Sperimentiamo! Dirigente Professori ed alunni per scrivere in modo creativo.

Credo che nella scuola di oggi il docente sia sottoposto ad una sfida principale, riuscire a creare quell’indissolubile connubio tra la teoria e la pratica. E’ un dato di fatto che i libri siano la pietra miliare sul quale e dal quale iniziare, ma consegnare al discente gli strumenti per mettersi in gioco rappresenta il tangibile confronto.

In questo processo di ricerca tra le varie metodologie utilizzate dai docenti per far fronte a questo processo è balzato davanti ai miei occhi un progetto sperimentale di scrittura, successivamente sfociato con la pubblicazione di un libro di fiabe e favole a cura dei Currenti Calamo- gruppo editoriale CCEditore.

I protagonisti sono giovanissimi alunni.

Sebbene il mio ruolo debba essere quello di accurato imparziale ascolto, ciò che mi ha colpito e che voglio rilevare, nell’intervista successivamente riportata, è la preparazione e la dedizione per il loro lavoro di due dei protagonisti di questa vicenda: il preside Giorgio Foti e la professoressa Monica Cerrina, ma tutto il progetto è stato realizzato con l’importante supporto di Giancarlo Motta, Marco Strati e Francesca Doni.

Ciò che mi entusiasma di un’ intervista è il modo in cui gli intervistati, in tutta spontaneità mi espongono; si tratta di semplici nessi essenzialmente considerevoli, è il caso di una connessione effettuato dal preside Giorgio Foti che da musicologo e da eccellente insegnante di musica afferma:

“John Cage era un musicista sperimentalista, in una delle sue esibizioni realizzò un concerto di venti minuti in cui schiacciava un si bemolle. Un ragazzino di una primaria sarebbe anche in grado di farlo. L’elemento di fondo è la consapevolezza, è quello che distingue il prodotto dall’opera d’arte. D’accordo sull’opera d’arte ma lavoriamo prima sul prodotto; questo implica un processo in cui i docenti devono mettere in campo tutte le loro capacità e io non posso che ammettere di avere questi docenti.”

Da qui inizia il nostro viaggio all’interno della scrittura creativa …

SAIA: Sappiamo bene che la scrittura creativa, in maniera differente rispetto ad altre forme di stesura, deve possedere quel quid in più affinché il manoscritto possa essere considerato un’opera letteraria. Stando a ciò qual è stato il punto di partenza che ha orientato alla realizzazione di un libro di favole e fiabe a cura di giovanissimi narratori?

CERRINA: il punto di partenza per me sono stati semplicemente i bambini, sono loro l’effettivo inizio. La possibilità di dar loro un percorso che serva da stimolo affinché siano accompagnati in un processo di cognizione.  Questo progetto è stato, per loro, ma anche per noi docenti, una vera e propria scoperta. Bisogna permettere ai bambini di poter esprimere la loro creatività, in tette le sfumature, per trovarsi di fronte a delle menti particolarmente ingegnose.

SAIA: Partendo da semplici discussioni in classe, i discenti si sono cimentati nella stesura di piccoli scritti, che hanno poi condotto alla realizzazione di elaborati personali. Attraverso un’accurata analisi potremmo definire questa metodologia da voi impiegata intrisa di innovazione in campo scolastico perché  tesa alla fusione non solo di basi teoriche quanto piuttosto pratiche. Proprio per questo porgo questa domanda: come hanno reagito  gli studenti?

CERRINA: devo ammettere che hanno reagito molto bene. La scuola primaria a volte può correre il rischio di cadere nella banalità, ci si rifà al sussidiario, al libro di lettura, credo che il riuscire a distaccarsi  dall’ordinario sia la vera sfida che il docente deve porsi. Mettersi attorno ad un tavolo: creare, smontare fiabe tradizionali, per altro non solo italiane, costruirle, rivisitarle è diventato motivo di forte interesse per i nostri giovanissimi discenti. Al di la del prodotto è questa la grande soddisfazione per il docente: partire da zero e vedere i propri alunni mettersi in gioco con quella voglia di apprendere e quella semplicità nel farlo che è tipica dei bambini.

FOTI:  in un percorso complesso, come quello appunto della creatività, che implica un approccio alla cognitività, alla relazionalità e soprattutto alla motivazione è lì che si riconosce  l’importanza del ruolo che il docente deve avere.  In questo caso l’importanza dell’educatore riveste un ruolo fondamentale, tutt’al più nell’essere capace di guidare il bambino nelle difficoltose strade della creatività.

SAIA: Per migliorare la scrittura di romanzi e racconti bisogna avere costanza, scrivere regolarmente, leggere moltissimo, conoscere e studiare le tecniche narrative, smontare e rimontare testi di altri scrittori. Questi giovanissimi studente hanno dimostrato di saperlo fare. Crede che questo progetto possa evolversi su tutto il territorio? Se è si come?

FOTI: le scuole non sono più considerate come istituti singoli ma scuole di rete e quindi noi pensiamo che questo progetto possa avere una maggiore risonanza  su tutto il territorio proprio perché è una necessità tanto da un punto di vista prettamente esperienziale quanto di reale confronto che implica uno scambio culturale autentico ed incessante.

SAIA: Alla fine delle mie interviste riservo sempre un ultimo invito ai ringraziamenti finali.

FOTI: non voglio essere convenzionale in questi ringraziamenti quanto piuttosto spontaneo: alla casa editrice, Currenti Calamo- gruppo editoriale CCEditore, per aver creduto in questo progetto; ci tengo a precisare che si crede ad un progetto quando il medesimo è attendibile, ma per essere attendibile il progetto  lo devono essere anche i docenti, ed io non posso che ringraziare tutto il corpo docente per la passione e l’ etica che li contraddistingue.

CERRINA: dobbiamo anche ringraziare l’Università Bicocca per la collaborazione, infatti in questo progetto è stata inserita una tirocinante appartenente alla nota Università che ha dato un notevole contributo a questa realizzazione.

 




Tutto il mio folle amore

Tutto il mio amore folle, l’ultimo film di Gabriele Salvatores è la coraggiosa ed intensa versione cinematografica del libro di Fulvio Ervas. La storia è quella di un padre con un figlio autistico, un ragazzo stupendo nella realtà e nella finzione cinematografica.

Nel libro, padre e figlio attraversano insieme l’America, in un viaggio in moto durato tre mesi.

Nel film, padre e figlio attraversano i Balcani in un viaggio a cavallo, a piedi, in pick-up, ed infine in moto.

Ma il filo conduttore della storia romanzata o cinematografica è la difesa del cuore e dell’istinto. Tutto il film è un “racconto dell’istinto” e naturalmente dell’amore. L’amore, all’inizio, non riesce ad uscire dall’anima dei personaggi, ma poi fluisce libero.

Willi, il padre interpretato da Claudio Santamaria e Vincent, il figlio, magistralmente interpretato dal giovane Giulio Pranno, riescono a comunicare grazie al loro amore primordiale e folle.

Ma anche, Elena, la madre (Valeria Golino) e Mario (Diego Abantatuono) marito di Elena e padre adottivo di Vincent, riescono finalmente a comunicare, oltre la malattia del figlio. Proprio loro, che la malattia di Vincent l’hanno sempre affrontata con timore misto a rassegnazione, lui rifugiandosi nella letteratura e lei nell’acqua di una piscina, quasi alla ricerca di un liquido amniotico in cui sentirsi protetta ed essere ancora figlia e non ancora madre.

Il regista, sin dall’inizio, prende di petto il disturbo mentale, senza buonismi. Gabriele Salvatores, infatti non nega gli aspetti “disturbanti” e imbarazzanti dell’autismo. La prima scena, quella in cui, per dispetto il ragazzo evacua sotto la doccia e ci gioca per dipingere i vetri, è un pugno allo stomaco.

E, noi spettatori, capiamo subito che con un ragazzo autistico non serve tentare di comunicare in modo razionale.

Vincent si calma solo quando arriva Mario che ha imparato a volergli bene e che glielo dimostra raccontandogli delle storie visionarie…

Ma procediamo con calma. La storia è quella di Vincent, un ragazzo autistico che vive a Trieste con la madre Elena e con Mario, il marito che però non è il padre naturale del ragazzo.

Mentre la madre è incapace di reggere la malattia del figlio, Mario ha imparato a voler bene al ragazzo, decifrando il suo strano modo di comunicare.

La loro vita è però in equilibrio precario. E’ la vita di una famiglia straricca, che pur con tutte le possibilità economiche non è riuscita a gestire e digerire la malattia del ragazzo.

Anzi una vita che, nonostante villa, piscina e maneggio, sta implodendo, avviluppandosi sempre più sulla malattia del figlio Vincent.

All’improvviso, una notte, arriva Willy (Claudio Santamaria), e qui la situazione esplode.

Willy è il padre naturale del ragazzo, che ha abbandonato Elena quando era incinta.

Willy è sempre stato un padre latitante, che ha avuto paura del suo ruolo genitoriale ed ha sfogato i suoi sensi di colpa nell’alcool.

Non sa niente del ragazzo, men che meno della sua malattia, ma la canzone che, a suo tempo aveva dedicato ad Elena, lo richiama al suo ruolo.

Allo stesso modo, Elena, ragazza madre abbandonata, che aveva deciso di non abortire ed aveva dato al figlio il nome della canzone (sulle cui note si era innamorata di Willy), si risveglia al suo ruolo di madre, risentendo e poi cantando quella canzone.

E sono proprio le note della canzone di Don McLean che riuniranno questi due genitori naturali, accomunati da un figlio malato, ma anche da una vena di pazzia, come il loro folle amore.

Del resto, sono le note di questa canzone che diventano la colonna sonora del film. Il musicista aveva dedicato il brano “Vincent” al pittore Vincent Van Gogh.

E l’amore e la follia ritornano nel film “Tutto il mio folle amore”.

“Vincent”, il brano musicale di Don Mc Lean, parlava del quadro “Notte stellata” di Van Gogh, e nel dipinto le stelle erano grandi, e più che stelle sembravano luci.

Ma anche il film di Gabriele Salvatores, è giocato sulla rivelazione del personaggio attraverso le luci.

Sono luci quelle dei lumi di carta di una gara di ballo, in cui Vincent s’ innamora per la prima volta di una ragazzina. Sono luci quelle delle lampadine di una festa di matrimonio in cui Vincent subisce una traumatica iniziazione sessuale.

E sono luci blu quelle di un locale di lap dance, dove Vincent scopre il richiamo di una donna.

E qui esplode il valore del film e l’abilità del regista. L’iniziale baratto di un orologio di valore per ottenere la prestazione sessuale, si converte nella scena della delicatezza dell’amore atavico del ragazzo e della ballerina sul pick-up.

Scena di amore sbocciato, di affetto condiviso e di sesso suggerito.

Come detto all’inzio, magistrale è l’interpretazione del giovane attore Giulio Pranno, coadiuvato da un ottimo cast.  Ma notevoli sono anche la fotografia di Italo Petriccione, la scenografia di Rita Rabassini, la sceneggiatura di Umberto Contarello e Sara Mosetti, il montaggio di Massimo Fiocchi, nonché le musiche di Mauro Pagani.

E sempre per continuare nel gioco della sinestesia dei linguaggi musicale, pittorico e cinematografico, in nome di Vincent canzone, il Vincent ragazzo folle ed un po’ visionario, accenderà le luci nella coscienza-consapevolezza di tutti coloro che lo amano.

Sono infatti luci metaforiche quelle che si accendono dentro ai tre protagonisti adulti. Attraverso il folle viaggio nella vita e nella malattia di Vincent, Willy, si assumerà il coraggio di essere padre.

Elena si riconoscerà nella vena di follia del figlio, finalmente amato ed accolto come parte di sé. E Mario, il padre adottivo, amerà in modo sublime entrambi, moglie e figlio adottivo, lasciandoli infine liberi di rivelarsi l’un all’altra senza la sua mediazione contenitiva e di supporto per tutti e due.

Ed infine, mentre il ragazzo biondo sparge pezzetti di carta come fosse Pollicino, lo spettatore trova la strada di casa dopo l’esodo del viaggio, riconoscendo che “La felicità purtroppo non è un diritto, è un colpo di culo”, ed anche una vena di follia, diciamo noi spettatori, sposando la tesi del regista.

 

Antonella Ferrari




Rispetto dell’Ecosistema e lineamenti di ecosofia

Ecosofia – Intervento di Chiara Sparacio all’interno della “Conferenza Internazionale Prevenzione Emergenze”: Protezione Nazionale Boschi e Foreste – Riduzione del Global Warming ROMA, 25 Ottobre 2019 ore 15.30  e MILANO, 26 Ottobre 2019 ore 15.30

(leggi qui il comunicato stampa dell’evento: Conferenza Internazionale Prevenzione Emergenze: Protezione Nazionale Boschi e Foreste Riduzione del Global Warming)

Parlare di Ecosofia all’interno di una conferenza che parla di prevenzione delle Emergenze ambientali vuol dire guardare lo stesso argomento da un punto di vista differente.

È un po’ come quando si guarda un giardino da tante prospettive differenti: alcuni lo guardano dall’interno, altri si affacciano dalla casa di fonte, altri ancora confrontano guardando altri giardini vicini.

Il mio intervento è una finestrella un po’ più distante, aperta da una casetta a Tavertet, vicino Barcellona, una casetta in mezzo ai boschi, molto difficile da raggiungere che non è neppure mia ma di un uomo di nome Raimundo Panikkar.

chiara sparacio

Raimundo Panikkar è stato un uomo dal “multiforme ingegno” classificato come pensatore, scrittore, filosofo, professore e tanto altro ancora… è morto nel 2010 e ha lasciato una vastissima bibliografia.

Anche se il rischio è quello di semplificare troppo, potremmo dire che ha sviluppato il suo pensiero nel rapporto generativo tra gli uomini, la Terra e il senso del divino.

A questo proposito ha coniato il termine Cosmotheandrico: κόσμος, θεός, ἀνδρός (kosmos, theos, andros).

Panikkar ha ipotizzato una sorta di triangolo di relazione, senza vertice principale né basi fisse che, per funzionare, richiede la piena collaborazione e il completo scambio tra i tre vertici.

Questo vuol dire che l’uomo, per essere veramente sé stesso e vivere bene con sé e con gli altri, ha bisogno anche della relazione con la terra e l’ambiente.

Viceversa: l’ecosistema per sopravvivere, ha bisogno dell’uomo e di essere riconosciuto non solo come flora, come oggetto, ma anche come fenomeno (da φαίνω – faino– : manifestazione).

Il rapporto tra l’uomo, la terra e il sovrasensibile altrimenti indicato come Divino e il presupposto fondamentale di questo articolo.chiara sparacio

Tra i cardini del pensiero di Raimundo Panikkar c’è quella che lui aveva chiamato EcoSofia, ovvero una riflessione profonda sull’ambiente.

Tra i cardini del pensiero di Raimundo Panikkar l’EcoSofia, ovvero una riflessione profonda sull’ambiente.

Eco-sofia è una parola di etimologia greca composta da Eco (in greco οἶκος) e sofia (in greco σοφία).

Sofia non è solo sapienza, come la traduciamo concettualmente in epoca moderna, in realtà questo è l’ultimo dei suoi significati, prima ci sono l’abilità, la scienza, il senno

Οἶκος (oikos), che troviamo come suffisso di numerosissime parole: eco-logia, eco-sistema, eco-sfera, contrariamente a quanto possa sembrare per via della usura scriteriata delle parole, non indica semplicisticamente l’ambiente esterno ma vuol dire casa, abitazione, dimora…

Andando ancora più a fondo, è un luogo sacro: tempio, curia, stanza per gli atleti… (ricordiamo che, presso i greci, l’atleta era considerato un semidio).

Ecco quindi che il termine οἶκος riacquista in questa prospettiva una importanza cruciale per l’esistenza umana: non è solo un ambiente che viene abitato in modo passivo e che può essere sfruttato indiscriminatamente ma è un ambiente attivo che influisce sulla persona, formandola, arricchendola e migliorandola.

Ricordiamoci che ciò che è sacro, se toccato, rende sacri.

Ecco quindi che, mentre siamo qui a parlare di problemi ecologici, quello che dobbiamo avere chiaro è che, quando si parla di ecologia, si tocca una sfera sacrale.

Attenzione: con sacro non intendiamo il dio.

La radice del latino “sacrum” è di etimologia incerta, probabilmente ha a che fare con la radice indo europea sac-, sak-, sag –  che ha a che fare con l’attaccamento, l’avvinghiamento… che poi abbiamo riferito alla divinità ma sappiamo bene che il concetto di divinità non è propriamente universale nei suoi dettagli.

Per cercare di essere un po’ più universali potremmo dire che il divino ha a che fare con una realtà superiore rispetto quella umana comune, ma non sappiamo esattamente dove sia geograficamente dislocata questa parte. 

Non stiamo parlando di religioni o spiritualità o di qualunque cosa possa apparirci come distante da noi e messa chissà dove ma di aspetti profondi dell’anima.

Eco-logia, dicevamo. 

Loghia ha che fare con il λόγος che tende a segnare la dimensione pratica dell’esperienza.

Logos non la semplice parola astratta, come si può pensare, ma la parola concreta, quella che crea: “in principio era il logos”

L’ecologia moderna, affronta i problemi dello sfruttamento della terra e si sforza di combatterli.

Ma non dobbiamo farci prendere né dalla foga delle parole né dalla foga delle idee.

Fare dell’attivismo ambientale oggi, con il vocabolario che abbiamo a disposizione ci fa correre il rischio di non capire bene cosa facciamo, di scappare dalla realtà che c’è dietro, di non scoprire l’origine del problema.

Abbiamo detto poco fa che Panikkar, nello sviluppo del suo pensiero ha creato una sorta di triangolo di relazione: uomo, natura, sovrasensibile.

Ecco: quando Raimundo Panikkar parla di ecosofia, sposta l’uomo dal vertice della gerarchia terrestre e lo pone sulla terra insegnandogli che non esiste un triangolo di gerarchia ma di relazione: 

“l’ecosofia adempie una funzione rivelatrice. Ci rivela che la terra – come noi stessi – è limitata, finita e che abbiamo con lei dei legami stretti, dei legami costitutivi e quindi reciproci. (cit.R. Panikkar)

Per sperimentare l’ecosofia, per avere coscienza della terra, dobbiamo prima avere coscienza di noi stessi.

Per capire la saggezza della terra dobbiamo prendere coscienza del nostro sé e scoprire che non è una cosa differente e separata da ciò che ci circonda: 

“una coltivazione di me stesso che non sia anche coltura della natura […] non è coltura dell’uomo”.  (cit.R. Panikkar)

Panikkar, occidentale per parte di madre spagnola e orientale per parte di padre indiano, amava osservare differenze e punti di contatto tra la cultura occidentale e la cultura orientale.

Egli sottolinea come la “cultura occidentale” esaspera una cultura della contrapposizione piuttosto che della mediazione e, in un certo senso, della contaminazione e dell’arricchimento.

Questo perché voler separare nettamente ogni cosa dall’altra, anche se condividono la stessa natura, comporta la tragica creazione di realtà separate e inconciliabili. 

La conseguenza inevitabile di questa impostazione culturale è stata ed è l’allontanamento dell’uomo dalla natura.

Quando l’uomo non si sente parte completante e complementare della natura, allora ne prende le distanze e genera un rapporto di passività o dominio.

È chiaro che una relazione di questo tipo causa disagio e il prezzo sono le calamità ecologiche: le piogge acide, l’inquinamento che oscura il cielo sottrae giorni di sole, i cedimenti del terreno, l’estinzione di molte specie animali e vegetali, le malattie del feto e le alterazioni genetiche.

Ma conferenze come quella a cui stiamo partecipando oggi, le parole che ci stiamo dicendo e stiamo ascoltando, tutte le mobilitazioni di questo tipo che stiamo vedendo agire in questi mesi, sono i segni di come l’uomo si sia accorto del ritorno del boomerang lanciato e voglia trovare una soluzione.

Pare che l’uomo stia capendo che, sempre come dice Panikkar, “l’uomo è terra, ma la terra è anche noi”.⁠5 

Alla luce di tutto questo, quindi l’ecosofia, diventa il dialogo con la terra.

Prima della cultura capitalistica (o, come usa dire Panikkar, prima della cultura monetocratica) il rapporto cosmotheandrico era chiarissimo: l’uomo si rivolgeva al dio tramite la natura, offrendo sacrifici. 

Questo accadeva perché la percezione che queste tre verità – la terra, il Dio e l’uomo – erano in completa relazione e partecipazione era vivissima.

Purtroppo la monetocrazia, l’idolatria del denaro, ha sbilanciato questo equilibrio.

L’ecosofia vuole ristabilire il rapporto triadico tra Dio, l’uomo e la natura e questo può avvenire solo dal nuovo ascolto di sé stessi e dall’accettazione del nuovo rapporto con la natura; nuovo non perché non è mai stato sperimentato dall’uomo (tutt’altro) ma perché non è stato ancora sperimentato dall’uomo moderno.

Il nostro atteggiamento deve essere quello del dialogo sincero che intercorre tra chi non intende prevaricare sull’altro ma cerca uno scambio reciproco e sincero: 

“se ascoltiamo, la terra stessa può rivelare […] la volontà di Dio riguardo al compito dell’uomo su questo pianeta. […] se non avviene un vero incontro religioso (religioso ovvero che crei un legame: religere) tra noi e la terra, finiremo per annichilire la vita sulla stessa terra”. (cit.R. Panikkar)

 

Sito dell’ente organizzatore: www.itpc-commission.org

Dichiarazione alberi patrimonio dell’umanità https://www.itpc-commission.org/dichiarazione-globale-alberi-patrimonio-dell-umanita/ firma anche tu