Mors tua, vita mea.

Mors tua, vita mea.

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici irresponsabili e, amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia.

Sembra quasi che l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù, ma una legittima opinione.

Quante volte, discutendo, abbiamo detto: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?

Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo.

Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema.

Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo.

Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico.

Se uno non ha un nemico, non riesce a caratterizzare sé stesso.

Secondo il noto psichiatra Vittorio Andreoli, stiamo vivendo un periodo di regressione antropologica, un’epoca in cui si agisce in base alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici.

Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.

E’ considerare l’altro inferiore, perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo.

Se uno è diverso da te, è un nemico, e va combattuto. Si torna a fare la guerra, perché il diverso è un nemico. Il nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera.

E, così come c’è una gerarchia dei potenti, così c’è anche una gerarchia delle razze.

Perché sono presi di mira solo alcuni. Anche se, paradossalmente, il razzismo unisce.

Il razzismo non esclude nessuno. Il razzismo e i pregiudizi sono universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni.

E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio.

Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia, ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto.

Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più?

Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata, ma non vissuta. L’Italia è un Paese che, come tutto l’Occidente, sta regredendo alla irrazionalità, all’uomo pulsionale.

” Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.”, così si esprime Vittorio Andreoli. “Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che, all’origine, c’è sempre una esclusione. E’terribile, stiamo diventando un popolo incivile”, così continua il noto psichiatra.

Secondo lui, nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali. “Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”.

Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza”.

Di fronte a questa disamina, tanto negativa quanto realista, della nostra società, un unico consiglio, da parte di Vittorio Andreoli.

“Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa.  Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti”.

Infine, riguardo al formarsi del pregiudizio nella mente delle persone, lo psichiatra ci avverte: “L’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti”. Secondo lui,” quando gli individui nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo”.

Purtroppo, oggi, sui social, non si nasconde più il proprio pensiero. lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano sempre più violente e l’espressione dei pregiudizi, magari formulati anche in modo razionale, serve solo a rafforzare l’ego di chi parla.

Tristemente vero.

Ed ancora più grave. Perché, un tempo, se un individuo pieno di false credenze e di pregiudizi razziali stava zitto in pubblico, e si esprimeva solo a casa, agiva male in famiglia, o con un gruppo ristretto di interlocutori.

Adesso, diventa un’azione diffusa, per gli individui al tempo dei social, parlare a vanvera. Anche da casa, incollati allo schermo e alla tastiera di un computer. E’ normale, tribalmente normale, sfogare le proprie pulsioni, trasformarle in vera e propria propaganda politica, e concorrere al degrado sociale. Per tornare tutti insieme, appassionatamente, al “mors tua, vita mea”…

 

Antonella Ferrari



PROFESSIONE DOCENTE: MISSION IMPOSSIBLE!

La professione del docente non è cosa da tutti, ma è percepita come se lo fosse.

L’altro giorno una mia collega giovanissima mi ha detto che non intendeva partecipare ai consigli di classe perché ha un altro lavoro ed è a scuola per una supplenza, che spera comunque breve, ma intanto qualcosa si guadagna.

Il professore è quindi un mestiere ricettacolo, nel quale ognuno, proveniente da esperienze diversissime, ma in possesso di una laurea in una qualche materia, si sente capace di cimentarsi.

Nessuno però dice che il mestiere dell’insegnante è faticoso, forse perché la vulgata è che i professori non facciano niente, scaldino i banchi, siano insoddisfatti e rancorosi e godano di ferie infinite, insomma che non guadagnino la pagnotta.

Eppure ai colloqui raccogliamo genitori in lacrime, che chiedono consulenze sulla gestione dei figli, perché questi ultimi trovano nella scuola, nei docenti e nei compagni un punto di riferimento, ascoltiamo lamentele, pettegolezzi, reprimende, perché il genitore ha necessità di comunicarti tutto ciò che concerne il figlio, fin nei minimi particolari.

Quindi dobbiamo essere un po’ psicologi? Si anche.

Ma non è finita, perché al varco ci aspetta la burocrazia, con quantità enormi di documenti da compilare, PDP, PEI, Programmazioni per competenze, programmazioni di classe e infine la vera parte didattica che comprende il saper veicolare la materia nel modo più comprensibile possibile, perché in classe abbiamo mediamente due o più stranieri appena arrivati, qualche ragazzo con disturbi dell’apprendimento, qualche ragazzo che non riesce proprio a concentrarsi e allora ci dobbiamo anche improvvisare attori.

Le verifiche? Devono essere oggettive , inattaccabili con punteggio chiaro e definito, scritte e stampate con carattere leggibile, ma soprattutto diverse, per i ragazzi stranieri, per quelli con difficoltà di apprendimento, che sono diverse tra loro, insomma da una verifica ne spuntano magicamente 8 o 9 diverse.

Estenuanti collegi docenti nei quali si deve decidere tutto perché tutto deve essere rintracciabile e sancito dal collegio: progetti, iniziative, attività; poi il lavoro che riguarda l’organizzazione delle uscite didattiche, delle gite scolastiche, le riunioni per materia, la correzione delle verifiche e qui mi fermo per pietà.

Una però è la cosa tra tutte che rende questo mestiere non accessibile a tutti indiscriminatamente: il cuore, perché ci vuole cuore per capire che questi ragazzi hanno bisogno di noi per crescere e imparare, ci vuole cuore per avere pazienza e passione e equilibrio.

 

Paola Delibra

 




SCI, SCI, SCI…

 

Ho iniziato a sciare quando avevo una decina d’anni grazie alle settimane bianche organizzate dalla scuola che frequentavo, la Laura Sanvitale di Parma.

Da lì, quello con lo sci, è sempre stato  un rapporto particolare: da un lato mi è sempre piaciuto perché sciare, come giocare a Golf, è una di quelle poche discipline nelle quali esiste una pratica non agonistica che consente comunque una buon livello di divertimento e competizione, dall’altro ho sempre avuto paura di eventuali infortuni e, va da se, che la paura di qualcosa è forse peggio dell’eventualità negativa stessa.

Sono andato con regolarità in montagna nelle occasioni dove c’era un gruppo che mi coinvolgeva; prima il mio vicino di casa Rocco e poi il mio amico Pimpi, che si è recentemente stupito delle mie capacità dopo qualche anno d’inattività.

A dire il vero non sono mai stato un bravo sciatore, mi limito a scendere le piste abbastanza lentamente con una certa regolarità e pochissime cadute (questa sulla fiducia NdR).

Di recente sono stato a Skipass, la principale fiera di settore in Italia, che si svolge alle Fiere di Modena. Grazie all’amico e Delegato del CONI Point di Modena, Andrea Dondi, ho potuto conoscere i presidenti, regionale e nazionale, della FISI (Federazione Italiana Sport Invernali).

Da subito sono risultati evidenti la passione e l’impegno che stanno mettendo nelle loro iniziative.

Poi, nella sala principale, è stato spettacolare vedere proiettati i video delle vittorie di due Medaglie d’Oro Olimpiche, quelle di Sofia Goggia e Michela Moioli, rispettivamente nella discesa libera e nello snowboard cross e rivivere i quei momenti che ci avevano incollato alla televisione, con le vincitrici sedute davanti.

L’Italia, anche grazie alla natura che ci ha regalato delle splendide montagne, ha  spesso ottenuto buoni risultati nelle discipline invernali ma ogni vittoria, sopratutto alle Olimpiadi, ha una storia dietro che è qualcosa di speciale e impareggiabile.

A tal proposito, invito ad andare sul sito del CIO per vedere il video dedicato a Michela Moioli che parte dalla rovinosa caduta nella finale di Sochi alla vetta olimpica di PeyongChang.

Il video di Michela mi ha emozionato anche perché, nel mio piccolo, dall’infortunio che avevo avuto nel 2008 al professionismo nel 2010 ho vissuto tante di quelle sensazioni.

Tuttavia ciò che mi ha impressionato di più nella fiera, da Dirigente, è stato quando ho scoperto maggiormente i dettagli del progetto Cortina 2021.

Cortina nel 2021 ospiterà i Campionati del Mondo di sci. È una delle grandi manifestazioni che si svolgeranno nel nostro Paese nel giro di pochissimi anni.

Solo per citarne alcune abbiamo già visto nel 2018 i Mondiali di Pallavolo, nel 2019 ci sono i Campionati Europei di Calcio Under21 e le Universiadi a Napoli, nel 2020 la partita inaugurale degli Europei di Calcio assoluti e nel 2022 la Ryder Cup di Golf.

Questa è l’Italia che mi piace, quella che accetta le sfide e si prepara al meglio non solo per competervi ma anche per vincerle, partendo dall’organizzazione.

Dal mio punto di vista, le dolomiti di Cortina si stanno preparando nel migliore dei modi per meravigliare quei 500 milioni di persone che di solito guardano le grandi manifestazioni sciistiche in televisione, oltre ai titolari dei più di 150.000 biglietti che saranno venduti per chi vorrà godersi lo spettacolo dal vivo.

Mezzo miliardo di persone potranno, non solo supportare i loro beniamini che sceglieranno tra i circa 600 atleti ed atlete in campo, che si daranno battaglia nei giorni di gara, ma potranno anche ammirare gli impianti, i paesaggi unici che le nostre montagne regalano e, magari, essere invogliati a venire in Italia per le loro prossime vacanze.

Entrando più nello specifico del progetto si evince quanto questo punti su concetti che credo siano fondamentali per lo sviluppo non solo dello sci ma dello Sport in generale.

Uno su tutti è quello delle infrastrutture “L’obiettivo è investire (e favorirei investimenti pubblici e privati) solo su infrastrutture plurifunzionali, che potranno essere utilizzate per un lungo periodo…”.

Nel nostro Paese la maggiore criticità in campo sportivo è quella infrastrutturale.

Oltre ad essere un aspetto critico è anche la maggiore opportunità di crescita che ci troviamo davanti e ogni investimento in tal senso è apprezzabile, a maggior ragione se questo è pensato e realizzato con una visione progettuale di lungo termine.

Il Campionato del Mondo di Sci non sarà un evento “spot” ma il culmine di una serie, che vedrà quasi 30 gare internazionali e le finali della Coppa del Mondo nel 2020.

Questo permetterà anche allo staff organizzativo di testarsi e migliorarsi in previsione del grande evento.

La scorsa estate sono stato a Kazan, in Russia, dove hanno fatto un percorso simile anche se non incentrato su una singola disciplina ma sugli eventi sportivi in generale.

Giusto per elencarne alcuni, hanno ospitato le Universiadi nel 2013, i Campionati del Mondo di Nuoto nel 2015, la Confederations Cup lo scorso anno e i Mondiali di Calcio 2018.

Ho avuto modo di toccare con mano quanto siano importanti infrastrutture plurifunzionali e di alto livello così come la preparazione dei vari comitati organizzatori che, evento dopo evento, riescono a migliorarsi.

Un ulteriore aspetto meritorio dei Campionati del Mondo di Sci a Cortina è la comunicazione.

Già nel 2018, ma il lavoro è sicuramente iniziato molto prima, negli eventi e via social, una campagna per la ricerca di volontari per i giorni della manifestazione e sopratutto nei mesi invernali non si contano le occasioni promozionali che vengono organizzate per coinvolgere ogni fascia di persone che possono avere interesse, o come va di moda dire, ogni tipo di stakeholders, dell’evento.

Sono sicuro sarà un successo per l’organizzazione, per il mondo dello sci, per lo sport ma, soprattutto, per il nostro di Paese!  

 




Scrivere per crescere

Beppe Severgnini, grazie!

E’ un’eterna lotta, contro il tempo e contro la moda dilagante, quella di convincere gli alunni a scrivere bene e a mano.

Ogni anno, nei primi giorni di scuola (e mi riferisco alle medie in cui insegno da parecchi anni), è tremendamente deprimente impostare la scrittura, ma ancor più la calligrafia, degli alunni.

Arrivano dalle elementari che scrivono poco e male, quasi sempre in stampatello.

Il corsivo è un optional, giusto per le grandi feste, ovvero, la ricerca o il compito in classe.

Ma non me la sento assolutamente di criticare i colleghi insegnanti delle elementari.

Siamo tutti sulla stessa barca, quella dell’addio alla scrittura, e dell’abbandono della calligrafia.

Oggi, leggendo quanto ha scritto Beppe Severgnini, a proposito del valore della scrittura e dell’importanza dello scrivere a mano, ho esultato di gusto.

Questa la sua opinione in proposito:” A scadenze regolari, qualcuno scopre che scrivere a mano è bello. Non si tratta di anziani tecnofobi o giovani eccentrici che rinunciano alla tastiera, ma di persone equilibrate, impegnate in campi diversi”.

Qualche giorno fa, il Corriere è tornato sul tema con Candida Morvillo che, riprendendo un’inchiesta di Medium Magazine, ha raccontato come diverse scuole e università Usa impongano agli studenti di prendere appunti manuali.

Invece, secondo Emanuele Trevi, la calligrafia è uno strumento intimo, quello che più si addice alla sfera personale: «un potente ansiolitico, innocuo e a basso costo».

Sull’effetto tranquillante dello scrivere a mano, non mi esprimo. Anzi, quando impongo ai miei alunni di scrivere sotto dettatura, in corsivo, di solito, si genera tensione in classe.

Ma adesso c’è un perché. E non è solo questione di pigrizia. Non solo per chi è appassionato di grafologia, ma per tutti, è evidente che scrivere a mano significa spogliarsi.

In generale, quando si impugna una penna e ci si accinge a scrivere, si prova la sensazione di mettersi a nudo. Aggredire lo spazio bianco significa aggredire la vita.

Tenere il rigo esprime stabilità ed equilibrio.

Lasciare o meno uno spazio tra lettere, parole, righe indica apertura o chiusura agli altri. Allargare o stringere il margine destro o sinistro manifesta slancio verso il futuro o attaccamento verso il passato… Il tratto rivela la personalità e la pressione sul foglio indica l’energia di un individuo.

E’ evidente, la scrittura è unica ed irripetibile, come ognuno di noi.

E cambia, a seconda delle emozioni che stiamo vivendo.

Fiorisce, si assesta, si trasforma come noi, ogni giorno, giorno dopo giorno.

E proprio perché, molti di noi intuiscono, empiricamente, quanto la grafia è rivelatrice, alcuni di noi hanno paura di quello che potrebbe saltar fuori.

A livello collettivo, poi, un po’ tutti proviamo un timore subliminale, di cui non ci rendiamo conto.  La paura di scoprirci e di renderci vulnerabili. La paura di armare l’altro con la conoscenza delle nostre debolezze o fragilità.

Ma, altrettanto inquietante, è l’uso nevrotico dello smartphone per prendere appunti. Prendere appunti con un telefonino, non è normale; è la spia di un disagio.

E il ricorso allo stampatello, soprattutto tra le nuove generazioni, non è pigrizia o ricerca di omologazione: è ansia.

Beppe Severgnini smaschera in pieno il disagio di chi teme la scrittura ed il disegno quando scrive:”La stessa ansia che ritroviamo quando proponiamo l’Intervista Disegnata, che ogni settimana chiude 7-Corriere.

La prima risposta, quasi sempre, è: «Non so disegnare!».

Allora Stefania Chiale, che cura quello spazio, pazientemente spiega: non cerchiamo virtuosismi, ma originalità e spontaneità; contano le idee e la fantasia, non l’abilità nel tratto.

Molti si lasciano convincere, e confessano d’aver trovato l’esperienza liberatoria. Ma qualcuno si ritira, e ammette: disegnare le mie convinzioni e le mie paure mi spaventa”.

E’ pazzesco!

Nell’epoca in cui, grazie o per colpa dei social, tutti, o quasi tutti, fanno a gara a spogliarsi. Nell’epoca in cui non ci sono più confini tra il pubblico ed il privato. Nell’epoca in cui ci si esibisce in senso fisico, e ci si scopre in senso traslato, non si vuole più scrivere a mano.

Perché si teme di essere scoperti.  E’chiaro! Molti tra noi non hanno paura di denudarsi emotivamente su Facebook, Instagram (o Tinder); ma si sentono vulnerabili se scrivono a mano o disegnano.

Ma, non c’è contraddizione. I social sono uno schermo, la rete è uno scudo: in qualche modo, pensiamo di poter nascondere quello che siamo e sentiamo davvero. Un biglietto scritto a mano o un disegno sono invece una confessione.

Anzi, uno spogliarello. Non tutti sono lì a guardare, ma qualcuno potrebbe intravedere qualcosa.

E forse, allora, non andremmo poi così fieri di quello che realmente siamo, spogliati di tutte le mille illusorie, estemporanee ed immaginifiche pseudo-realtà, virtuali.

Antonella Ferrari




3200 giovani: il senso del Trofeo CONI Kinder+Sport

Nel 2018, essendo membro della Giunta del Comitato Regionale Emilia Romagna del CONI ho avuto la possibilità di organizzare il Trofeo CONI Kinder+Sport, una sorta di mini olimpiade destinata ai ragazzi Under14, divisi in rappresentative regionali.

A partire dal titolo che unisce il nome del Comitato Olimpico a quello di una importante azienda come Kinder, si vede quanto possa essere utile e proficuo il collegamento tra marchi e Sport.

Nell’edizione 2018, giocata a Rimini, abbiamo visto in campo ben 3200 ragazzi e ragazze che si sono dati battaglia in 45 discipline che derivano da ben 35 Federazioni Sportive Nazionali e 10 Discipline Sportive Associate.

Due sono stati i giorni di gara ai quali se n’è aggiunto uno per la cerimonia di apertura.

Ci vorrebbe molto tempo e spazio per raccontare tutto quello che è stata questa esperienza, per cui mi limito a tre episodi significativi.

Il primo momento è la cerimonia di apertura che si è svolta giovedì 20 settembre nel parco Marecchia di Rimini, davanti al ponte Tiberio.

Il ponte Tiberio è un ponte di epoca romana ed è uno dei monumenti più importanti della provincia riminese.

Io avevo già iniziato a scrivere la mia tesi incentrata sulle evoluzioni del diritto e dello Sport nel tempo e, la prima cosa che ho pensato è che quel ponte, nei suoi duemila anni di storia, ha vissuto dalle Olimpiadi antiche a quelle moderne dei giorni nostri, tutta la parabola dello Sport cosi come lo conosciamo ed è stato emozionante.

Proprio li, seduto al mio posto nelle prime file del parterre allestito per l’occasione, ho visto passare davanti a me, uno ad uno, i 3200 ragazzi, con i circa 800 tecnici alla presenza di migliaia di appassionati e l’atmosfera è subito diventata magica.

Non ho ancora avuto la fortuna di partecipare ad una edizione dei Giochi Olimpici ma la sfilata inaugurale è uno di quei momenti di ritualità dello sport che collegano idealmente atleti da ogni parte del mondo e in ogni tempo.

Verso la fine della cerimonia, il presentatore ha fatto una domanda al Presidente del CONI, Giovanni Malagò il quale ha risposto con una sola parola “felice” e mi perdonerà se prendo in prestito questa sua risposta per definire in modo preciso e sintetico la sensazione che ha avvolto me e tutte le persone che erano li in quel momento.

Eravamo senza dubbio stanchi per aver  fatto le corse per giorni ad organizzare ed allestire i 45 campi di gara, per distribuire tutto il materiare e coordinare l’arrivo di tutti ma eravamo FELICI.

A conclusione della cerimonia c’è stato qualcosa di ancora più bello, l’inno nazionale accompagnato dai fuochi d’artificio che partivano dal ponte e che con i loro giochi di luce ci hanno permesso di vedere che su tutte le sponde si era assiepata una folla imponente di persone incuriosita dalla manifestazione.

Il secondo episodio è del giorno successivo.

Con alcuni delegati provinciali, Antonio Bonetti di Parma, Andrea Dondi di Modena e Stefano Galetti di Bologna, abbiamo fatto un giro di visite ad alcune discipline tra cui quelle della F.I.G.E.S.T. (Federazione Italiana Sport e Giochi Tradizionali) dove i ragazzi si stavano per dare battaglia nella competizione di Freccette, poi una prova veloce dell’Arrampicata e siamo arrivati nuovamente nel parco Marecchia che serviva come campo di gara per varie discipline.

Nel centro del parco avevano allestito una zona per l’Agility, disciplina collegata alla F.I.D.A.S.C. (Federazione Italiana Discipline Armi Sportive da Caccia) stava per iniziare la competizione.

Già era bellissimo vedere i ragazzi prepararsi e concentrarsi con il loro amici a quattro zampe quando il Comitato di gara ha distribuito una lettera a tutti i Partecipanti, di buon augurio per le competizioni, a firma del presidente nazionale della F.I.D.A.S.C.

Inutile dirvi quanto questo piccolo gesto abbia avuto successo tra i ragazzi, alcuni leggevano la lettera a voce alta per farla sentire anche ai loro partner a quattro zampe che, forse non potevano capirne il contenuto letterale, ma sicuramente avranno percepito la gioia e l’emozione dei ragazzi.

L’ultimo episodio arriva dalla terza ed ultima giornata, la seconda di gara, quando mi sono dedicato alle premiazioni.

Nella prima mattinata sono andato ad una disciplina che sinceramente non conoscevo molto e che mi ha stupito in modo estremamente positivo: la Palla Tamburello, dove sono stato accolto dal Vice Presidente nazionale, Flavio Ubiali.

Entrato nella palestra che ospitava la gara ho assistito agli ultimi punti della finale, estremamente combattuta, che mi ha coinvolto in un clima di tifo straordinario, rispettoso ma molto caloroso, che ha sostenuto le squadre impegnate a giocarsi la coppa in un tre contro tre alternato maschi/femmine ed incerto fino all’ultimo punto.

Che bella atmosfera!

Il tutto reso ancora più sportivamente bello quando uno dei ragazzi ha segnalato che un arbitro aveva sbagliato una valutazione a suo favore.

Un fatto che non dovrebbe essere un’eccezione, anche se purtroppo lo è, ma in questo caso ha contribuito ad affermare il vero senso dello Sport.




Italia paese maschilista…

Ancora mi viene da ridere (amaramente però!) quando ripenso ad uno storico sketch di Zelig.

Una brava ragazza, assetata di conoscenza e motivata nello studio, rivendicava il suo diritto a farsi spazio nella vita, studiando prima, e lavorando dopo, perché “una donna intelligente, arriva dove vuole “.

Immancabilmente, il padre, maschilista e fallocrate, la zittiva, deprimendola ed umiliandola.

La figlia, soggetto intellettivo, affamato di cultura e di libertà, era sempre più criticata, ridicolizzata, e tutta la sua persona si riduceva ad un mero oggetto sessuale.

Ogni sogno di affermazione meritocratica culturale si convertiva in “Le chiappe devi mostrare!”.

Parole profetiche, tristemente profetiche!

In Italia, le donne sono le più istruite e le meno occupate. Sempre, intendendo quelle che non mostrano il loro lato B in televisione o sui social!

Secondo i dati del World Economic Forum, siamo primi al mondo per iscrizioni di donne all’università, ultimi in Occidente per partecipazione femminile al mercato del lavoro. In altre parole: stiamo buttando via la componente più istruita della popolazione. E poi ci chiediamo perché non si cresce.

Word Economic Forum, nel suo annuale rapporto sul Global Gender Gap, ci segnala infatti che siamo il primo paese al mondo per numero di donne che si iscrivono a percorsi di formazione terziaria, dall’università in su.

Ma siamo 118esimi su 140 – peggiori in Europa, peggiori in Occidente – per partecipazione femminile alla vita economica del Paese.

E, come se non bastasse, siamo 126esimi per parità di trattamento economico.

Per chi non l’avesse capito, in Italia, le donne, quelle che “le chiappe non le mostrano…” fanno una brutta fine. O non lavorano, o sono sotto pagate. Nel dettaglio: per ogni cento maschi iscritti all’università, ci sono 136 donne.

Il percorso di studi è completato dal 17,4% delle donne, contro il 12,7% dei maschi. E sono ancora donne il 60% circa dei laureati con lode.

Le donne si laureano di più e meglio, insomma.

E non è una novità.

Ma quando inizia la ricerca di un posto di lavoro, viene il bello.

Non solo in Italia si assiste sempre più ad un’inflazione del titolo di studio, ma non c’è proprio lavoro.

E, ironia della sorte, su 10 persone che, scoraggiate, smettono di cercare lavoro, sei sono donne!

La disoccupazione femminile è di tre punti percentuali più alta di quella maschile ed il part time, molto spesso imposto, riguarda il 40% delle lavoratrici contro il 16% dei lavoratori!

Ed una donna che non lavora, o lavora poco e male, rinuncia al suo sacrosanto diritto alla maternità. Una donna che ha studiato, sognando cultura e libertà, non accetta di stare a casa, a fare figli, mantenuta dal marito!

E’così facile da capire! L’Italia è il paese occidentale con il più basso indice demografico.

Allora, un consiglio, ai nostri cervelloni politici. Nel Paese che cresce meno di tutto l’Occidente mettete come primo punto all’ordine del giorno di un consiglio dei ministri o di tutte le tavole rotonde la questione lavorativa femminile.

Forse, per far ripartire l’Italia, bisogna far lavorare le donne. Iniziamo a mettere al lavoro la parte più istruita della popolazione. Sono i numeri che parlano: secondo l’agenzia europea Eurofound il costo complessivo per l’Italia della sottoutilizzazione del capitale umano femminile è pari a 88 miliardi di euro, cioè al 5,7% del Pil, il 23% di tutta la ricchezza persa in Europa a causa della discriminazione di genere.

Mettiamo al lavoro le donne, garantiamo loro paghe e percorsi di carriera all’altezza di quelli dei loro colleghi maschi e, forse, possiamo combattere il calo demografico italiano. Anche in questo caso, sono i dati a dirlo.

In tutta Europa, è il secondo stipendio che permette alle famiglie di pensare di fare quel secondo figlio che garantirebbe la sostenibilità del nostro sistema sociale. Viceversa, un mondo del lavoro in cui se rimani incinta sei licenziata, o se ti va bene congelata a mansioni di basso livello, è il miglior incentivo alle culle vuote.

In Italia siamo indietro culturalmente, cioè, convinti del contrario!

C’è ancora chi pensa che i figli arrivino con l’angelo del focolare, non con l’emancipazione femminile.

Infatti, siamo proprio noi, il Paese che fa meno figli al mondo, quelli che discriminano le donne sul lavoro, quelli che ancora oggi pensano che la cura dei figli sia affare esclusivo delle donne, quelli del maschio che procaccia il cibo e della femmina che accudisce la prole.

Basta guardare la tutela politica della genitorialità per averne la conferma.

La Francia, il Paese più prolifico d’Europa, garantisce sei mesi di congedo parentale per entrambi i genitori e il 40% dei bimbi sotto i 2 anni ha posto in un servizio per l’infanzia.

In Spagna i padri possono beneficiare già oggi di 35 giorni di congedo parentale alla nascita del figlio, e presto si arriverà alla parità totale: 16 settimane a testa, tra padre e madre.

In Italia, invece, hanno pure provato a dimezzare di nuovo il congedo di paternità da 5 a 2 giorni.

Perché, tanto, i nostri guai sono tutti colpa dell’Europa.

E di chi, in Italia, si ostina a non mostrare le chiappe…

 

Antonella Ferrari

 

 




Chi è lo schiavo e chi è il padrone?

Riflessioni a seguito della lettura de La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe

Noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, che troviamo, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici, consideriamo la nostra umanità.

L’incipit di questo articolo è chiaramente una parafrasi della poesia “se questo è un uomo” di Primo Levi.

Ho scelto queste parole perché, lo confesso, sono in difficoltà nel trovarne di mie.

Come tanti, sono una lettrice di romanzi, di essi mi piace il fatto che, naturalmente, passano sottobanco una serie di stimoli che da sola non saprei neppure di voler cercare.

Purtroppo questo non è del tutto un bene perché non sempre quello che troviamo è quello davanti a cui vogliamo trovarci.

Il lettore sa che può capitare che si legga per il piacere di farlo e poi, alla fine, ci si ritrovi come “scomodi”.

Un sorta di spina nella carne, come mutuava Kierkegaard da Paolo di Tarso.

Ma forse la letteratura, come l’arte in genere, potrebbe essere questo: un pungiglione.

Alle volte potrebbe venire da pensare che se concilia non è arte.

Ma torniamo alle mie scelte letterarie che, per caso, questa volta sono ricadute su “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, romanzo celeberrimo, soprattutto per i solutori di parole crociate.

Romanzo notissimo, dicevo, ma nei confronti del quale io, oltre al nome di Tom inserito più volte nelle caselle in senso orizzontale o verticale, non ero andata.

L’incipit sembra quello di un classico romanzo dell’Ottocento che racconta le romantiche (nel senso etimologico del termine) dinamiche dei personaggi 

Andando avanti le cose cambiano velocemente e arrivano già le prime avvisaglie della vergogna.

Per chi come me avesse sottovalutato la trama del romanzo, la capanna dello zio Tom racconta le dinamiche della schiavitù nell’America dell’Ottocento, di come venivano percepiti e trattati di schiavi e di come fosse mortificante e mortificata l’umanità degli schiavi e dei padroni.

Oltre ai personaggi con nomi e caratteri, i protagonisti trasversali del romanzo sono la religione cristiana, la cultura e la schiavitù.

Le vittime, come in tutti i romanzi, siamo noi lettori che pensiamo di passare qualche ora di benessere e ne usciamo scossi.

La storia è ambientata nella prima metà del 1800, per un periodo lungo una vita (quella di Tom), siamo prima del 1850 e siamo in America.

Quello che fa pensare è che si tratta di meno di 200 anni fa, un lasso di tempo che interessa ancora le storie di qualche bisnonno, praticamente l’altro ieri.

La schiavitù

In America, la terra dei grandi sogni e della libertà, era accettata la schiavitù ed esistevano gli schiavi, bene mobile del patrimonio umano.

In Europa, non da meno, la prima rivoluzione industriale portava in seno e dava alla luce la classe operaia paragonata nel corso del romanzo, a una simile schiavitù.

Il pretesto letterario è la storia di Tom: schiavo fedele venduto controvoglia dal suo amato padrone e in attesa di essere riscattato per tornare dalla sua famiglia.

Tom, viaggiando con un carico di schiavi e l’altro, attraversa stati e fiumi e incontrata tanti schiavi, tanti padroni e tanti mercanti di schiavi.

Gli schiavi dalla descrizione della storia hanno nella loro essenza il marchio di infamia della loro origine cattiva (ovvero legata alla cattività), di loro si pensa che non abbiano affezioni né sentimenti umani, anche il padrone più progressista e pio li guarda con benevolenza ma non riesce a vederli come pari a lui.

Più simili a quelli che per noi oggi sono gli animali domestici che agli uomini, gli schiavi portavano le catene ai piedi e dentro l’anima.

Chi conosce il romanzo, la tematica e la critica, sa che questo romanzo ha gettato le basi per tanti stereotipi che descrivono lo schiavo negro americano.

Può piacere o non piacere, può apparire troppo sentimentale o penoso o, addirittura, riduttivo, ma è comunque un documento e una testimonianza.

Le storie raccontate sono vere e i sentimenti sinceri ed è questo che destabilizza e scuote dal torpore

La religione


La religione viene offerta loro come placebo per sopportare i dolori e diventare esempi di santità; dà la forza per cambiare vita ed è il pretesto e la strada per acculturarsi.

Leggere la bibbia e scrivere alle persone care, sono le leve che spingono i protagonisti a voler imparare a leggere e scrivere.

La religione è la doppia leva che, se da un lato spinge i padroni – soprattutto le donne – alla carità, dall’altro lato legittima la schiavitù.

La cultura

La cultura distingue schiavi da padroni.

Chi sa leggere e scrivere ha diritto di avere sentimenti perché anche il più sciocco e vuoto personaggio, grazie alla cultura, è un uomo e non uno schiavo.

Lo schiavo che sa più o meno leggere diventa prezioso e acquista valore commerciale, lo schiavo che sa leggere e scrivere, si è insinuato nella società.

E tutto questo, lo ripeto, avveniva meno di 200 anni fa.

E oggi dove sta la nostra schiavitù?

Di che colore è la pelle dei nostri schiavi?

E quella dei padroni? 

Noi chi siamo? Schiavi o padroni?
Ci sono persone che, crediamo, non abbiano i nostri stessi sentimenti?
Ci sono persone rispetto alle quali, crediamo di avere passioni inferiori?

C’è qualcosa di tangibile che ci fa sentire superiori o inferiori ad altri?

C’è per caso una schiavitù che sopportiamo perché pensiamo non ci riguardi o sia naturale?

Quanto devono essere recenti le disumanità perché possiamo dimenticarle o ignorarle?

Riferimenti:

Poesia Se questo è un uomo di Primo Levi

https://www.riflessioni.it/testi/primo_levi.htm

Audiolibro de La capanna dello zio Tom

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/harriet-beecher-stowe/la-capanna-dello-zio-tom-audiolibro/




Il punto di vista di Barbablu

Quelli come me tagliano carne ed ossa.

C’è chi dice persino che certe notti ululiamo alla luna
ma non vi dirò se questa diceria sia vera o no.

Una cosa però non potremmo negare né dissimuleremo mai, neppure se lo volessimo: 

siamo predatori e del predatore portiamo il segno.

Quelli come me hanno fatto la guerra e praticato la magia.

Dalla guerra abbiamo preso il gusto del sangue, 

a causa della magia ci è cresciuta la barba blu.

La nostra razza l’abbiamo scritta in faccia.

La barba ci rende riconoscibili e racconta i nostri segreti.

In guerra abbiamo imparato che il compagno è l’unico del quale ci possiamo fidare e che senza di lui che ci guarda le spalle, saremo spacciati.

Dalla magia abbiamo imparato la potenza della parola e come essa possa costruire, se ben usata, e distruggere, se abusata.

Non siamo persone raccomandabili e a prima vista non piaciamo a nessuno.

Siamo sinistri, inquietanti, scontrosi, silenziosi e predatori;

brutti, offensivi, efferati e furiosi.

E anche noi abbiamo bisogno di amare.

Anche noi sentiamo il bisogno di una compagna.

Una piccola creatura da amare, di cui prenderci cura e da fare ricca.

Qualcuno in grado di prendere e dare e non distrarsi in altre cose.

Cercavo anche io qualcuna che si fidasse di me e non mi tradisse 

qualcuna dalla parola sincera 

qualcuna a cui la mia barba non sembrasse poi così blu…

L’ho cercata 

e l’ho trovata.

Sono entrato nei salotti e mi sono fatto civile, ho corteggiato un fiore e l’ho sposato.

Portai la mia giovane sposa nel mio palazzo dalle infinite stanze.

Le ho dato le chiavi di tutte le porte e del mio cuore e mi sono fidato di lei.

Le ho permesso di aprire tutte le porte tranne una.

Era una buona prova: anche Dio l’aveva usata con Adamo ed Eva.

E lei non l’ha superata.

Mia sposa amara,

sono uscito dal castello, ti ho lasciata libera e mi hai tradito.

Ti è sembrata troppo bella la vita con me da cercare un segreto che ti avevo detto di non violare.

Mi conoscevi quando hai accettato la promessa e, nella sincerità del tuo cuore, non potrai dire che non te lo aspettavi.

Mi hai mentito, hai negato e vuoi dare a me la colpa

Ma io ora soffro 

e per colpa tua, 

mia vecchia amata, 

dovrò ucciderti.

—–

Simbolico dialogo interno, personale e opinabile del Signor Barbablu tradito e ferito dalla sposa scelta e amata.

Dedicato a chi crede di riconoscersi.