Sharenting

Come docente referente cyberbullismo, giustamente, mi formo ed informo per la prevenzione e la gestione dei rischi in rete.

Come libero cittadino, dipendente pubblico, devo aggiornarmi sul regolamento europeo GDPR 679/2016 inerente la privacy.

Senza tanti fronzoli, per chi, come me, vive e lavora nella scuola da oltre trent’ anni, è sempre più evidente che non si può più fare niente, neanche la foto ricordo di fine anno scolastico, senza autorizzazione dei genitori.

Non parliamo poi, del supporto psicologico gratuito, per aiutare i minori in caso di disagio.

Ancora un po’, ci vuole “la bolla papale” per far sì che un alunno vada a fare una chiacchierata con la psicologa…

Poi, frequentando piattaforme social quali Instagram, Facebook e TikTok vedi che è facile imbattersi in post di mamme e papà (gli stessi che ti remano contro a scuola!) che scelgono di pubblicare foto e video dei propri figli in maniera compulsiva e senza alcun tipo di filtro, divulgando momenti appartenenti alla sfera più intima.

Immagini tenere e spesso divertenti che attirano i followers, (Fedez e Ferragni docet) ma che, pur scatenando una pioggia di like e apprezzamenti, suscitano perplessità e fanno emergere una serie di domande.

Prima di tutto i dati.

Secondo una ricerca condotta dalla Northumbria University, oltre l’80% dei bambini britannici sarebbe presente in rete già prima di compiere 2 anni, e prima di raggiungere i 5 anni ognuno di essi arriverebbe a possedere addirittura 1500 foto sul web.

Un ulteriore studio, promosso da ParentZone, sottolinea come il 32% dei genitori pubblichi dalle 11 alle 20 foto al mese dei propri figli.

Di questi, il 28% non si sarebbe mai posto il problema di richiedere il consenso ai ragazzi.

Gli effetti futuri.

Quando però, quelli che ora sono bambini cresceranno, potrebbero non apprezzare la presenza online, né la narrazione portata avanti dai genitori, destinata, nonostante le migliori intenzioni, a rimanere incollata ai “futuri adulti” come una spiacevole etichetta (vedi spiacevoli inconvenienti digitali emersi in sede di selezione del personale per un futuro impiego)

Insomma, creare un’identità digitale propria e utilizzare i social (in maniera libera e serena) potrebbe, successivamente, rivelarsi difficile per coloro che, da piccoli sono stati esposti alla rete forzatamente, ed in modo esibizionistico dai genitori.

Tutto questo identifica il fenomeno dello “sharenting”, sempre più diffuso e a tratti allarmante, complici i rischi legati alla privacy dei minori, tangibili e sicuramente da non sottovalutare.

Definizione di sharenting.

Con il termine “sharenting” si fa riferimento alla condivisione in rete da parte dei genitori di immagini e video riguardanti i propri figli.

Coniato negli Stati Uniti, il neologismo è la crasi delle parole “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità), anche se per precisione la pratica è meglio identificata come “over-sharenting”, ovvero l’eccessiva e protratta esposizione dei minori nel contesto web.

Nella maggior parte dei casi, tale esposizione avviene senza il consenso dei minori diretti interessati, proprio perché troppo piccoli (o non abbastanza grandi) da comprendere quali possano essere le implicazioni ed i rischi, così come l’importanza della tutela della privacy.

I rischi dello sharenting

Innumerevoli sono i rischi che comporta la pratica dello “sharenting”, tutti in grado di ledere seriamente la privacy del minore, esponendolo ai più comuni pericoli del web.

Il primo è rappresentato dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali e sensibili.

La privacy è un diritto, non solo degli adulti, ma anche dei bambini, come sancito dalla Convenzione dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

C’è poi la questione legata alla mancata tutela dell’immagine del minore, basti pensare alla concreta perdita di controllo relativa ai contenuti una volta pubblicati in rete.

L’identità digitale esercita un’influenza concreta e tangibile sul futuro dei minori, in questo modo esposti ai più comuni rischi legati al contesto telematico.

La relativa immagine appare dunque in balia di chiunque desideri sfruttare il materiale fotografico e video per scopi illeciti e denigratori, complice la relativa permanenza su web e l’impossibilità di eliminarne ogni traccia in un secondo momento.

Problema ancor più grave sono le ripercussioni psicologiche sul benessere del minore.

Quando i soggetti coinvolti inizieranno a navigare in rete in autonomia, dovranno inevitabilmente “pagare lo scotto” dell’essere (o dell’essere stati) esposti pubblicamente in maniera continua, col rischio di ritrovarsi a far fronte a un’identità digitale costituita anche da immagini intime per le quali non hanno prestato alcun consenso.

C’è poi il rischio di diffusione di materiali che potrebbero essere sfruttati in contesti pedopornografici.

Immagini o video, per quanto innocenti, possono essere condivisi liberamente da chiunque, sia attraverso semplici screenshot che mediante il download diretto, per poi venire pubblicati in altri contesti senza alcuna limitazione.

Non esiste dunque alcuna certezza circa l’utilizzo che ne verrà fatto da terzi, e occorre tenere ben presente che ad oggi, attraverso l’uso di semplici programmi di fotoritocco, è possibile manipolare il materiale personale con una certa facilità, rendendolo di carattere pedopornografico, con tutte le ripercussioni del caso.

Ultimo ma non meno importante il rischio di adescamento.

I dati dei minori, come le passioni, lo sport praticato, l’istituto frequentato e le abitudini degli stessi, se costantemente esposti online possono rappresentare terreno fertile per i malintenzionati che, dopo aver intrapreso una sorta di “percorso di avvicinamento”, possono praticare atti di adescamento online.

Sharenting e privacy

Tra le principali criticità che coinvolgono lo “sharenting” compaiono le ripercussioni che la condivisione – specie se compulsiva e ripetuta – ha sul minore.

Ad essere principalmente lesa è la privacy, poiché la pratica comporta la creazione di un vero e proprio archivio digitale, il più delle volte pubblico e fruibile da chiunque.

Spesso il minore non è in grado di capire cosa succede quando viene condivisa un’immagine che lo immortala, e ciò determina a tutti gli effetti una violazione della privacy, oltre che una lesione dell’individualità del soggetto.

Una volta cresciuti, i bambini sono costretti a “fare i conti” con una grande quantità di contenuti che li riguardano, con tutte le conseguenze e implicazioni psicologiche e sociali del caso.

In Italia non sono mancati proprio per questo casi in cui gli adolescenti coinvolti, una volta preso atto della quantità di contenuti online che li riguardavano, hanno scelto di rivolgersi ai tribunali, obbligando i genitori alla rimozione del materiale “incriminato” pubblicato sui social.

Ha acceso innumerevoli dibattiti l’ordinanza del 30 agosto 2021 emessa dal Tribunale di Trani, che ha condannato una madre a rimuovere i video della figlia, e a versare una somma di 50 euro sul conto corrente intestato alla bambina per ogni eventuale giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione, il tutto a fronte del disaccordo da parte del padre rispetto alla pratica dello “sharenting”.

Il considerando 38 del GDPR recita che “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate, nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali”.

Come ha ricordato lo stesso Tribunale di Trani nell’ordinanza, è fondamentale che il consenso alla pubblicazione online di immagini dei figli minori sia prestato dai genitori, che devono al contempo essere in grado di porre limiti che non ledano in alcun modo la privacy dei bambini e dei ragazzi.

Occorre tuttavia considerare che la pratica dello “sharenting” non si limita a creare dinamiche che possono semplicemente compromettere la riservatezza del minore.

Ancor più rischioso è infatti metterne a repentaglio la sicurezza mediante la condivisione di materiale video e fotografico che può potenzialmente diventare virale.

Dunque, per concludere, un genitore, in quanto tale, non deve mai sottovalutare l’entità del possibile problema che lo “sharenting”, per quanto divertente, può comportare.

E certi altri genitori, analfabeti digitali, prima di puntare il dito contro la scuola, dovrebbero staccare il loro dito dal tasto condividi del loro smartphone…

 




Bullismo fenomeno dilagante

La “Prima Giornata nazionale contro il bullismo a scuola” si è svolta il 7 febbraio 2017, in coincidenza con la Giornata Europea della Sicurezza in rete indetta dalla Commissione Europea (Safer Internet Day).

Cinque anni dopo, il fenomeno del cyberbullismo è in costante e rapida crescita, comparendo tra le minacce più temute dai ragazzi dopo droghe e violenza sessuale.

Secondo le ultime ricerche, infatti, colpirebbe addirittura il 61% degli adolescenti italiani, rappresentando pertanto un notevole rischio, a discapito della potenziale utilità delle tecnologie più innovative legate al contesto web.

Per far fronte a questa vera e propria emergenza, e tutelare giovani e giovanissimi che utilizzano quotidianamente gli strumenti informatici, il Garante della privacy ha provveduto a divulgare una scheda informativa nella quale spiega come difendersi dal cyberbullismo su social network e web.

Dunque, per arginare tale problematica in maniera concreta, è possibile avvalersi di quanto previsto dalla legge 71/2017 per il contrasto del fenomeno del cyberbullismo, in tutte le sue manifestazioni, richiedendo la rimozione gratuita dei contenuti a carattere denigratorio pubblicati in rete.

Cyberbullismo. Cosa dice la legge 71/2017

Come illustra la scheda informativa promossa dal Garante della privacy, la legge 71/2017 offre ai minori l’opportunità di richiedere l’oscuramento, la rimozione o il blocco di contenuti a loro riferiti e diffusi per via telematica, qualora gli stessi vengano ritenuti a tutti gli effetti atti di cyberbullismo, (ad esempio immagini e video offensivi o che generino imbarazzo, pagine web o post social in cui si ritenga essere vittime di offese, minacce, insulti o vessazioni).

Le richieste di cancellazione dei contenuti ritenuti offensivi devono essere inoltrate al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media ove sono pubblicate le informazioni, le foto o i video ritenuti atti di cyberbullismo.

L’istanza può essere inviata direttamente dal minore, se di età superiore ai 14 anni, o in alternativa da chi esercita la responsabilità genitoriale.

Il titolare del trattamento, così come gestore del sito internet o del social media che ospita i contenuti ritenuti offensivi è tenuto a rispondere e a provvedere all’accoglimento della richiesta di eliminazione, il tutto nei tempi previsti dalla legge.

Qualora la richiesta non venga soddisfatta, è comunque possibile rivolgersi al Garante della privacy, che si attiverà entro 48 ore.

Per inoltrare le segnalazioni all’Autorità, è possibile utilizzare il modello preposto, che deve essere inviato via email all’indirizzo cyberbullismo@gpdp.it.

Cyberbullismo. Cosa dicono le statistiche.

Secondo un’indagine condotta, nel 2021, dall’Osservatorio Indifesa, portato avanti da “Terre des hommes” in collaborazione con “ScuolaZoo”, il 61% degli adolescenti italiani ha dichiarato di essere stato, almeno una volta, vittima di episodi di cyberbullismo.

Il 42,23% di ragazze e ragazzi intervistati, indifferentemente, evidenzia, mediante le risposte fornite, una palese sofferenza esercitata da episodi di violenza psicologica e verbale promossi da parte di coetanei.

Allo stesso tempo, un altro dato appare piuttosto chiaro: il 44,57% delle ragazze intervistate avrebbe manifestato un forte disagio causato dal ricevere commenti non graditi di carattere sessuale online.

L’8,02% delle ragazze ammette di aver compiuto atti di bullismo o cyberbullismo, percentuale in crescita fino al 14,76% tra i ragazzi.

Il 60% circa degli intervistati ha dichiarato inoltre di non sentirsi al sicuro online: sono in questo caso le ragazze (circa il 61,36% delle intervistate) ad avere più paura, soprattutto sui social network e sulle applicazioni per incontri.

I rischi percepiti in misura maggiore

Tra i rischi maggiori, sia per quanto concerne i maschi che le femmine, al primo posto compare proprio

il cyberbullismo in misura di circa il 66,34%,

seguito dalla perdita della privacy (49,32%),

dal “revenge porn” (41,63%),

dal rischio di adescamento da parte di malintenzionati (39,20%),

dallo stalking (36,56%)

e dalle molestie (33,78%).

Nella classifica dei peggiori incubi online, le ragazze pongono al secondo posto il “revenge porn” con una percentuale pari al 52,16%, unitamente al rischio di subire molestie online per il 51,24%.

A tali minacce seguono l’adescamento da parte di malintenzionati (49,03%) e la perdita della propria privacy (44,73%).

In particolare, lo stesso Osservatorio Indifesa ha evidenziato due novità di rilievo nell’indagine dedicata al 2020, sebbene nel 2021 il tutto sia ulteriormente incrementato: il “revenge porn” e il senso di isolamento percepito dai giovani.

Nel caso del “revenge porn”, un adolescente su tre ha infatti confermato di aver visto circolare foto intime personali o dei propri amici e conoscenti sui social network.

Quasi tutte le ragazze (circa il 95,17% delle intervistate) hanno consapevolmente preso atto che vedere le proprie foto o video hot circolare online senza il proprio consenso risulta grave al pari di subire una violenza fisica, percentuale in lieve discesa invece per i ragazzi, con cifre pari all’89,76%.

Non dimentichiamo, inoltre, che tendono a persistere i vecchi pregiudizi, legati soprattutto alle tradizioni famigliari e a contesti di degrado culturale.

Infatti, il 15,21% dei ragazzi considera una “ragazza facile” quella che sceglie liberamente di condividere foto o video a sfondo sessuale in compagnia del partner (per le ragazze tale asserzione risulta vera solo nell’8,39% dei casi).

Cyberbullismo, effetto covid e lockdown

Covid e locksown hanno peggiorato la situazione.

Infatti, forte e crescente è il senso di solitudine registrato dall’indagine, correlato quasi certamente alle misure precauzionali adottate durante il lockdown, al distanziamento sociale, e alla didattica a distanza.

Il 93% degli adolescenti ha infatti affermato di sentirsi solo, con un incremento del 10% rispetto a quella che era stata la rilevazione precedente.

Un aumento ancora più significativo se si pensa che la percentuale di chi ha indicato di provare solitudine “molto spesso” è cresciuta addirittura del 33%, giungendo rapidamente ad un drammatico quanto allarmante 48%.

Dati preoccupanti dunque quelli raccolti dall’Osservatorio Indifesa, che dovrebbero indurre a riflettere su come la tecnologia, per quanto all’avanguardia, implichi rischi di notevole entità, specie per gli adolescenti che non sempre accolgono con consapevolezza le innovazioni.

Concludendo, non aspettiamo il 7 febbraio per ricordarci dei rischi in rete.

Spegniamo il cellulare, accendiamo il cervello e controlliamo i nostri figli.

Noi, come redazione, non ci stancheremo mai di trattare questo fenomeno culturale, consapevoli che è un’emergenza sociale che, con effetto domino, si sta ribaltando su tutte le generazioni future.

La sola via utile da intraprendere è quella della tutela dei minori, messa in atto mediante una corretta e veritiera informazione (anche e soprattutto da parte delle istituzioni scolastiche, è vero, ma non basta).

La scuola, ma ancor prima la famiglia, devono formarsi ed informarsi in modo completo e responsabile.

Solo facendo rete, tutti insieme, genitori, professori, educatori, minori e fruitori possiamo prevenire tutti i rischi legati al cyberbullismo.

La parola d’ordine è EDUCAZIONE COME PREVENZIONE.

Perché, educando ed educandoci all’utilizzo delle nuove tecnologie web, con rigore, consapevolezza e maturità, forse, qualcosa di buono, da festeggiare, in futuro, ci sarà…