THE “LORD” OF THE HAMMOND

 

«Senza l’organo di Jon Lord i Deep Purple non sarebbero mai esistiti!» Pare un’affermazione scontata quella data dall’amico e batterista Ian Paice, ma non lo è affatto.

Jon Douglas Lord (Leicester, 9 giugno 1941Londra, 16 luglio 2012), storico tastierista dei Deep Purple è stato un vero genio! Nel periodo  più caldo delle innovazioni tecnologiche (vedi moog ed il suo spasmodico utilizzo da parte di moltissime formazioni rock e progressive fine anni ’60, compresi i Beatles e pure la mitica Premiata Forneria Marconi di Franz Di Cioccio; n.d.a.) Lord rimase fedele al suo Hammond, sperimentando la distorsione del suono e utilizzando l’organo in modo innovativo, quasi come fosse una chitarra elettrica.

Precursori del metal i Deep Purple infatti devono molto alle scale pentatoniche minori di Lord amplificate da processori Marshall.

Basti pensare ai suoi assolo in Child In Time ed in Speed King, due delle composizioni più celebri della Band inglese.

Un suono forte e ruggente quello del suo Hammond dunque, ma anche dolce e accattivante.

Avviato da bambino allo studio del pianoforte dal padre Reginald, apprezzabile musicista, Jon fu per tutta la vita influenzato sicuramente dai suoi studi classici ma anche dai mostri sacri del Rock’n’Roll e dall’R&B.

Compositore, arrangiatore e session man nel 1967, appena venticinquenne, Lord incontra il chitarrista Ritchie Blackmore e fonda i Deep Purple con i quali scrive brani che sono ancora oggi delle pietre miliari della musica Hard Rock, basti solo pensare a Smoke on the Water.

 

Ignoro l’esistenza di un chitarrista elettrico che non abbia iniziato a suonare cimentandosi con il riff iniziale LA/DO/RE – LA/DO/Mib/RE. Permettetemi una piccola parentesi che voglio dedicare a quel pazzo totale di Blackmore, uno dei 5 chitarristi che ha influenzato il sottoscritto (gli altri sono Andy Summers dei Police, Angus Young degli AC/DC, Jerry Cantrell degli Alice in Chains e Marcos Curiel dei P.O.D).

Un talento puro, un innovatore creativo che (purtroppo) nel 1993 lascia i Deep Purple senza troppe spiegazioni.

Così era fatto Ritchie Blackmore, così gli sembrava giusto e così, a suo modo, ha dato un taglio netto (ahimè) al passato.

Il “Signore dell’Hammond”, Lord, scrisse l’intera partitura di una tra le opere più importanti di tutta la storia della musica Rock: il Concerto For Group And Orchestra, che vide i Deep Purple esibirsi con la Royal Philarmonic Orchestra di Londra alla celebre Royal Albert Hall.

Lord era in grado di modificare “a braccio” durante i concerti le intere parti suonate, rendendole a volte più accattivanti di quelle registrate in studio.

Ad esempio nel doppio disco Made in Japan, registrato durante il Tour in Giappone nell’estate del 1972, si evince chiaramente come Lord abbia modificato in forma magistrale gli assolo di organo di molti brani.

Made in Japan ha venduto milioni di copie e con il doppio disco live i Deep Purple sfondarono anche negli Stati Uniti.

Desidero sottolineare nuovamente che il connubio tra organo Hammond di Lord e chitarra Stratocaster di Blackmore gettò le basi per i fasti dell’heavy metal del decennio successivo (molto più di quel che fecero i Black Sabbath di Ozzy Osbourne o la premiata ditta Page & Plant dei Led Zeppelin; n.d.a.).

Un “muro del suono” quello dei Deep Purple, che grazie alla continua sperimentazione sonora e alla tecnica efficacissima di Lord, ancor oggi è studiato e tentativamente imitato da migliaia di musicisti.

Jon Lord muore a Londra il 16 luglio del 2012 all’età di 71 anni, stroncato da complicazioni per un cancro al pancreas.

La famiglia e gli amici, quasi tutti musicisti, hanno organizzato un concerto-evento alla Royal Albert Hall il 4 aprile 2014 per celebrare la carriera artistica di Lord, la medesima location del Concerto For Group And Orchestra di moltissimi anni prima.

I Deep Purple con 90 orchestrali diretti da Paul Mann e molti ospiti (ricordo tra tutti Bruce Dickinson degli Iron Maiden, Glenn Hughes, Paul Weller dei Jam), sono stati protagonisti di Celebrating Jon Lord. Così Ian Paice, storico batterista dei Deep Purple: «il miglior modo di celebrare un grande artista, un precursore, un talento puro… un amico! »

 

https://www.youtube.com/watch?v=m8VYXcrKUqc

 

 




JON BON JOVI: I LUSTRI(NI) DELL’HAIR METAL

 

 

Molti anzi… moltissimi anni fa con la mia band di allora, i Casual Connection Crew, iniziavo a comporre testi e canzoni rigorosamente in inglese con l’inseparabile Gas (amico prima e tastierista poi, con cui collaboro dal lontano 1987).

Nei nostri concerti suonavamo però per la maggior parte cover di artisti internazionali come U2, Police, R.E.M., Ramones, AC/DC… e anche Bon Jovi!

Erano i tempi di Slippery When Wet e dell’esplosione dell’“Hair Metal” e in nessuna performance live dell’underground nostrano di quegli anni mancava in scaletta un brano di John Bongiovanni.

Origini siciliane Jon, nato e cresciuto nel New Jersey, iniziò sin da piccolo a cimentarsi con la chitarra e la voce, strumento che utilizza da allora in modo magistrale.

Profondamente radicato nella cultura americana, Jon cresce riflettendo la musica e soprattutto la moda del tempo ed ispirandosi a Mozart, Bach e a Big come Aerosmith e anche Bruce Springsteen, suo “vicino” di casa, con cui il prossimo 22 aprile suonerà assieme in remoto per raccogliere fondi da destinare agli ospedali del New Jersey in emergenza da Covid-19.

Oltre 130 milioni di dischi venduti nel mondo, Bon Jovi ha girato l’intero globo con oltre duemila concerti in 50 paesi, collezionando numerosi premi e guadagnandosi nel 2018 un posto di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame.

Sono certo che i puristi del Rock e del Metal siano d’accordo con me nell’affermare che Jon Bon Jovi sia stato uno dei creatori di una nuova stagione della musica targata USA.

Già negli anni Settanta la rivoluzione del “Glam Rock” fece la fortuna di artisti e di band come i T. Rex, David Bowie, Roxy Music e perfino Queen e la novità era legata più al look (paillettes, trucchi esagerati, e frange colorate erano le divise dei glammers unite ad una sensualità quasi feminea; n.d.a.) che non alla musica.

Ma è nella seconda metà degli anni Ottanta che l’Heavy Metal inizia la sua deriva (se così si può dire) verso il Glam ed il Pop.

Così nasce l’”Hair Metal” che fu portato al successo dai Bon Jovi e da band che adoro come Def Leppard, Europe, Twisted Sister, Poison, Mötley Crüe, Krokus, Ratt, W.A.S.P., Skid Row, Cinderella e molte altre ancora. Caratteristica fondamentale di un “Hair Metal Band” che si rispetti è l’esaltazione della potenza sonora delle cosiddette “Ballads”, lentoni strappalacrime mielosi e sdolcinati che tradizionalmente erano legati quasi esclusivamente alla musica pop.

Voglio citare anche i Dokken di Don Dokken (voce) e George Lynch (chitarra), che sono una delle formazioni più longeve del genere “Hair Metal” nei quali all’inizio degli anni Duemila ha militato un mio caro amico Alex “Spillo” De Rosso (a breve su Betapress la sua intervista; n.d.a.).

Tornando a metà degli anni Ottanta, mentre Jon Bon Jovi riscuoteva un successo planetario, i Gun’s n’Roses spopolavano con Appetite for Destruction distanziandosi dal genere “Hair Metal”.

Il fenomeno iniziava infatti la sua rapida discesa fino a scomparire quasi del tutto soppiantato dal Grunge, fenomeno innovativo nato a Seattle nei gloriosi anni Novanta.

Un breve e fortunato ritorno dell’“Hair Metal” si è avuto pochi anni fa con l’avvento di successi planetari come quelli degli Ark e dei Darkness. Bon Jovi virando in modo molto intelligente ha mantenuto negli anni un sottile filo con le sue origini “Hair”, riconvertendo la sua musica che gli permette ancor oggi un grandissimo successo di vendite e pubblico.

Vi lascio con la splendida “Ballad” Wanted Dead or Alive, Rock Forever!

 

https://www.youtube.com/watch?v=SRvCvsRp5ho

 

PERTH

UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.