fare uno sforzo e pensiamo a Cesare, cosa ci viene in mente? Roma, il diritto romano, la grandezza dell’Italica gente, l’onore, la forza, insomma tutti valori positivi.

Adesso pensiamo ad oggi e proviamo a pensare a qualche nome come Cesare, dunque, ecco, ci sarebbe, spetta, come si chiamava???, ma si l’ho qui sulla punta della lingua, ecco, ecco, aspetta, ummm …

 

 

 

 

 

 

Corrado Faletti

Direttore




Strafalcioni 2: la vendetta dell’ignoranza!

 

Continuano gli esami di maturità. Mentre sono finiti quelli delle medie.

In modo affettuoso, da addetta ai lavori, voglio condividere con voi, cari lettori, le ultime esilaranti invenzioni dei miei alunni, consapevole che il mea-culpa continua, ma s’impara anche ridendo insieme.

Noi di betapress.it non abbiamo avuto bisogno di fare un sondaggio nazionale.

Semplicemente ci siamo messi all’ascolto, ed abbiamo raccolto in diretta queste chicche.

Come si chiama un grafico a colonne? INSTAGRAMMA.

Hitler perseguitava i Testimoni di GENOVA.

Il popolo più MIRATO (per dire preso di mira) erano gli Ebrei e finivano in un campo di concentramento che era un CAMPO ALL’APERTO.

Come si chiamano le ossa delle dita? FALANGITI.

Facendo un tatuaggio si può INCONTRARE l’epatite C ed ASSUMERE l’A.I.D.S.

“Io mica spaccio” è un testo di…? Un testo di PAGINA 148.

Dove nasce la Mafia? Quella nigeriana nasce a CASTEL VULTURNO.

La Mafia ha il controllo della pro-pros-prost- PROSTATA.

Gli Andini, ogni tanto si mangiano una FOCA. (Al posto di una foglia di coca…ma dai, anche tu…E’ dislessico!…)

A Pablo Picasso gli è stato AFFIBIATO un incarico, quello di dipingere Guernica.

A proposito di immigrati “Tu vai sulla nave e prendi le malattie, per esempio la PESTE”.

Nel cyberbullismo c’è la VIOLENZA SULLA PRIVACY e la vittima può non dare CONSENTIMENTO.

“Chi e l’autore della Coscienza di Zeno?” -GIOVANNI PASCOLI.

 “No, dai. Italo…” – ITALO CALVINO.

” Ma no! Italo Svevo” – Vabbè, Prof, sempre Italo era…

Una parodia della famosa canzone di Vecchioni: SAN MARINO (anziché Samarcanda).

L’Istat ha guardato un FASCIO d’età.

Il testo parla di questo ragazzo QUA.

“Non si dice qua”

Il testo parla di questo ragazzo QUI “

“Ma no, non si dice neanche qui”

Il testo parla di questo ragazzo QUO.

“Novecento” è un monologo di?

-Non mi ricordo…

Dai, ti aiuto. Di Ba-Ba…

-Di BA-BATMAN.

Dopo l’Università fai il MONSTER (invece del Master!)

“In Francia, come si dice laurea?” -Licence.

“Bene, e dopo la laurea, in Italia c’è l’abilitazione, in Francia c’è la Mai, la Maitr…”

LA MAITRESSE ( anziché maitrise ).

Ma la ciliegina sulla torta arriva quando il Presidente di commissione, esasperato, dice al candidato “Prego, proceda pure…” ed il candidato, ossequioso, si alza e se ne va…

“Ma no, Presidente, abbiamo finito di ridere…”

 

Antonella Ferrari

 




Ciò in cui credo

C’è una moderna tendenza diffusa orientata a trattare male le persone.

Maestri che maltrattano gli allievi (perché non capiscono)
Venditori che maltrattano acquirenti (perché sono scemi)
Consulenti che maltrattano clienti (perché non ascoltano)
Manager che maltrattano subalterni (perché sono incapaci)

Uomini e donne schiumanti sopra un piedistallo di pelle umana che giudicano insofferenti e incompresi, che ricordano i cattivi di certi cartoni animati che si trovavano alla fine dell’episodio sconfitti e ringhianti: “sono circondato da incompetenti”.

Pare vada di moda un certo machismo arrogante che, anche se non è per niente utile a ottenere risultati positivi, per lo meno soddisfa il piccolo ego di chi lo esercita.

Poi passa, prima o poi si cresce
E si comprende che il miglior modo per ottenere risultati e ragione sono le buone maniere, la gentilezza e il confronto onesto.

Io credo in questo.




Igor Sibaldi: i libri per i contenuti e gli eventi per la magia

Lui è Igor Sibaldi ed incuriosisce e interessa molte persone appassionate di filosofia e psicologia (nel suo senso originario di argomentazione sull’anima).

È un autore molto generoso: chi cercherà la sua bibliografia vedrà come questa appaia vasta e apparentemente variegata.

Ogni tanto partecipo a un suo evento e leggo qualche suo libro.

Leggo i suoi libri perché mi piace curiosare tra le sue teorie e le sue prospettive.

Partecipo agli eventi con lui perché mi piace quello che mi accade quando vado.

Quando viaggio per raggiungere la città di un suo evento mi capitano sempre cose affascinanti: conosco qualcuno di interessante, rivedo amici o ne incontro di nuovi.

In definitiva potrei dire che leggo i libri di Sibaldi per i contenuti e partecipo agli eventi per la magia.

Quando partecipo agli eventi, ne approfitto per fargli qualche domanda; lui è sempre molto gentile e mi dedica del tempo nonostante la stanchezza; apprezzo la sua disponibilità.

Ecco cosa ho portato a casa dall’ultimo incontro durante il quale ha parlato di desideri.

Come si distinguono i desideri dai buoni propositi?

I desideri sono irrazionali, i buoni propositi possono essere costruiti dalla ragione. I desideri sono sempre una cosa di sensazione e di emozione.

Dedicarsi alla stesura e alla coltivazione dei desideri richiede anche disciplina: disciplina nello scriverli e nel leggere quotidianamente il proprio quaderno per esempio; di contro però uno dei tuoi temi preferiti è la disobbedienza.

Qual è la tua opinione sulla disciplina e a cosa serve?

Ammettiamo in questo momento che parliamo di disciplina nel senso di abituare sé stessi a fare una serie di cose nel tempo.

Intesa così sarebbe una sorta di addestramento… e io non la sento molto mia questa cosa.

Tutto quello che è ripetitivo – e la disciplina per forza di cose è ripetitiva – io la sento come insopportabile.

Intendo qualsiasi cosa ripetitiva come un girare in tondo invece di camminare e andare avanti.

In più, la disciplina intesa in questo senso, genera facilmente la nascita dell’Abitudine e, siccome è facile portare avanti le abitudini, io in linea di principio me ne tengo alla larga.

In generale, penso che la cosa più interessante sia avere la capacità di mollare tutto in qualsiasi istante, anche tutto quello che si è scoperto fino a questo punto.

Se ad un certo punto ti accorgi che tutto quello he hai scoperto fino ad adesso non funziona, molla tutto e fila via.

La disciplina invece in qualche modo vuol dire che tu hai deciso che quello che hai fatto fino ad adesso vale tanto da portarti al punto di abbonarti a determinati rituali quotidiani.

Nel corso della mia vita, quando ho seguito la disciplina ho sentito un senso di infelicità incredibile.

Mentre cercavo di portare avanti la mia intenzione, pensavo: “questo servirà” ma poi ho realizzato tra me e me: “se fa diventare così infelici a cosa serve?”

E allora ho smesso e quando ho smesso sono stato tutto a un tratto molto bene.

Piuttosto che la disciplina, io penso che sia molto utile la Procedura, intesa come preparazione ad una azione.

Per esempio, per fare un quadro, prima si preparano la tela, i pennelli, i colori… quindi si da inizio al processo creativo, altrimenti non viene bene.

La Procedura è utile: per fare una composizione, prima si compone la melodia e poi si fa l’orchestrazione.

La Procedura è un rapporto con la realtà e vuol dire avere un modo di andare avanti.

Capita che il gesto creativo della scrittura mostri all’autore degli aspetti molto più profondi di quanto in realtà non si aspettava, a te capita questo e, se sì, in che forma?

Mi capita ed è un sollievo quando capita.

Quando faccio una conferenza e capisco tutto quello che sto dicendo è una noia mortale e penso: “com’è andata male oggi che ho detto solo cose che sapevo già!”.

Quando scrivo qualcosa facendo un programma e annuncio: “in questo articolo parlerò di questo, questo e quest’altro” e obbedisco al programma, la sensazione che provo è di sconfitta.

La cosa bella per me è quando nello scrivere e nel parlare metto in moto qualcosa che mi meraviglia.

Di regola nelle mie conferenze preparo il 20% dei contenuti e il restante 80% viene da sé sul momento.

Il 20% noto è distribuito qua e là all’interno della mia esposizione e così, se ad un certo punto non so cosa dire mi appiglio a quello… ma capita di rado.

A dirla tutta, di solito il 20% neanche lo dico tutto…

Quando parlo non c’è un copione; in questo non sono un attore, sono più che altro un comico.

In che senso non sei un attore ma un comico?

L’attore deve sentirsi come un ferroviere alla guida di un treno: ha una rotaia davanti e deve portare il treno a quella velocità e su quella strada indicata dal regista.

E io non sono un attore; se mi trovo alla guida di un treno, se procedo e quello he mi aspetta è sempre uguale, io non sono io.

A volte mi capita ma rarissimamente; per lo più di volta in volta cambio tutta l’impostazione infatti se qualcuno del pubblico leggesse gli appunti delle mie conferenze, non riconoscerebbe ciò che ha ascoltato.

Questo capita anche sui libri

Quando rileggo i miei libri, poi capita che telefono all’editore e gli dico che lo rifacciamo da capo perché non va bene.

I miei libri hanno infatti diverse edizioni e diverse differenze tra loro.

Alcuni libri pubblicati di recente, per adesso sono rimasti uguali ma sarà così finché non li rileggerò.

Nel libro delle Epoche hai scritto che l’occidente è bloccato da un vuoto di futuro, è per questo che in questo momento l’arte è ferma?

Non solo l’arte, anche la filosofia perché è spaventata da una specie di tradimento.

All’inizio del ‘900 Tecnologia e Arte erano testa a testa: la cultura umanistica e l’arte producevano tante cose belle e interessanti. Ad un certo punto la tecnologia è partita in quarta e ha seminato la vecchia compagna.

Quando la tecnologia è arrivata alla costruzione della bomba atomica qualcosa è successo: la tecnologia ha surclassato troppo la cultura umanistica che è rimasta scioccata ed ha cominciato a fermarsi.

Ma perché la Cultura non ha reagito?

Immagina due compagni di classe che procedono più o meno testa a testa per tutto il periodo scolastico.

Una volta cresciuti, uno dei due si sposa con una americana, va in America,crea una azienda e diventa ricchissimo, poi fonda un’altra azienda ancora e poi viene eletto senatore.

L’altro amico intanto è rimasto in Italia nel negozio del papà e non riesce a competere più quasi neppure con sé stesso.

Non è che cresce per conto suo è come se fosse rimasto sconfitto e cresce meno perché il vecchio compagno lo ha surclassato.

La persona surclassata non la prende come una spinta per crescere di più ma abbandona.

E questo è quello che è successo tra la Scienza e l’Arte.

Vedi come la filosofia è diventata quasi totalmente storia della filosofia.

In età moderna ci sono rimasti ancora alcuni filosofi ma erano persone nate prima della guerra.

Finita quella generazione su questo versante non c’è più niente: l’arte sicuramente rimane indietro e si lamenta dicendo che c’è in giro tanta tecnologia e tanta tecnica ma mica è colpa di queste.

È come se ci fosse un diffuso sentimento di spavento che rientra nella sindrome della paura del futuro.

Una specie di intelligentia di struzzi che tengono la testa sotto la sabbia e stanno lì aspettando chissà che cosa.

… strano animale lo struzzo non trovi?

… Io con gli struzzi non ho mai avuto a che far personalmente però, descritti così, strani lo sembrano per davvero…

 

Riferimenti

Ecco alcuni riferimenti utili per partecipare a un incontro con Igor Sibaldi o acquistare un suo libro

? Eventi: fai clic  o anche qui I Maestri Invisibili

? Libri: fai clic

? Video: fai clic

 




La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

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Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora

(…) Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora, per andarmene un po’ a piedi sulla strada maestra che attraversa il nostro villaggio, avvolto nella mia dorata solitudine, allo scopo di capire perchè devo morire.(…)

“Pilota di guerra”- Antoine de Saint-Exupéry

Anna ha soltanto otto anni ed è una bambina molto bella, il suo corpo è esile, il viso ha lineamenti delicati, i capelli neri sono raccolti in lunghe trecce.

Quella mattina di primavera Anna non sta giocando con le amiche, i suoi genitori non hanno voluto che si allontanasse da casa, eppure sembrava una domenica come tante altre.

Nell’atteggiamento degli adulti traspare tuttavia un pò di nervosismo, parlano con tono grave e preoccupato, talvolta alzano lo sguardo al cielo voltandosi in direzione di Palermo, dalle colline la città appare nel suo lungo dispiegarsi di abitazioni fino al mare.

Improvvisamente tutto cambia: dapprima il prolungato avvertimento delle sirene antiaeree, seguito dal rumore assordante dell’incursione aerea e immediatamente dopo da quello terribile delle bombe, innumerevoli bombe, per un tempo che sembra non finire mai. Scappano tutti disordinatamente, si barricano impauriti dentro casa, le donne pregano sommessamente mentre gli uomini lo fanno in silenzio. 

Anna trema, abbracciata alla mamma tiene gli occhi chiusi, si tappa le orecchie con le mani nel tentativo di non sentire quello che accade fuori ma le esplosioni delle bombe, seppur distanti, fanno ugualmente paura. 

E’ il mese di maggio del 1943 e le truppe alleate stanno decidendo le sorti della Seconda guerra mondiale: sbarcate in Africa hanno postazioni in Marocco e in Algeria, per cui la Sicilia ed il porto di Palermo assumono un’importanza primaria ai fini strategici. 

Al comando della VII Armata vi è il generale George Smith Patton, figura fondamentale nella campagna di Sicilia che decide di sferrare sulla città l’attacco aereo finale, dopo quelli devastanti cominciati a febbraio e proseguiti in maniera sistematica fino ad aprile. 

Tra le tante sarà ricordata a lungo l’incursione aerea del 22 marzo quando alle 15,35 i bombardieri americani attaccarono il porto, fu l’ultima incursione di quel mese ma per le devastazioni subite rimase a lungo nella memoria di chi vi assistette: l’attacco vide impiegati nella missione 24 bombardieri di stanza in Algeria carichi di bombe da 500 libbre, ovvero 227 Kg di tritolo. Tutto ciò che era presente in quella zona per un’area di 13 ettari fu distrutto, dalle navi ai magazzini. La nave Volta, ovvero la santabarbara, era carica di munizioni ed esplose provocando una colonna di fumo alta 4.500 metri. Il fuso di una delle sue ancore verrà proiettato ad 800 metri di distanza finendo nel luogo dove si trova,oggi come allora, la Banca d’Italia. L’acqua sollevata dall’esplosione allagherà anche un rifugio antiaereo sito sul molo per i 24 operai portuali, che proprio li avevano sperato di trovare protezione, non vi sarà scampo.

Toccherà la stessa sorte anche agli sventurati che il 17 del mese di aprile durante l’ennesima incursione dal cielo avevano cercato scampo nel riparo aereo dietro la Cattedrale, a piazza Sett’Angeli: una delle bombe infatti riesce a penetrare nel rifugio uccidendo tutti coloro che vi si trovavano, in gran parte donne e bambini. Il numero ufficiale delle vittime di quel giorno è di trenta persone e data la difficoltà di recupero dei corpi ben presto tutto verrà ricoperto da un manto di cemento che fa ancora oggi fa sudario.

E se i numeri spesso aiutano a focalizzare meglio un concetto si pensi che nel solo mese di aprile verranno sganciate su Palermo ben 484 tonnellate di bombe.

A maggio si cambia drammaticamente strategia, l’operazione militare pianificata per quel mese è diversa dalle precedenti sia per dinamica sia per potenza, si decide infatti di sferrare sulla città un “bombardamento di saturazione” conosciuto meglio come “bombardamento a tappeto”.

 Questa micidiale tecnica doveva avere tra l’altro lo scopo non solo di terrorizzare la popolazione, creare panico e distruzione totale, ma di fiaccare il morale dei civili colpendoli anche nei luoghi simbolo della propria identità culturale e religiosa quali i monumenti e le chiese. In ultimo si sperava così di spingere la popolazione a  ribellarsi e fare pressione sul governo per la resa; il capoluogo siciliano ha questo triste primato, fu proprio Palermo la  prima città in Italia a sperimentare tutto questo.

È la mattina del 9 maggio e il comando americano decide che Palermo deve cadere: l’Apocalisse può avere inizio. 

Quella giornata Radio Londra aveva invitato la popolazione a disertare una cerimonia pubblica che era stata organizzata dalle autorità nell’attuale piazza Bologni, all’epoca piazza Italo Balbo. Si trattava di una ricorrenza particolare che non era di certo sfuggita agli americani, e cioè la “Giornata  dell’Esercito e dell’Impero”,  la scelta del 9 maggio per l’incursione aerea quindi non è certamente casuale, inoltre lo stesso giorno si sarebbe consegnata alla città una medaglia al valore di città mutilata dai bombardamenti.

L’attacco aereo arriva dall’Algeria da dove partono i caccia bimotore P38 a bassissima quota così da eludere i radar e la contraerea nemica, evitano di passare da Capo Zafferano scegliendo invece i cieli di Termini Imerese. Si dirigono quindi sull’aeroporto militare di Boccadifalco distruggendo in breve gli aerei in sosta sulla pista impedendo di conseguenza qualsiasi tentativo di reazione e di difesa aerea, sono soltanto le 11 del mattino. 

Alle 12,35  il cielo sulla città si oscura, l’urlo cupo e lamentoso di allarme delle sirene non ha tregua, sono arrivati i bombardieri americani B17 le cosiddette “Fortezze volanti” armati di bombe da 500 libbre. La prima formazione vede 222 bombardieri scortati da 118 caccia pesanti P38, è solo la prima di ben dodici ondate di incursioni, per contrastare l’attacco ben poco può la pur temibile contraerea dell’Asse poiché i bombardieri volano troppo in alto.

Alle 13,15 l’operazione è terminata, finite le bombe vengono lanciati sulla città 15.000 volantini che invitavano i palermitani a chiedere la resa dopo che su Palermo in soli 40 minuti erano state sganciate 1.570 bombe di vario calibro per un totale di 469 tonnellate di tritolo.

La stessa notte, a partire dalle 23,00 e fino alla mezzanotte, è la volta dei bimotori Wellington della RAF che finiranno il “lavoro” con ben 74 bombe e come se non bastasse verranno sganciate anche le Blockbuster, cosiddette “spianaquartieri”, bombe HC (High capacity) ovvero due ordigni da 4000 libbre (1.814 Kg) di potenza devastante. 

Ufficialmente il triste bilancio delle vittime tra i civili di quel 9 maggio 1943  sarà di 373 morti e di 421 feriti, un numero che forse può non sembrare proporzionato rispetto alla potenza di fuoco, ma bisogna tenere conto che dall’inizio dei bombardamenti la città si era lentamente svuotata dagli abitanti che avevano trovato riparo ed alloggi provvisori nei paesi limitrofi.

Per quanto riguarda il tessuto urbano nulla è stato risparmiato: abitazioni civili, caserme ma anche chiese, palazzi nobiliari ed antichi, monumenti per non parlare dei diversi  rifugi antiaerei, colpiti e distrutti, in cui trovarono la morte circa un centinaio di palermitani, e come se non bastasse i vigili del fuoco stentano a spegnere gli incendi probabilmente per l’uso di bombe incendiarie al fosforo.

Il colpo di teatro.

Il bombardamento di quel giorno su Palermo è stato definito un “colpo di teatro”, forse più che una reale esigenza dal punto di vista tattico militare questa mossa appagava il desiderio di conquista da parte degli americani della città più importante e grande dell’isola.

L’alba del giorno dopo quel 9 maggio restituisce ai palermitani una città tremendamente devastata, il centro storico con i suoi 250 ettari di estensione è quasi irriconoscibile, macerie e morti dappertutto. Il 42,3% della città secondo fonti della Prefettura è andato distrutto, centodiciannove monumenti compromessi per non parlare delle abitazioni civili, ben 60.000 persone nel solo centro storico non hanno più una casa.

 Per avere un’idea si pensi che successivamente per sgomberare la città dalle macerie  si decise di riversarle lungo il tratto di mare che la  delimita a nord ricoprendo così un’area di oltre 40.000 metri quadrati di detriti, quel tratto di città chiamato Foro Italico è divenuto oggi luogo di passeggiate e sport all’aperto.

Il 22 luglio fanno il loro ingresso a Palermo gli americani tra ali di folla festante ed incuriosita, ma le bombe non cesseranno di funestare la città e stavolta saranno quelle della Luftwaffe e della Regia aeronautica, facendo della città il bersaglio di buona parte delle forze aeronautiche impegnate nel conflitto per un totale, dall’inizio delle ostilità, di ben settanta bombardamenti.

A guerra finita nella sola Palermo tra i civili si contavano 30.000 feriti e 2.123 morti. 

Sono questi i numeri di una tragedia dalle proporzioni bibliche che non risparmiò nessuno tra uomini e donne, vecchi e bambini, vittime senza colpa se non quella di trovarsi nel posto sbagliato quando l’Europa sembrava impazzita. 

 Anna non ha mai lasciato il posto in cui è nata, non si è mai sposata ma ha avuto una famiglia che le ha voluto bene, di cui  ha sempre fatto parte integrante ed un nipote su cui riversare, ricambiata, tutto l’affetto di cui è stata capace.

 Si svolge nei primi giorni di maggio la festa religiosa più importante di quel paese che come da tradizione si conclude a notte inoltrata con lo spettacolo dei  fuochi d’artificio.

A casa di Anna assistervi dal terrazzo era una tradizione che si ripeteva ogni anno: uno spettacolo affascinante, rumoroso e suggestivo, un susseguirsi di scoppi e di boati che generavano nel cielo notturno geometrie di luci di incredibile bellezza e più aumentava il fragore più il cielo si rischiarava con colori luminosi. Tante e continue esplosioni assordanti e  tutti con il naso in su a riempirsi gli occhi di quella meraviglia. 

Ma ad ogni festa tutti gli anni in quella terrazza mancava una persona, sempre la stessa, che invece preferiva rimanere in casa.

 Quando iniziavano a sparare i fuochi, puntualmente, Anna veniva cercata dal nipote che voleva non si perdesse lo spettacolo di luci e colori, lei a quel punto della serata era sempre dentro casa e malgrado i ripetuti inviti dolcemente diceva che  avrebbe raggiunto tutti a breve, che stava per farlo, ma non era vero e non accadeva mai.

 Anna rimaneva da sola seduta in un angolo, i capelli candidi, col fare di una bimba che se ne sta in disparte come fosse in castigo, con gli occhi chiusi e le dita affusolate delle sue mani a coprire le orecchie. 

Aspettava così che la festa dei botti e dei fuochi finisse, composta e in un certo senso rassegnata, se ne stava immobile ed in silenzio immersa nei suoi ricordi, sul volto l’accenno di un malinconico sorriso. 

 




Medici: dove sono?

Agosto, moglie mia non ti conosco…

Bei tempi…Di questi tempi possiamo solo dire: “Agosto, medico mio non ti conosco…” anche perché non ti trovo!

Il paziente medio italiano ha visto l’esodo del suo medico di famiglia, che dopo anni di onorato servizio, è andato in pensione.

Ha pensato di prenderne un altro, magari comodo da raggiungere, anche perché è un po’ avanti con l’età e gli acciacchi si fanno sentire.” Tutti esauriti”, gli hanno risposto all’Asl. “Se vuole ne è rimasto uno libero all’altro capo della città” gli hanno risposto.

Gli è capitato di andare al pronto soccorso, per un’emergenza, ma vi ha trovato un medico straniero.

“Per l’amor del cielo, bravissimo, ma perché proprio a me?” ha pensato.

Oppure, è stato visitato da un volenteroso laureato non specializzato. Quante storie!!!

Insomma, per farla breve, quest’estate, il paziente medio italiano deve valutare bene dove, come e quando ammalarsi.

Perché, che la salute sia un bene prezioso, lo sappiamo. Ma che sia sempre più un lusso ammalarsi, lo sperimentiamo.

E, a mali estremi, estremi rimedi.

Il paziente medio italiano, ignaro contribuente, è ormai vittima, da tempo, di una assurda politica miope di tagli sulla salute dei cittadini, perpetrati da uno stato sociale ridotto allo stremo. E che riduce ognuno di noi allo stremo.

E che di fronte all’endemica mancanza di medici civili, propone ora l’arrivo di

medici militari. Eh vai!!!

Vediamo insieme cosa sta succedendo.

Il problema è la cronica emergenza-medici negli ospedali di tutt’Italia.

Sono almeno 8mila in meno del fabbisogno, di cui 2mila nei Pronto soccorso, questo il calcolo del segretario dell’Anaao, sindacato medico italiano, Carlo Palermo.

L’emergenza si aggravando, in questi giorni, con le ferie estive del personale.

I servizi del 118 sono al collasso, denuncia il presidente Società Italiana Sistema 118 Mario Balzanelli: “In alcuni casi si sono dovute sospendere le ferie per garantire l’assistenza”, ha sottolineato.

L’allarme è tanto più avvertito in questi giorni di grande caldo, una delle più intense dell’ultimo decennio in Europa, con punte di 40 gradi anche in Italia e in particolare al Centro-Nord. Particolarmente preoccupante, e non da oggi, la situazione in Molise.

Bene, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, in visita a Campobasso, ha dichiarato “Stiamo esaminando la possibilità di inviare in Molise medici militari per far fronte alla carenza di personale sanitario negli ospedali, ma al momento non abbiamo ancora trovato una soluzione, stiamo continuando a cercarla”.

I medici militari sarebbero un toccasana, certo, per gli ospedali della regione (che rischiano la chiusura di alcuni reparti). Ma non farebbero che cronicizzare il problema, posticipando la soluzione di un’annosa questione.

Già all’inizio del mese, il ministero aveva individuato un elenco di 105 camici bianchi che operano nella sanità militare e che saranno selezionati per essere impiegati nella sanità civile. Questi medici dovrebbero essere impiegati per almeno cinque mesi, “termine necessario – osserva il commissario ad acta per la Sanità, Angelo Giustini – affinché il ‘Decreto Calabria’ possa essere definitivamente approvato, così nel contempo si espleteranno i concorsi. Tutto ciò consentirà di superare questo agonico stallo nella governance del Servizio sanitario regionale e del diritto all’equità e universalità di accesso dei cittadini”.

Ma noi, di betapress, non ne possiamo più di false promesse.

Come ben sappiamo, non è solo il Molise, ovviamente, a soffrire della carenza di camici bianchi in corsia e nei pronto-soccorso.

Non si può continuare a ignorare la situazione dei servizi di emergenza 118: c’è una grave carenza di medici e infermieri del 118 in tutte le Regioni e la situazione si aggrava in estate, periodo in cui invece le richieste di soccorso aumentano di oltre un terzo, soprattutto nelle zone costiere.

” Si tratta di salvare delle vite e con questi numeri l’assistenza di emergenza non può essere garantita”, continua Balzanelli.

Qualche esempio? “A Milano disponiamo solo di 5 mezzi di soccorso con medico a bordo, tra ambulanze e auto mediche, mentre a Bologna sono solo 2 i mezzi di soccorso con medico. A Taranto, per due anni, abbiamo dovuto sospendere le ferie dei medici del 118 proprio per garantire il servizio”. Che fare? In vista delle vacanze estive e del prevedibile aumento della richiesta di servizi di soccorso, sottolinea, “abbiamo previsto un potenziamento del numero di ambulanze sul territorio, per quanto possibile, ma il problema è che mancano i medici e dunque le ambulanze avranno a bordo solo l’autista-soccorritore”, commenta Balzanelli.

Carlo Palermo, dell’Anaao-Assomed, sindacato medico italiano, parla di “situazione di emergenza”, precisando che l’allarme per la carenza di medici “è una questione che i sindacati stanno denunciando da tempo”. A livello nazionale, afferma Palermo, “registriamo almeno 8-10mila medici in meno rispetto al fabbisogno e questo per effetto del blocco del turn-over dal 2009. Ora il settore più penalizzato è proprio quelle dell’emergenza e dei Pronto soccorso, dove i medici in meno sono circa 2mila”. La sofferenza, sottolinea, “è maggiore negli ospedali del Centro-Sud: in Molise, Sicilia, Calabria, Lazio e Campania, gli ospedali registrano infatti il 30% in meno della dotazione organica rispetto al 2009”.

E per questo che noi di betapress.it diciamo basta dunque con queste soluzioni di fantasia!

Andiamo a vedere, a monte, cosa succede.

Gli ospedali che rimangono senza medici in Italia sono sempre più numerosi. In alcuni casi ai concorsi non si presenta nessuno e i direttori delle Asl sopperiscono facendo contratti a gettone e in alcuni casi diminuendo il numero delle prestazioni. A mancare sono soprattutto medici di pronto soccorso, anestesisti, ortopedici e ginecologi, ma anche medici di base. Un raro caso in cui ci sono più posti di lavoro che lavoratori disposti a prenderli. Come mai allora in Italia ci sono medici disoccupati?

Perché mancano i finanziamenti per le specializzazioni.

“Formiamo circa 10 mila medici ogni anno – ci spiega il dottor Carlo Palermo,

segretario Anaao Assomed – ma l’offerta di specializzazioni non supera i 7mila posti. Ogni anno c’è uno sbilanciamento di 3mila medici e questo imbuto formativo si accumula negli anni “.

E per questo che si verifica l’esodo dei nostri neo medici. I laureati in medicina nel nostro Paese che ogni anno vanno all’estero sono circa 1500.

Secondo il dottor Palermo è come se regalassimo 1500 Ferrari all’anno ai Paesi stranieri, perché formare un medico per sei anni di università costa circa 150 mila euro alla collettività e mandare questi laureati all’estero equivale a regalare lo sforzo fatto per la loro formazione.

Inoltre, il problema della mancanza dei medici si pone oggi sotto gli occhi della opinione pubblica, anche perché stanno andando in pensione moltissimi specialisti assunti negli Anni 70, per raggiunti limiti di età.

E come se non bastasse, la mancanza di ricambio generazionale, è aggravato da un altro fenomeno: “Assistiamo a dimissioni volontarie di colleghi che non sopportano più le condizioni disagiate dovute al blocco del turnover. Vanno alla ricerca di situazioni meno problematiche con meno disagi e vanno a lavorare nel privato”. Spesso chi rimane negli ospedali deve sopperire alla mancanza di colleghi sottoponendosi a turni pesanti, che in molti casi superano le dodici ore.

Ma quanto costerebbe mettere duemila posti in più all’anno nelle scuole di specializzazione? “Abbiamo calcolato che per aumentare di duemila unità il numero delle borse di studio servirebbero 260 milioni che suddivisi tra le regioni italiane sarebbe un costo di due o tre milioni all’anno, una cosa sopportabile per i bilanci delle regioni” conclude Palermo.

Ma non per il nostro governo, aggiungiamo noi.

Tanto se un politico si ammala può permettersi la visita domiciliare di uno specialista di lusso o il ricovero in una clinica privata, che se manca l’ambulanza, vengono a prenderlo in elicottero. Basta pagare…

 

Antonella Ferrari