Prof, ha sentito cosa è successo?

Ha scioccato tutta Italia la morte della bambina che per prendere parte alla Black out challenge su Tik Tok si è legata una cintura alla gola, finendo per soffocarsi.

Una tristissima vicenda, con tragico epilogo, che ha messo in allarme tutti i genitori di adolescenti e preadolescenti sul pericolo che corre in rete.

Non è la prima volta che accade, e la Blackout Challenge è solo l’ultima pericolosa moda in circolo sui social.

Ma quello che mi ha scioccato, ancor più, è stato ascoltare la versione dei miei alunni, la “loro” versione della sfida, il loro giocare alla roulette russa ai tempi dei social.

Alcuni miei alunni preadolescenti mi sono sembrati persino estranei alla tragica morte della bambina di 10 anni di Palermo, come se quello successo a lei, non riguardasse loro, loro che partecipano alle stesse sfide o per lo meno, le seguono sui social.

“E’ una gara prof., vince chi resiste più a lungo, chi non molla, puoi farlo tu il video, ma è meglio se ti prende il tempo chi ti filma…”

E così ho scoperto che la famosa black out challenge”, virale su TikTok, è per alcuni di loro una “figata”.

Ma non solo, che ci sono altre sfide, a dir poco assurde, come quella di posizionarsi allineati in tre e saltare, quello in mezzo deve saltare mentre gli altri due gli fanno lo sgambetto, in contemporanea, falciandogli le gambe, e così quello in mezzo cade all’indietro di schiena, ma vince chi resta in piedi “è solo questione di coordinarsi…”

Sono senza parole.

Di chi è la colpa?!?

Dei social che sono l’incubo dei nostri giorni, perché inducono ragazzi e ragazze a fare cose idiote, per il solo scopo di prendersi una manciata di like?!?

Dei genitori, che hanno dato un cellulare a una bambina di dieci anni?!?

Della scuola, che non ha saputo educare all’uso di questi strumenti?!?

O magari, la colpa la daremo agli amici che hanno coinvolto la ragazza nella sfida?!?

Punteremo il dito su questo e su quello, e illustri psicologi televisivi lanceranno il loro armamentario di giudizi su una generazione ormai persa e senza valori, su famiglie ormai disperate o su insegnanti incapaci e demotivati.

Certo, i social contengono trappole, insidie, pericoli.

Sarebbe da ciechi non vederli.

Ma non ha neppure senso pensare di eliminarli tutti o di vietarli in blocco.

I ragazzi di quell’età li vedono come un paradiso da raggiungere a qualunque costo, creando profilo falsi, anzi si compiacciono di falsificare l’età e di postare foto trasgressive…

Per me, prima di proibire, sarebbe bello parlarci, magari, con i ragazzi e le ragazze di quell’età.

Ne verrebbero fuori cose molto interessanti.

A me capita di farlo tutti giorni.

E vi assicuro che più ci parlo e meno riesco a trovare un solo colpevole.

Ho capito che quando una bambina di dieci anni si stringe una cintura al collo non è colpa di TikToknon è colpa della famiglia, dei social, della scuola, degli amici

Non è colpa di nessuno, ma la responsabilità è di tutti.

Ho capito che i social non sono il male.

Che anzi, proprio in questo periodo, per molti sono stati una salvezza, un modo per darsi forza a vicenda, per tenere vivi i contatti.

Ho capito che il male comincia molto prima.

Il male è non essere visti, non essere ascoltati, non avere nessuno vicino che ti chiede come stai.
Il male è doversi fare del male per ottenere un minimo di attenzione e considerazione.
Il male è il vuoto che trovi fuori, nel mondo, quando provi a farti sentire.

Il male non è che bambini e adolescenti passino troppo tempo soli con un cellulare.
Il male è che passino troppo tempo da soli, punto.

I ragazzi non li salvi cancellando TikTok.
I ragazzi li salvi chiedendo loro, tutti i giorni: “Come stai?”.

E fermandoti lì tutto il tempo che serve per ascoltare davvero la loro risposta, anche se sei stanco e, tu per primo non ce la fai più…

E questo è il punto di vista dei minorenni più fragili della nostra epoca.

Poi, per il punto di vista dei genitori, per cercare di dare loro un supporto su come combattere i pericoli delle sfide iniziate per gioco, per noia o per ottenere visualizzazioni dai loro figli, ecco i consigli della Polizia Postale che tutti i genitori dovrebbero leggere:

  • Parlate ai ragazzi delle nuove sfide che girano in rete in modo che non ne subiscano il fascino se ne vengono al corrente da coetanei o sui social network;
    Assicuratevi che abbiano chiaro quali rischi si corrono a partecipare alle challenge online.

I ragazzi spesso si credono immortali e invincibili perché “nel fiore degli anni”: in realtà per una immaturità delle loro capacità di prevedere le conseguenze di ciò che fanno potrebbero valutare, come innocui comportamenti letali.


Alcune challenge espongono a rischi medici (assunzione di saponi, medicinali, sostanze di uso comune come cannella, sale, bicarbonato, etc), altre inducono a compiere azioni che possono produrre gravi ferimenti a sé o agli altri (selfie estremi, soffocamento autoindotto, sgambetti, salti su auto in corsa, distendersi sui binari, etc).

Monitorate la navigazione e l’uso delle app social, anche stabilendo un tempo massimo da trascorrere connessi.

  • Mostratevi curiosi verso ciò che tiene i ragazzi incollati agli smartphone: potrete capire meglio cosa li attrae e come guidarli nell’uso in modo da essere sempre al sicuro.
    Se trovate in rete video riguardanti sfide pericolose, se sui social compaiono inviti a partecipare a challenge, se i vostri figli ricevono da coetanei video riguardanti le sfide segnalateli subito a www.commissariatodips.it
    Tenetevi sempre aggiornati sui nuovi rischi in rete con gli ALERT che vengono pubblicati sul portale www.commissariatodips.it e sulle pagine Facebook Una Vita da Social e Commissariato di PS Online.

 

Così, prima di andare in giro a cercare di chi è la colpa, proviamo ad assumerci ciascuno la propria responsabilità, proviamo a fare rete per combattere, insieme, i pericoli della rete…

Io, almeno la penso così, parola di mamma, di insegnante e di referente cyberbullismo…

Fonte: Polizia Postale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Distanziamento A-sociale

 




NICK CAVE e la meraviglia della realtà.

 

Cosa fa di Nick Cave un artista, cioè una di quelle persone cadute “bel apposta” sulla terra e che “portano il Fuoco”, per dirla con il McCarty di The Road, che per un istante o per infiniti istanti riescono a scoprire il velo della quotidianità e che ci fanno scoprire “immagini che portano scritto: più in là” per dirla con il Montale di Maestrale?

Cosa fa di Nick Cave un artista, cioè una di quelle persone che con la loro sensibilità intuiscono e, spesso involontariamente, fanno intuire a noi ascoltatori il vero significato delle parole Amore e Morte, cioè tentano attraverso la loro arte di dare senso alla propria e nostra esistenza, di dare senso in definitiva alla realtà che ci circonda?

Da quando ascolto musica (molto) e faccio musica (poco) mi sono sempre approcciato all’arte (in senso lato, qualsiasi forma essa abbia) con un tipo di domanda che è fondamentalmente questa: ciò che ascolto/vedo/gusto mi fa andare “più in là”, mi fa porre queste domande, mi fa crescere la ricerca di senso?

La bellezza che fuoriesce da una canzone o da un dipinto o dal frame di un film mi pone questi interrogativi oppure ciò che sto ascoltando/vedendo/gustando è solo “intrattenimento”?

Di questo parlavo qualche giorno fa con mia figlia diciannovenne, in uno scontro e incontro epocale (perché siamo di “epoche geologicamente” differenti, evidentemente) in cui i nostri “epocalmente” diversi punti di vista si sono riconciliati solo nel constatare che la musica che amiamo ci dovrebbe far andare alla ricerca della meraviglia che c’è in questo mondo.

Pensavamo entrambi a quali compositori ed artisti fossero contigui a tal modo di sentire e la figura dinoccolata di Nick Cave mi si stagliava netta davanti agli occhi, per quella dimensione profetica che è resa evidente dal suo modo di esibirsi sul palco, da ciò che scrive e canta, soprattutto da come mi ha confortato nei periodi bui e portato lucidità di pensiero nei periodi lieti della mia vita, cioè, in definitiva, da come la sua arte mi sia stata ed è tuttora “vicina”.

Pensare a Nick Cave mi porta a riascoltare tutto il suo repertorio come ad una evoluzione che tende a Qualcosa, come ad un naturale crescendo del concept di canzone verso forme musicali diverse; alcune tematiche sono come fiumi sotterranei che risalgono in superficie ed alimentano perennemente la fonte.  

Come non pensare che già all’inizio della propria carriera con i Birthday Party e con le prime formazioni dei Bad Seeds il tema del bene e del male e della violenza insita nel cuore umano è stato un leit motiv che percorre molti sui testi. Uno dei pezzi più espliciti è The Mercy Seat, tratto dall’album Tender Pray del 1988, un brano capolavoro, attinto ancora nei concerti del nostro King Ink (soprannome di cui si è appropriato Nick dopo averci scritto una canzone).

Il brano narra degli ultimi istanti di vita di un condannato a morte tramite sedia elettrica – la mercy seat, la sedia della misericordia per l’appunto – e viene narrato in prima persona dal condannato attraverso un io narrante incalzante, soffocante, drammatico nel dibattersi tra bene e male, tra menzogna e verità, negli ultimi spasmi di vita.

La musica stessa è assillante: comincia con uno spoken word per poi passare alla ripetizione parossistica di quello che potrebbe essere il ritornello, il tutto ritmato da un rullante che scandisce una veloce marcetta militare.

La narrazione trova momenti topici e climaterici nelle immagini delle mani del condannato “La mia mano assassina si chiama M.A.L.E./ Porta una fascia nuziale che è B.E.N.E.” o nella descrizione della sua testa, in un crescendo da film noir, che par quasi d’essere accanto al condannato: “e credo la mia testa bruci […] / e credo la mia testa fumi […] / e credo la mia testa si stia sciogliendo […] / e credo la mia testa stia bollendo”.

Il tema dello scontro tra verità e menzogna emerge nel testo: all’inizio della canzone recita: “e comunque ho detto la verità/ e non ho paura di morire” mentre l’ultimo verso della canzone sembra molto diverso: “e comunque ho detto la verità/ ma ho paura di aver mentito”.

E’ quest’alternanza di chiaro e scuro, di divino e diabolico, di speranza e disperazione, di peccato e redenzione che rendono le teofanie di Cave così attaccate alla realtà, così credibili, quasi fossero dei vestiti fatti su misura per ciascuno di noi, dove Dio, o quello che intendiamo per concetto di divino, lo intra-vedi da una porticina piccola-piccola, ma che essendo aperta fa percepire la luce che proviene dall’interno.

D’altro canto due dei suoi scrittori preferiti – ce lo dice esplicitamente Nick nella rubrica online che dal 2018 tiene con i fans, The Red Hand Files – sono William Faulkner e Flannery O’Connor e le idee dei due autori sudisti al riguardo sono molto esemplificative.

Sentite la ragazza di Savannah cosa scrive nelle sue Lettere: “C’è qualcosa in noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto di redenzione, al fine di offrire a chi cade la possibilità di risorgere» e poi ancora “In breve, leggendo ciò che scrivo, ho constatato che argomento della mia narrativa è l’azione della Grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo”.

Il premio Nobel Faulkner nel romanzo Requiem per una monaca fa dire ad uno dei personaggi: “La salvezza del mondo sta nella sofferenza dell’uomo“.  

Nell’ultimo suo lavoro Ghosteen, che giudico un capolavoro, uno di quei dischi che puoi annoverare già tra i migliori di questa decade appena iniziata, Cave va ad aprire un altro cassettino della sua arte, purtroppo schiuso da una ferita terribile, quale la morte del figlio quindicenne, con un registro musicale che è altro rispetto alle chitarre sferzanti e al post-punk degli inizi carriera, concedendo spazio alla creatività del fidato sodale Warren Ellis e ai suoi tappeti sonori.

Credo che quest’ultimo lavoro dimostri quanto la dicotomia di cui ho parlato sopra non abbia mai abbandonato il nostro aussie (e forse noi tutti?,) e che dall’interno di questo cassettino sia spuntata una consapevolezza non  nuova ma evidentemente fatta emergere paradossalmente dalla scomparsa del figlio e cioè che la vita, per quanto possa apparire arida e dura, va vissuta alla ricerca della bellezza, della meraviglia, facendo fruttare tutti i nostri talenti, da quelli che ci sembrano insignificanti a quelli più eclatanti.

Scrive nel primo dei suoi The Red Hand Files come risposta ad un fan: “Qual è il centro delle nostre vite? Nel caso di un artista (e magari è lo stesso per tutti) io direi che è quel senso di meraviglia. Le persone creative, di solito, hanno una propensione molto acuta per la meraviglia […]. Noi tutti abbiamo bisogno di fare un passo indietro verso la meraviglia”. 

Beh, caro Re Inkiostro, certamente l’arte di comunicarci questa meraviglia l’hai imparata molto bene!

 

RIGE