Dirigente Scolastico o Bersaglio da Tiro a segno?

Da tempo da queste pagine scriviamo riguardo alla scuola, valutandone i lati oscuri e negativi, sperando in un riscatto della sua classe lavoratrice, Dirigenti, Docenti, Personale ATA, ma anche famiglie e alunni, in molte occasioni abbiamo stigmatizzato il comportamento anomalo dei sindacati e del governo che sembra voler rendere complesso fino all’inverosimile un mondo che già per sua storia è in grave difficoltà.

Oggi riceviamo una lettera aperta che stanno sottoscrivendo la gran parte dei Dirigenti Scolastici di tutta Italia, in cui viene quantomeno confermato il momento difficile della scuola italiana, ma sopratutto le anomalie presenti nel sistema.

La Redazione di Betapress.it è solidale con il mondo della scuola e ne comprende le difficoltà, ne abbiamo ampiamente parlato, ma sopratutto restiamo stupiti e attoniti di fronte questa evidente incapacità nella gestione di questo mondo che viene oggi dimostrata dalle funzioni “ministeriali”.

Pubblichiamo integralmente la lettera ricevuta dal Comitato Dirigenti Scolastici Sicilia


La difficile situazione dei Dirigenti Scolastici: lettera aperta

Nel mondo dei dirigenti dello Stato italiano il dirigente scolastico assume un ruolo veramente particolare e paradossale: ha più responsabilità, ha la retribuzione più bassa, non ha garanzie e tutele e viene quotidianamente lasciato solo davanti alle emergenze.

La lettera potrebbe finire qui, perché nella prima frase c’è tutto il senso dello sgomento che assale chi svolge con professionalità e dedizione questo ruolo, che ha l’ulteriore strategica importanza di gestire la macchina che crea i nuovi cittadini.

Il Dirigente Scolastico oggi si trova davanti a situazioni non prevedibili, spesso non correttamente normate, ma sempre senza un adeguato supporto.

Il dirigente scolastico è a tutti gli effetti datore di lavoro, responsabile legale dell’istituzione scolastica che dirige, centro unico di spesa, stazione appaltante, responsabile organizzativo, interfaccia con l’utenza più di qualsiasi altro dirigente dello stato, e, come se non bastasse, è anche responsabile di qualsiasi atto amministrativo, segnalazione, base dati, pubblicazione che vengono realizzati nella sua struttura.

Ultimamente il Dirigente Scolastico viene utilizzato dalle sigle sindacali per attaccare le leggi dello Stato: se il sindacato vuole andare contro la legge 107, fa un bell’esposto ad un dirigente che l’ha applicata così può, per il tramite di questo, sollevare il caso.

Non stiamo parlando di ipotesi ma di realtà! È già successo ad un collega della Sicilia, a cui esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza, e la cosa non può essere tollerata.

Non esiste che un servitore dello stato venga usato per poter attaccare lo Stato, soprattutto se a fare questa azione sono i sindacati, che in teoria dovrebbero tutelare lo stesso dirigente.

È come se noi aggredissimo il vigile che ci fa la multa per eccesso di velocità perché non siamo d’accordo con il fatto che su quella strada si debba andare a 40 all’ora!

Ed è anche un paradosso che si attacchi un lavoratore (eh si, il dirigente è un lavoratore) per andare contro il suo datore di lavoro.

Non si può permettere questo stato delle cose, e Noi Dirigenti Scolastici non lo permetteremo.

Soprattutto non lo può permettere lo Stato!! I luoghi del dialogo non possono passare attraverso il TAR e la denuncia a coloro che applicano le leggi, ma devono stare sui tavoli preposti, nel dialogo Stato sindacato.

Noi, come dirigenza della scuola, stigmatizziamo con forza la necessità di ritrovare equilibrio nel nostro ruolo, mitigando le responsabilità e rendendo più leggibili le incombenze che cadono sulle scuole.

Chiediamo solo di poter fare il nostro lavoro con serenità e chiarezza, nel bene delle famiglie e degli alunni, per creare davvero cittadini responsabili.

Per questo risultato siamo disposti ad una incessante lotta, sia mediatica che operativa, al fine di dimostrare che, spesso, le scuole vanno avanti perché i dirigenti si assumono responsabilità oltre il loro dovere: solo sul tema della sicurezza, ad esempio, i dirigenti dovrebbero chiudere metà delle scuole.

Responsabilità che spesso non sono nemmeno del dirigente, ma della provincia, del comune, che purtroppo, nella endemica motivazione della mancanza di fondi, lasciano cadere a pezzi le strutture, privandole delle necessarie manutenzioni e dei necessari interventi, obbligando così i dirigenti a fare interventi con fondi che dovrebbero essere dedicati ad altro.

Non parliamo poi della miriade di novità normative introdotte negli ultimi cinque anni, che hanno portato la scuola alla soglia della confusione amministrativa, obbligando i dirigenti ad una serie di interventi correttivi, spesso sostituendosi alle segreterie, per arginare le problematiche e l’ira delle famiglie e dei docenti.

Chiediamo un intervento urgente e l’apertura di un dialogo immediato con i dirigenti scolastici, affinché vengano rispettate le minime necessità di ordine funzionale e venga ridata dignità ad un ruolo importante e sempre più attuale.

A tal fine siamo pronti a qualsiasi forma di civile protesta.


 

Dirigenti Scolastici siamo con Voi, fatevi sentire!!

 

ricordate il vecchio gioco di spara all'orso? oggi è cambiato...
ricordate il vecchio gioco di spara all’orso? oggi è cambiato…

i dirigenti scolastici sono ormai bersagli da tiro a segno
i dirigenti scolastici sono ormai bersagli da tiro a segno




Bossetti: sarò un ignorantone ma non assassino

Bossetti Colpevole??

Certe volte l’accanimento ci porta simpatia verso le vittime, un po come anni fa quando la sinistra attaccò Berlusconi sul lato personale e lo fece vincere per ben due volte.

Oggi Bossetti sembra una vittima, quasi un innocente passante che si è trovato coinvolto.

Ma viene da chiedersi: come è possibile che pur essendo passato più volte con il furgone, essendoci i testimoni, il tutto venga fuori anni dopo?

e comunque, alla faccia della prova del DNA, che per essere valida deve essere ripetibile…

 

bossetti 1




Dove nessun uomo è mai giunto prima…

Se penso a com’era ieri, oggi siamo nel futuro.

Eppure io il futuro me lo immaginavo diverso.

Sui giornali si legge la notizia del primo turista nello spazio e il suo nome giapponese; mi guardo intorno e vedo dispositivi che ci connettono con persone in ogni parte del mondo e macchine che scrivono le nostre parole sotto dettatura.

Per quanto ci siamo abituati subito a tutto questo, possiamo dire che il futuro di oggi è davvero stupefacente.

Eppure io, il futuro me lo immaginavo diverso.

Sì, è vero: oggi voliamo, respiriamo sott’acqua, proiettiamo le nostre fantasie sugli schermi rendendole reali… attendo ancora il teletrasporto anche se ci sono situazioni olografiche che riproducono davanti a noi in dimensioni reali le persone richieste.

Ma non mi basta… io immaginavo altro…

La colpa è dei film che guardavo da bambina.

La colpa è del modo in cui tutto mi sembrava plausibile.

Erano i tempi di star Trek, che guardavo la mattina quando non andavo a scuola e restavo a letto a far passare la febbre.

Guardavo e aspettavo.

Di recente, nell’età delle stagioni televisive a disposizione su Netflix, io e il mio fidanzato abbiamo preso l’abitudine di guardare la sera, stagioni di vecchi telefilm.

Abbiamo iniziato con Star Trek e, vista l’infinita quantità di stagioni, ci accompagnerà anche nella nostra vecchiaia.

Ma il punto è che io il futuro me lo immaginavo proprio come quello di Star Trek.

Non parlo nello specifico delle navi spaziali e del lavoro nella flotta stellare (ah come mi sarebbe piaciuto!) e neppure del ponte ologrammi (tanto figo ma che porta solo rogne) e neanche del teletrasporto (che aspetto con un prossimo iPhone)… io parlo delle tante specie differenti all’interno della sala mensa.

Gente proveniente da ogni pianeta che lavora assieme sull’Enterprise, combatte e si incontra, che fa nuove alleanze e che esplora spazi sempre più lontani.

Il mio futuro era sconfinato.

Il futuro per me era quello: conoscere e convivere in piena integrazione universale con altre specie (non inteso come etnia o razza ma come estrazione umana).

Mi aspettavo che da grande sarei stata circondata da persone diverse da me e che ognuno avrebbe mostrato chiaramente la propria originalità (intesa nel doppio senso di origine e di peculiarità) e pensavo negli anni della mia crescita di prepararmi a questo.

Mi sembrava tutto così plausibile…

E invece no.

Ho capito che non era così un giorno che ero “fuori città” per lavoro.

Prima di rinchiudermi in hotel e impallidirmi alla luce del neon, mi ero fermata a pranzare in una piazza affollata in una zona di uffici.

Ero di buon umore perché avevo sete di guardare le persone attorno a me e immaginarne le vite.

Ho scelto un posto che mi permettesse di guardarmi bene intorno, mi sono seduta e ho ordinato.

Mentre aspettavo il mio pranzo ho cominciato a guardarmi attorno.

E ho sentito un crack, come di una corteccia dentro di me.

Ho provato un senso di grande disagio vedendo che erano tutti uguali.

Tutti gli uomini erano uguali, tutte le donne erano uguali.

C’erano di ogni specie un paio di versioni diverse ma sempre omologati.

Tutti gli uomini sembravano alti con l’abito coordinato e tutti le donne magre con borse firmate e un po’ di tacco; anche i bassi sembravano un po’ più alti eppure non sembrava puntassero al cielo.

Altri uomini avevano un abbigliamento più casual con maglia fuori dai jeans e scarpe comode che accompagnavano una postura rilassata, certe donne professavano l’anticonformismo nei capelli arruffati e i vestiti colorati non abbinati tra loro.

Al di là dei vestiti, però, si vedeva che facevano parte tutti della stessa specie… a prescindere dal colore della pelle e dall’accento.

E anche io ero come loro, omologata a loro.

E mi sono sentita incredibilmente sola perché attorno a me c’erano solo persone a cui somigliavo e in quella collettività mi sentivo sparire.

Quel fine settimana sono stata molto triste, perché avevo scoperto che nel mio futuro di quel momento, a pranzo non era possibile incontrare Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi e, in più, come “terreste” non ero neppure troppo distinta.

…Peccato…

Tornando a casa, nel consueto appuntamento serale, mi ha molto colpito una specie di nome Borg.

I Borg sono una Collettività, ovvero sono un sistema composto da parti chiamate droni, una sorta di persone senza un pensiero personale ma che opera e si muove in funzione dell’insieme; i droni operano in comunione e accordo, senza alcun tipo di conflitto.

I Borg, ovviamente avendo tutti le stesse idee e le stesse esigenze, sono potentissimi: è quasi impossibile sconfiggerli e quando l’Enterprise li ha incrociati, la migliore soluzione si è sempre rivelata l’allontanamento strategico.

Il Borg tipo, quando incontra qualunque organismo diverso da sé dice: “Noi siamo Borg, voi sarete assimilati, la resistenza è inutile” (We Are the Borg. You Will be Assimilated. Resistance is futile”) e poi lo assimilano ovvero lo trasformano in Borg acquisendo, a favore della Collettività, tutte le conoscenze di quella specie.

E così, grazie a tutta questa esperienza assimilata, i Borg sono potentissimi e il loro obiettivo finale è la Perfezione.

Non verrebbe neppure da dire che sono cattivi, sono una Collettività e, in quanto tale, è difficile stabilirne la moralità: la morale ha a che fare col bene di uno e col male di un altro, in un viaggio per il miglioramento collettivo, il bene ultimo, che è nobilissimo, è il solo che conta.

I Borg sono quelli che certi filosofi contemporanei chiamerebbero “la specie” intendendo una collettività che opera e agisce all’interno dell’organismo epocale.

I Borg, quando per una serie di motivi si trovano ad essere tirati fuori dalla Collettività, soffrono tantissimo trovandosi a dover pensare a loro stessi come individuo.

Eppure, dopo che provano l’Individualità, ne restano in qualche modo diabolicamente sedotti.

L’individuo ai loro occhi è completamente smarrito: deve innanzitutto trovarsi un nome, accettare di essere un IO e non un NOI, scoprire di avere desideri differenti da quelli della Collettività, dover formulare pensieri propri e, quel che è peggio, si trova a confrontarsi con la contingenza della morte… cosa impensabile all’interno della collettività dove, se un drone smette di funzionare, le esperienze restano comunque nella collettività.

Ogni aspetto di questa specie offre spunti di riflessione e i Borg si rivelano un Simbolo potentissimo, laddove chiamiamo simbolo quel “piccolo” e “limitato” che si rivela universale, il granello di sabbia che rivela l’universo mondo.

Gli autori di Star Trek hanno tutta la mia stima e ammirazione, tra loro, vorrei poter avere ogni sera a cena chi ha inventato il personaggio dei Borg per poter parlare bevendo del buon vino rosso di come questa specie abbia tanto a che fare con noi e con la crescita spirituale e umana.

Noi che ci sentiamo al sicuro solo nelle collettività di un team di lavoro o di un gruppo Facebook, che siamo un unico organismo senza rendercene conto, che non vediamo la morte e, quando la contempliamo, ci spaventa, che non abbiamo idee difformi da quella dei nostri leader spirituali e miriamo a una perfezione senza contraddittorio; noi che cerchiamo la verità che ci dà un organismo fantastico più grande di noi e del quale ci fidiamo (chiamiamolo internet, tv, società, bibbia, corano…)

Noi che sentiamo che, se saremo tutti uniti, saremo invincibili e che ignoriamo e mettiamo a tacere le scomodità della nostra anima perché ogni giorno che passa il pensarla in modo diverso ci sempre inconcepibile.

Noi adesso siamo Borg e siamo stati assimilati, la nostra resistenza è stata inutile.

Ma se ne esce.

Quando incontriamo degli individui, possiamo essere salvati.

In genere sono gli umani che hanno questo desiderio tirare fuori l’Uno.

Non ci piacerà, ma l’ebrezza di sceglierci un nome che sia nostro e non dato da chissà chi, sarà così seducente che di nuovo, con grandissima difficoltà, confusione e paradossi, cercheremo la nostra perfezione che è da tutt’altra parte anche se non sappiamo neppure com’è fatta e in che consiste… e, nell’attesa di capire, si può andare in sala mensa a bere qualcosa con Klingon, Vulcaniani, Romulani o Ferenghi.

 


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Quinta ristampa per il libro di Max Gentile

LIBERO DI RINASCERE di Max Gentile, edito dalla Currenti Calamo Editore, è arrivato alla quinta ristampa in poco più di un anno. Ci aveva piacevolmente sorpresi, un anno fa, Max Gentile quando lo abbiamo intervistato.

La sua storia, quella di un poliziotto diventato coach, aveva dell’incredibile, ma era talmente vera nel suo essere paradossale che ci abbiamo creduto.

Ci abbiamo visto giusto, noi di betapress quando lo abbiamo seguito nel tour di serate di presentazione del libro nelle maggiori città italiane, lo scorso autunno.

La prima serata, il 9 ottobre di un anno fa, nella sua Genova, aveva subito registrato il tutto esaurito, ed era stata caratterizzata da una particolare presenza di imprenditori e di liberi professionisti, sempre più attratti dalla P.N.L, ma non solo.

Perché, Max Gentile è un coach “sui generis”, che si qualifica come formatore personale, prima che professionale. Questa è la sua specificità, che fa la differenza!

LIBERO DI RINASCERE, che l’autore ha continuato a promuovere con le serate di incontro con il pubblico, (costituito da seguaci fedelissimi, primi testimoni del suo talento, ma anche da nuovi adepti, incuriositi dalla sua proposta), ha confermato le doti umane e professionali di Max, e si è rivelato un vero successo editoriale.

Perché, non è quello che dice, ma quello che fa Max, che crea la differenza!

Prima di tutto perché non insegna quello che sa, ma trasmette quello che vive. Chi lo segue da parecchi anni, sa bene che, con un’enorme coerenza di vita umana e di credibilità professionale, Max applica su sé stesso la regola del RADICARSI ED AMARSI.

Lui per primo, ha scavato dentro di sé, per trovare la propria identità, per difendere la propria integrità, per creare e prendere la propria direzione esistenziale.

Poi perché, da poliziotto o da allenatore, Max crede che il vero successo è amare sé stessi e mettersi al servizio degli altri.

Così, nel suo libro e nelle sue lezioni, ci insegna a smetterla di dare la colpa agli altri, a liberarci dalle paure, ad eliminare dalla vita i vampiri d’energia, a scollarci di dosso la “rimandite”.

Ci invita a riflettere sul rischio più grande, che non è quello di morire, ma quello di non vivere, o meglio di vivere al di sotto delle proprie possibilità.

Quattro grandi paure, la paura della libertà, dell’abbandono, del giudizio, dell’approvazione ci bloccano e rappresentano una gabbia, da cui Max c’insegna ad uscire, per poi affrontare la paura più grande che non è il fallimento, ma il SUCCESSO.

Sì, Max Gentile, ci porta sull’orlo della sfida più coraggiosa, quella di riuscire a dare il meglio di sé, di esprimere tutto quel potenziale che abbiamo dentro e che, paradossalmente, all’inizio temiamo.

Ed allora, sempre secondo il nostro intuito sulle novità del mondo del coaching, vi anticipiamo un evento straordinario che avrà luogo a Milano il 28 ed il 29 settembre presso il Novotel Milano Nord Ca’Granda: il MENTAL FORUM di NEUROSCIENZE ED IPNOSI.

Questo primo ed affascinante congresso italiano con la partecipazione di quindici relatori internazionali, provenienti da sei paesi esteri propone l’incredibile sinergia e complementarietà tra le neuroscienze e l’ipnosi.

I migliori esperti nel campo dell’Ipnosi, Neuroscienze, Comunicazione, Emozioni, Apprendimento, Morfofisiognomica, Memoria, Benessere si alterneranno in un week end di informazione, dibattiti, conferenze e workshop dall’avvincente titolo

TUTTI MERITANO DI POTER ACCEDERE ALLA CONOSCENZA. Noi ci crediamo!

Ideatrice ed organizzatrice dell’evento è PAOLA GRASSI.

Ricercatrice, Coach professionista, Counselor ad Indirizzo Olistico, Filosofa e Scrittrice, Ipnotista, ha creato l’Associazione Italiana Ipnosi, di cui è Presidente e fondatrice insieme a Ester Patricia Ceresa e Vincenzo D’Amato.

E’ l’ideatrice e l’organizzatrice anche di Accademia Summit Festival (evento annuale no profit), a cui l’anno scorso era stato invitato anche Max Gentile, nonché Owner & Founder di Accademia Italiana di Coaching Integrato, community per la quale è Academy Master Trainer nei corsi di coaching e crescita personale.
La sua mente creativa produce in continuazione nuove idee che poi trasforma con successo in realtà.

Pensiamoci, se vogliamo continuare il viaggio alla scoperta della nostra rinascita e alla massima espressione del nostro potenziale mentale.

Noi di betapress ci saremo, ci metteremo in gioco per primi! …

Antonella Ferrari

 




Essere Principessa: la scomodità della vita.

C’era una volta un principessa,

questa principessa si trovava nel cuore di una tempesta.

Non sapeva ben dire come si era trovata in quella situazione ma, a dirla tutta, non era neppure troppo a disagio.

 Il vento soffiava, la pioggia cadeva e lei non vedeva a un palmo dal suo naso.

Era sola ma non aveva paura e sapeva bene cosa fare anche se non le era immediatamente visibile.

Ad un certo punto, durante il suo cieco vagare, iniziò a scorgere qualcosa che sembrava un castello.

Quando si avvicinò abbastanza da bussare alla porta, chi le aprì le chiese chi fosse.

“Sono una principessa”.

 Caso volle che in quel castello abitasse un principe che da tanto tempo cercava senza fortuna una vera principessa; tutte le principesse che gli si erano presentate come tali, non si erano rivelate all’altezza di quello che lui cercava.

Non erano abbastanza principesse.

 Il principe allora, dopo tanto cercare, e quando sembrava che fossero finite tutte le principesse del mondo, fu molto contento di accogliere la sedicente principessa e sperava che fosse la volta buona.

 La regina però, che era una donna navigata, prudente e furba, smorzò l’entusiasmo del figlio e gli disse che prima di sposare quella sconosciuta, lei avrebbe verificato che fosse veramente una principessa.

 Fece così preparare per la notte il letto della loro ospite:

 fece mettere 20 morbidissimi materassi per farla stare comoda e alla loro base, nascose un piccolo pisello secco, poi fece mettere sui 20 materassi venti grossi cuscini di piume e così la camera fu pronta.

 Si fece ora di andare a dormire e il mattino dopo il principe chiese alla sua ospite come avesse dormito.

 “in effetti, non bene.

Per tutta la notte non ho chiuso occhio, era come se qualcosa fosse sotto quei materassi, non ho trovato una sola posizione comoda, una situazione alla quale era impossibile abituarsi e, in più, quel qualcosa sotto quei materassi mi ha provocato un enorme livido blu e marrone”.

Fu così che la regina capì che quella era una vera principessa, infatti solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile e acconsentì alle nozze.

 In effetti, la cosa migliore che ci possa capitare è di essere anche noi come la principessa.

La cosa migliore che possa accaderci è accorgerci che stiamo scomodi, che dormiamo male e sentiamo sempre qualcosa che ci lascia i lividi, nonostante i 20 materassi e i 20 cuscini.

 Perché le tante comodità delle nostre vite, le conciliazioni, le regole, le cose che “è meglio fare così” per non disturbare, le frasi che “è meglio non dire” per non essere sconvenienti… tutto quello che rende la vita più comoda e conciliante, più rassicurante, tutto quello che ci anestetizza (il letto), che copre le storture… tutto questo ci fa accettare uno stato che non è normale… ha come unico obiettivo quello di distrarci dal nostro essere “principesse”, creature che non hanno a che fare con le altre persone ormai inserite nel meccanismo del mondo.

 Non è normale che ci sia qualcosa sotto al materasso e probabilmente lo avremmo sentito anche noi; anzi, probabilmente lo abbiamo sentito anche noi, ma ci è sembrato così strano doverlo dire: abbiamo preferito stare zitti e sorridere dicendo “ho dormito benissimo, grazie”, per non dispiacere il nostro ospite, perché abbiamo pensato di essere noi esagerati, per buona educazione, perché “non era così importante”…

 E invece era importante.

 Auguro a tutti noi di essere perennemente scomodi, di non essere soddisfatti del proprio letto e di saperlo dire con fastidio, perché solo così saremmo in grado di essere delle “vere principesse” e affrontare le tempeste della vita senza quasi accorgercene, quasi con divertimento e spirito di avventura e di vedere chiaramente la strada anche se è nascosta.

 Come è il piccolo, così è il grande; come è la fiaba, così è la vita.


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Rincorrere sé stessi

La professoressa di Italiano ci aveva insegnato a cercare in ogni cosa, in ogni argomento, in ogni analisi, tre cose positive e tre cose negative.

È un grande esercizio di imparzialità, soprattutto se inizi a farlo da adolescente.

Sempre da adolescente ho deciso lucidamente che sarei stata felice e da allora mi sono impegnata sistematicamente a vedere il buono anche dove non c’era.

Ne sono soddisfatta.

La crescita però è fatta di tante fasi e sono sempre più raffinate.

Ad un certo punto bisogna essere pronti a chiudere la fase dell’”abbraccio incondizionato” e ad iniziare la fase del dissenso.

Capire quando esercitare questo diritto è facile: ci si basa sull’esperienza diretta e sull’ascolto.

Quando scegli di trovare sempre il buono e di farti piacere le situazioni a tutti i costi, rischi di trovarti anche in situazioni sbagliate che vanno contro il tuo essere.

Ed è giusto va fatto.

E poi bisogna smettere.

A lungo andare, inizi a sentire una crepa dentro di te e questa crepa mina l’integrità il tuo IO che piano piano minaccia di crollare.

Se nel corso della vita ti sei anche impegnato ad essere la persona che volevi essere, la tua concentrazione è su di te e le bricioline poi diventano una “spina nel fianco” che non ti fanno dormire la notte e così capisci che devi uscire da quella situazione e abbandoni relazioni, incarichi e luoghi.

Va bene, è come deve essere,

si tratta dell’unico modo per costruire esperienze.

Bisogna però fare attenzione a non crollare prima di andare via perché in quel caso, si resterà corrotti.

Sulla base dell’ascolto di noi e delle esperienze raccolte, ad un certo punto della nostra vita, è importante iniziare a dire “no a priori”, perché ormai sappiamo cosa ci piace e cosa no e cosa ci fa bene e cosa no.

Così io da oggi divento un po’ più intollerante.

Dico no alle forme urlate, ai camuffamenti, alle bugie, alle furbizie, alle scorciatoie, alle aggressioni, ai pettegolezzi, alle parole non mantenute, alle licenze poetiche, alle paure e alle minacce, a ciò che mi è scomodo, lontano e opposto.

Non vuol dire che siano in assoluto sbagliate, ma che non mi piacciono e quindi non mi ci avvicinerò facilmente e non mi farò avvicinare.

Senza giudizi universali, solo personali.

Da oggi mi avvicino più velocemente a me e metto da parte le esperienze già fatte.

Vi auguro, come capita a me, di avere tante persone che vi vogliano bene, che la pensino in modo diverso da voi ma che rispettino sempre la vostra opinione pur non abbandonando la propria.




Sacro o profano?

Esiste un mondo sacro dell’arte ed un mondo profano della moda?

O, viceversa, arte e moda sono entrambe segno e simbolo di un tempo, sacro e profano al contempo?

E quando, paradossalmente la moda diventa sacra e l’arte diventa profana, nel senso di accessibile al pubblico?

La sfida sinestetica di fusione tra arte e moda e di sublimazione dei loro linguaggi iconografici, è stata accolta, e noi di betapress, vi anticipiamo, sarà vinta, in un evento artistico di avanguardia, ideato da Sara Mano ed organizzato in collaborazione con Silvia Mascheretti, presso la pinacoteca Carrara di Bergamo, inaugurato venerdì prossimo, 13 settembre, alle ore 18.30.

ARTE di MODA “GIARDINI di SETA” VITTORIO ACCONERO per GUCCI è il titolo della mostra dei prestigiosi foulards esposti nei locali della Carrara dal 14 settembre al 21 ottobre p.v.

La mostra è il primo evento di BE-STILE, un nuovo format dedicato allo “STILE” che avrà come luogo prediletto la storica ACCADEMIA CARRARA di Bergamo e vedrà la sua prima edizione nell’autunno 2019.

 

Il logo BE-STILE acronimo di “BERGAMO STILE”, ma anche di “ESSERE STILE”, vuole essere un laboratorio di riferimento per proposte e progetti che possano favorire il dialogo fra la città e il mondo della Moda, dell’Arte e del Design.

 Il tema centrale dell’edizione 2019, è la mostra “Giardini di seta” Vittorio Acconero per Gucci che, presenta una collezione di foulard originali di un ventennio di storia italiana, fra i quali il celebre Flora, uno dei trade-marks della Maison Gucci.

 Si tratta di una mostra di grande freschezza e godibilità, rappresentativa di un periodo storico fra i più rilevanti per il design e la moda italiani, che, nell’immaginario collettivo, promuovono un’idea vincente di STILE italiano.

L’esposizione accosta in un dialogo artistico 10 foulard con 10 opere della collezione permanente, attraverso visite guidate tematiche che legano il mondo della Moda dei Foulard di Gucci a quello dell’Arte della collezione permanente della Accademia Carrara creando un sodalizio fra Arte e Moda e fra i differenti modi di “essere STILE”. 

 In tutto sono 35 i foulards originali disegnati per la maison fiorentina da Vittorio Accornero, uno dei protagonisti dell’illustrazione italiana del Novecento.

Ma, in Arte di Moda, grazie alla consulenza storico-artistica di Martina Colombi e Sara Mano, 10 preziosi foulards, alcuni dei quali mai esposti, vengono accostati ad altrettanti capolavori dell’Accademia Carrara.

Nasce così, e questa è la novità, un dialogo iconografico che lega Arte e Moda. Il mondo sottomarino dei Coralli (1968) affianca i gioielli di Ritratto di bambina di casa Redetti (1579 circa) di Giovan Battista Moroni.

L’intreccio di foglie, bacche e rampicanti e gelsomino di Fiori invernali (anni ̓70) si ritrova nella Sacra Famiglia con Santa Caterina d’Alessandria (1533) di Lorenzo Lotto. Il paesaggio collinare, popolato da alberi e arbusti e dominato sullo sfondo da architetture turrite, accomuna Padiglione (1960-1965) e Orfeo ed Euridice (1510 circa) di Tiziano.

Un percorso esclusivo tra Arte e Moda, tra design e pittura a confronto.

Sete disegnate ed opere artistiche incantano il visitatore in un gioco seduttivo in cui i linguaggi si fondono. L’iconico Flora, creato nel 1966 per Grace Kelly e caratterizzato da 9 bouquet di fiori tra cui campeggiano farfalle e libellule è accostato alla fragilità della bellezza di Vaso di fiori con anello e pietre preziose (1612) di Jan Brueghel il vecchio.

Epoche e scenari accompagnano il pubblico in un viaggio attraverso l’arte presente nella moda, ma anche attraverso la moda presente nell’arte.

L’evoluzione artistica di Accornero continua e conferma gli omaggi dello stilista alla storia dell’arte, ed ora i suoi foulards equivalgono a degli oggetti d’arte, esposti in un tempio sacro della pittura come la pinacoteca Carrara.

Il tempo riconosce il talento…

E la città di Bergamo riconosce il valore del progetto.

Il progetto è infatti realizzato grazie al patrocinio di Comune di Bergamo, con il contributo di Regione Lombardia, il sostegno di Visit Bergamo e ATB e la sponsorizzazione di Blue Meta, Clay Paky con Art Centric Lighting, CreaConcreteDesign, Credipass, Grifal con 4 Portoni, Pedrali, Bracca e Valcalepio, aziende di prestigio del territorio bergamasco.

 

Antonella Ferrari

 




Impresa sì, ma umanamente…

Team building e licenziamento 

i valori umani dell’imprenditrice Elisabetta Ruffino.

Le coincidenze sono degli avvenimenti che accadono normalmente ma che regolarmente ci lasciano senza parole.

Il termine coincidenza deriva dal latino “cumincidere” ovvero cadere insieme.

E così avviene che degli avvenimenti apparentemente separati e distanti cadono insieme davanti ai nostri occhi e lasciano un segno profondo nelle nostre vite.

Sono cose che ci stupiscono ma che, a conti fatti, sono perfettamente normali, comuni.

Sappiamo che accadono ma ci piace sempre fermarci a guardarle stupiti, un po’ come facciamo davanti ai fenomeni naturali: li guardiamo ammirati ma sappiamo che non c’è nulla di magico dietro, solo natura.

Bellissima, perfetta natura.

“Caso”, “fato”, “coincidenze”, “sincronie”, “ananke” … sono tutti termini filosofici e letterari che raccontano lo stupore di vedere l’armonia degli avvenimenti e la constatazione lucida della perfezione della realtà.

Personalmente a me le coincidenze piacciono, le aspetto proprio per guardare dove mi porteranno e a che punto arriveranno.

Le aspetto pronta e fiduciosa come Benjamin Franklin aspettava i fulmini col suo aquilone.

Questo articolo parla di un incontro casuale e di quello che mi ha insegnato.

Scrivo di questo insegnamento perché credo che possa essere uno spunto di riflessione, un esempio interessante e una boccata di buona speranza per chi legge.

Voglio raccontare questa storia perché porta in sé delle tracce, qualcosa che può riecheggiare nelle orecchie di chi legge e dare una prospettiva in più.

Chi cerca risposte, la maggior parte delle volte le trova per caso, spesso nelle parole che avrebbero dovuto avere tutto un altro contesto, a volte in un articolo.

Ma andiamo alla storia che voglio presentare.

È una storia che parla di persone che hanno delle aziende e che, attraverso questo strumento, lasciano un segno nella vita di altre persone.

Le riflessioni che riporterò non sono fantasticherie ma riflessioni concrete che hanno riscontro in circostanze effettive ed è questo il motivo della loro eccezionalità.

Mi piace osservare la vita umana e professionale di chi “costruisce lavoro”, scrutarne la realtà e cercare di guardare oltre, perché spesso parla di persone straordinarie.

In una società ideale, l’imprenditore ha una responsabilità sociale importante: deve migliorare la propria vita, quella dei propri dipendenti e quella dei propri utenti finali, i cosiddetti clienti.

La sfera del lavoro, dell’impiego, nell’economia del tempo e dello spazio, interessa una fetta della nostra vita molto grossa e “chi vuol fare la differenza” è chiamato a muoversi anche all’interno di questo campo.

Esistono persone che la pensano così e a me piace andare ad osservarle.

Lei si chiama Elisabetta Ruffino e siamo diventate amiche per caso.

Lei di Torino, io di Palermo, per qualche anno ci siamo incontrate per caso in giro per l’Italia, ci salutavamo da lontano ma niente di ché.

Era sempre così: lei arrivava e io andavo via.

Poi un giorno, per caso e senza un motivo, le ho mandato tramite un amico un biglietto con dei saluti, lei non lo sapeva e il giorno prima di riceverlo, senza un motivo, mi ha chiamata chiedendomi di incontrarci vicino Lugano pochi giorni dopo.

Così, per una serie di coincidenze, abbiamo iniziato a lavorare assieme.

Prima di allora non sapevo molto di lei, la conoscevo come “quella che faceva leggere ai suoi dipendenti i libri motivazionali prima di farli cominciare a lavorare”.

Lei non so come mi vedesse.

Elisabetta Ruffino, assieme a Paolo Pollacino il suo socio e complemento umano e professionale, si occupano di esami dei componenti per il settore dell’automotive.

Detta in parole più semplici, Motivexlab, la loro azienda, si occupa di fare dei test di sicurezza ai componenti dei macchinari in modo da evitare e prevenire eventuali malfunzionamenti pericolosi per l’utente finale e per l’azienda produttrice.

L’ulteriore particolarità di Motivexlab rispetto alle altre aziende dello stesso settore, è la velocità: gli esami richiesti vengono infatti consegnati entro 24 ore contro i giorni o le settimane richieste da altri.

Però quando ho iniziato a conoscere Elisabetta non si parlava di automotive, non lavoravamo neppure per una azienda italiana.

Lei era in un periodo di pausa e di ricerca di nuove sfide, io seguendo il filo della sua telefonata e mi ero fatta portare via dal mio vecchio lavoro e così, dalla Sicilia, ero andata a respirare un po’ di quell’aria alpina che, si diceva, facesse tanto bene.

Lavorare con Elisabetta è stata per me una delle tante cose belle della mia vita.

In termini concreti potrei dire che da Elisabetta, durante quei giorni, ho imparato come gestire uno staff, come prendermene cura, come interessarmi alle persone, come fare le riunioni, come delegare, come fare in modo che le persone diano sempre il meglio e seguano le loro vere vocazioni…

In termini concettuali ho imparato la fiducia, la stima, il tempo dedicato e la comunicazione, la voglia di fare andare le cose per il meglio, il piacere di godere di quello che ho attorno.

Non esiste miglior insegnamento dell’esempio.

E anche di questo che parliamo quando ci sentiamo: “team bulding e licenziamento”.

Due argomenti apparentemente in contrasto tra loro che in lei diventano la caratura umana e l’esempio imprenditoriale.

Senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza bugie.

Una volta le ho chiesto: “come devo fare che tenere unita una squadra di persone che devono lavorare assieme?”

“Devi fidarti di loro, stimarle, dirglielo e pensarlo veramente”.

E, devo dire, che ha funzionato, perché quello che mi diceva aveva senso:

quando accettiamo le persone per quello che sono e ne vediamo il vero valore al di là delle nostre fantasticherie ed aspettative, capiamo che per fare un buon lavoro non dobbiamo cambiare chi ci sta attorno ma cambiare la nostra prospettiva.

Ovviamente può capitare che le persone non ci piacciano, ci facciano antipatia perché, magari, ci ricordano il compagno antipatico delle elementari, ma questo non ha a che fare con il lavoro che svolge quella persona ma con noi.

È questo il dovere del Leader: guardare le persone e vederle come tali, non come quello che noi vorremmo che fossero.

Tutti quanti vorremmo un nostro clone a fare le cose al posto nostro, ma non abbiamo a che fare con automi bensì con persone che, spesso, sono spaventate dai nostri atteggiamenti e dalla nostra insicura aggressività e, per questo, non eseguono un lavoro nel migliore dei modi.

Quando invece diamo fiducia alla persona e glielo diciamo, quella non solo si sentirà più sicura ma avrà voglia di dimostrarci che la nostra fiducia è ben riposta.

Forse il punto di vista di Elisabetta sembrerà un po’ troppo filosofico ma quando si ha a che fare con le persone, è importante uscire dagli schemi meccanici e guardare gli aspetti umani.

Ma entriamo un po’ più nello specifico, qualcos’altro che possa essere riprodotto anche all’interno dello staff di persone con le quali interagiamo normalmente.

Il presupposto fondamentale è che le persone, per lavorare bene, devono stare bene.

Quindi, in ingresso, dobbiamo considerare che, se quella persona ci piace e desideriamo che lavori con noi, deve essere pagata, deve avere delle sicurezze e un piano di crescita all’interno dell’azienda e non deve pensare di star subendo delle ingiustizie.

Sappiamo benissimo che, al di là delle belle parole dette da tanti, questo non è affatto un presupposto scontato.

Una volta definita questa base andiamo a vedere come Elisabetta si occupa di gestire il fattore umano all’interno dell’azienda e costruire così di una squadra.

Lei lo sa (e si comporta di conseguenza) che le persone che lavorano sono fondamentali per il buon esito dell’azienda.

Lei sa (anche se spesso le dispiace) che le persone non sono automi programmabili da lei, che ognuno ha il proprio carattere e le proprie vite.

Più persone lavorano all’interno dell’azienda, più saranno i caratteri diversi, in conflitto e le possibili antipatie.

Questa è una cosa da evitare e può essere fatto con la condivisione di un obiettivo.

La prima cosa che trasmette è che non bisogna temere se “l’ultimo arrivato” viene ad imparare il “tuo lavoro” perché chi apparentemente ti toglie lavoro, ti da al possibilità di crescere, di fare altro.

La paura che prende tutti quando arriva qualcuno a fare il nostro lavoro che rischiamo diventare inutili ma non vediamo che con più tempo a disposizione possiamo dedicarci ad incarichi e percorsi molto più gratificanti.

Dobbiamo accettare, per crescere, che tutti sanno fare il nostro lavoro meglio di noi.

È un concetto difficile da accettare ma è la strada per poter fare sempre meglio.

Team building è anche questo: permettere all’altra persona di farci crescere.

Spiega sempre Elisabetta e probabilmente è la strada giusta se Motivexlab, viene definita dai giornali la “piccola Google”.

Un’altra delle cose che hanno reso famosa l’azienda è il fatto che al suo interno ci sia una piccola palestra a disposizione dei dipendenti.

Il fatto di poter fare dell’attività fisica, oltre a tutti i vantaggi noti (abbassamento dello stress, aumento del benessere fisico, produzione di serotonina, ovvero del buon umore, la crescita dello spirito di squadra…), porta un altro vantaggio più sottile profondo e umano: improvvisamente il luogo di lavoro non è più il posto in cui il dipendente si sente “spremuto” per poter portare soldi al “datore di lavoro sfruttatore”, ma diventa il luogo in cui il tuo datore di lavoro ti permette di stare bene per poter dare il meglio di te.

E l’attiva età fisica non è l’unica delle attenzioni legate al benessere.

Mens sana in corpore sano scriveva Giovenale e, infatti, oltre a fare attività fisica, in azienda, si legge pure.

Ogni mattina, a Torino, prima di iniziare a lavorare, viene fatta una riunione alla quale partecipano tutti i dipendenti dell’azienda, si condividono successi e obiettivi, si pianifica la giornata lavorativa e si leggono dei brani di libri utili per indicare l’obiettivo comune del gruppo.

Da un po’ di tempo, c’è da dire, il momento della lettura del mattino ha assunto una conformazione vagamente campanilistica: in azienda si legge “Tutto e Subito” di Elisabetta Ruffino e Paolo Pollacino, è la storia di Motivexlab, di come è nata e come ha fatto a diventare quello che è.

Una squadra, per essere tale, ha bisogno di condividere uno scopo e questo non può essere solamente un valore economico o un oggetto.

L’obiettivo è quello di “salvare il mondo” come diciamo ogni tanto, scherzando ma non troppo, con Elisabetta.

L’obiettivo è cambiare la vita delle persone, cambiarla in meglio e ogni volta che uno dei suoi dipendenti lavora, pensa a questo: fare qualcosa di buono per sé e per gli altri.

Per Elisabetta e Paolo, fare impresa oggi in Italia vuol dire cambiare la vita a un piccolo numero di persone che entrano in contatto con loro e ne escono più simili a loro stesse.

E il licenziamento?

Il licenziamento, non ci si pensa mai, ha a che fare con l’identità della persona.

L’identità più profonda, quella che ha a che fare con le proprie ambizioni personali e con i propri desideri.

Spesso con Elisabetta ci siamo trovate a parlare di questo argomento.

Licenziare una persona è, per il tipo di imprenditori come lei e Paolo, un momento difficile e di crisi umana.

E così il momento in cui si capisce che una persona all’interno dell’azienda non è al suo posto, si affronta il problema e si guarda l’aspetto umano.

Sì perché, alla fine il punto è proprio questo.

Non si parla di lavoratori universalmente capaci o incapaci, ma si persone che sono al proprio posto o meno in quel ruolo o in quell’azienda.

Spesso ci troviamo a fare lavori che in realtà non ci piacciono, che non hanno a che fare con noi, li facciamo solo per accontentare mamma e papà, i coniugi e gli amici.

Spesso accettiamo un lavoro solo per la busta paga.

Ma tutti questi non sono ragioni valide per il nostro Essere, per la nostra Identità.

Un lavoro che non vogliamo fare ci logora e non viene bene come dovrebbe.

Ogni giorno diventa pesante e vedere i colleghi una tortura.

Ogni notte è insonne perché vediamo i nostri sogni allontanarsi.

Ovviamente alle persone arriva solo l’ultima parte: un lavoratore che non svolge bene il suo incarico oppure un lavoro odioso e annichilente.

In realtà c’è un aspetto umano molto più profondo.

E l’aspetto umano della filosofia aziendale e professionale di Motivexlab è l’attenzione per la persona prima che per l’incarico che ricopre.

In tanti fanno questa riflessione, di Elisabetta e Paolo a me piace che loro lo fanno per davvero.

Il momento del licenziamento non è un momento di fallimento del datore di lavoro e dell’impiegato.

Il momento del licenziamento è un momento di scoperta della propria vocazione per il dipendente e di sostegno per l’azienda.

Tante volte Elisabetta mi ha raccontato storie belle di dipendenti andati via per inserire un ipotetico sogno e poi tornare in azienda (dove vengono riaccolti a braccia aperte), di dipendenti che vanno via perché desiderano mettersi in proprio o seguire altri sogni, oppure di ex dipendenti aiutati da loro a reinvestirsi in altre aziende.

Storie belle di una Italia che fa impresa in modo bello, umano, storie che ci dicono che esistono aziende in cui è bello lavorare e persone che pensano ancora che è bello  (anche se difficilissimo) lavorare in squadra.

Apparentemente sembrano poche ma mi riservo di raccontare altre belle storie come questa.

Storie che raccontano di aziende che non annichiliscono ma arricchiscono.

Esempi veri di una speranza ben riposta.

 


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Riferimenti.

È possibile avere ulteriori informazioni su Elisabetta Ruffino e Paolo Pollacino a questi link

www.motivexlab.com

https://www.amazon.it/Tutto-subito-Paolo-Pollacino/dp/B071S6RKZC