Alexei Navalny, Chi è?

La morte di Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin, ha scosso l’opinione pubblica internazionale ed è destinato a restare  di estrema attualità soprattutto dopo le dichiarate intenzioni della moglie Yulia di succedergli nella battaglia politica contro l’egemonia del dittatore russo.

Chi era Alexei Navalny?

La risposta a questa domanda è indispensabile per comprendere il futuro della Russia alle soglie delle elezioni presidenziali previste per il prossimo mese di marzo.

Figlio di un ufficiale dell’esercito Alexei Navalny, ricco di una laurea in legge e di doti di intraprendenza comunicativa, si è espresso non sempre in nodo trasparente nel mondo della imprenditoria e della politica mostrando in più occasioni una simpatia verso i movimenti nazionalisti russi.

Dopo il 2017 diventa il principale oppositore della leadership di Putin contro il quale concentra una battaglia politica declinata con le cifre della comunicazione social in un  Paese che non tollera le proteste in piazza.

Alla guida di un team di giornalisti e testate on line come la britannica Bellingcat, la russa The Insider e la CCN arriva a smascherare il patrimonio segreto di Putin ma soprattutto i piani del Cremlino per avvelenarlo attraverso la potente organizzazione, FSB, l’organo dei servizi segreti russi specializzato nell’utilizzo di armi chimici tra i quali il Novichok, l’arma chimica utilizzata nell’ attentato alla vita di Navalny nel 2020 e poi fallito per cause accidentali.

Indimenticabile l’intervista  fatta, sotto una falsa identità sul finire del 2020, ad uno dei killer del Team, FSB, inviato per ucciderlo.

All’altro capo di un telefono fisso vi è, invero, Konstantin Kudryavtsev,  l’esperto chimico del team di spie che ammette il tentativo di avvelenamento, le modalità utilizzate ed i motivi del fallimento della iniziativa.

L’omicidio di Stato, del resto, è un’attività routinaria per i servizi segreti russi.  

Basti ricordare i nomi delle vittime degli ultimi anni, quelle conosciute, almeno, da Litvinenko a Politkovskaja fino a Prigozhin ed all’aviere disertore in ucraina Kuzminov durante il conflitto in corso, finito a colpi di pistola in Spagna, dove si era rifugiato.

La morte di Alexei Navalny, tuttavia, può rappresentare l’innesco di in processo più profondo di quello che il dittatore russo può aver immaginato.

Navalny era un oppositore politico ma prima ancora un blogger, un Social Media Manager capace di mediatizzare con successo ogni inchiesta anche quelle che lo vedevano bersaglio di un complotto omicida trattato, al pari delle altre vicende, come una notizia attraverso la quale mettere in luce l’attività criminale di Putin ed il destino del popolo russo.

Un ossessione per la ricerca della verità che non si è fermata di fronte a nulla neanche  la morte preconizzata come un evento certo al punto di consegnare ai suoi sostenitori ed all’opinione pubblica internazionale un testamento politico diffuso tramite un video postumo.

Navalny è morto ma non le sue idee che continueranno ad avere una voce nelle parole di sua moglie Yulia intenzionata a continuare una lotta politica con le stesse modalità comunicative.

Le elezioni del prossimo marzo in Russia avranno un esito, forse, scontato ma la Storia insegna che le rivoluzioni, nel Paese degli Zar, sono veloci e definitive.

Navalny è morto ma ora il suo fantasma si sovrappone all’ombra del gerarca russo.

 




Meloni, Made in Italy, che succede?

Pubblichiamo un intervento, che auspichiamo primo di molti, del Dott. Marco Filisetti, esperto di scuola, di istruzione, di contabilità pubblica e di normativa.

 

Giorgia Meloni già nel comizio ad Ancona del 22 agosto 2022 per l’avvio della  campagna delle ultime elezioni politiche (al quale ho avuto occasione di assistere),  aveva annunciato l’istituzione del nuovo indirizzo liceale Made in Italy   quale elemento rilevante del programma elettorale di Fratelli d’Italia in materia d’Istruzione.

Assunta la Presidenza del Consiglio dava coerentemente seguito all’impegno elettorale, ribadendone l’importanza ed affidando la declinazione attuativa per l’a.s. 2024/25 con la Legge 206/2023 al neo Ministro per l’Istruzione e per il Merito Giuseppe Valditara, espresso dalla Lega, con un esito diverso dalle aspettative.

Il ridotto numero (92) di licei made in Italy autorizzati per l’a.s. 2024/25  a richiedere l’attivazione delle classi prime risulta determinato (anche)  da una errata interpretazione restrittiva ministeriale del combinato disposto dai commi 4 e 5 dell’art. 18 della citata legge 206 del 27 dicembre 2023.  

ll comma 4 dell’art. 18 della legge   dispone   l’attivazione dei percorsi liceali del made in Italy , a partire dalle classi prime,  nell’ambito  della programmazione regionale , senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica .

Ricordo che La L.n.59/1997 e il D.lgs. n. 112/1998 attribuiscono infatti alle Regioni la competenza per la programmazione dell’offerta formativa integrata istruzione e formazione professionale, fermo restando che lo Stato assegna alle istituzioni scolastiche statali il personale scolastico nei limiti della disponibilità del bilancio statale.

Il successivo comma 5  prevede in via transitoria per l’a.s. 2024/25, che  le istituzioni scolastiche che erogano l’opzione economico sociale del liceo scienze umane  possono chiedere l’istituzione delle classi prime del liceo made in Italy, subordinatamente alla disponibilità di risorse umane, strumentali e finanziarie nel limite della legislazione vigente  nonché senza creare esuberi di personale (statale) e comunque maggiori oneri alla finanza pubblica ed in accordo con la Regione, fermo restando la programmazione regionale come  previsto al comma 4.

La limitazione  di cui al comma 5  risulta rivolta   alle istituzioni scolastiche pubbliche statali individuando, in ragione dell’esigenza di evitare aggravi d’organico, nei licei con opzione economico sociale gli ammissibili alla richiesta, senza  limitare (né potrebbe) la facoltà programmatica di esclusiva competenza regionale (purché non determini ulteriori oneri a carico dello Stato) .

Le scuole paritarie,  la cui offerta formativa è  finanziariamente irrilevante per la finanza pubblica, atteso che le loro risorse principali non sono costituite da prelevamenti obbligatori (elemento che contraddistingue le Istituzioni -scolastiche- Pubbliche),   non sono destinatarie della limitazione transitoria di cui al predetto comma 5 e pertanto possono richiedere l’attivazione  delle classi prime del liceo made in Italy nell’ambito della programmazione regionale.

E’ pertanto erronea l’interpretazione data alla norma in argomento da una nota del Ministero ( DGOSV 41318 del 28 dicembre 2023 ) con la quale si indicano nelle scuole paritarie che erogano l’opzione economico sociale le sole ammissibili alla richiesta di attivazione di prime classi del Liceo del made in Italy per l’anno scolastico 2024/2025 e ciò  “A garanzia del rispetto delle clausole di invarianza finanziaria previste dalla legge” (?).

Tale nota  Ministeriale pertanto poteva, doveva, essere disattesa dalle Regioni, favorendo, nell’esercizio della propria competenza programmatica, il diverso esito auspicato dalla Legge, pregiudicato (anche) dalla predetta iniziativa burocratica  .

 

Marco Filisetti

ex Direttore Generale USR Marche




Italia – Romania: condivisione di intenti.

L’Ing. Angelo Sinisi – profondo conoscitore della reltà socio-economica della Romania e acuto osservatore delle vicende politiche in ambito comunitario, ci ha inviato una sua nota in merito all’incontro Intergovernativ o tra Italia e Romania.  

Chi scrive si scusa con l’Ing. Sinisi dal momento che – per un disguido tecnico dovuto all’accavallarsi di eventi significativi nello scacchiere internazionale – il suo interessantissimo intervento non è apparso ai Lettori di BETAPRESS.IT con l’usuale nostra tempestività.

La mattina del 15 febbraio, si è svolto il vertice intergovernativo tra Italia e Romania a Villa Pamphilj, dove il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha accolto il primo ministro romeno Marcel Ciolacu.

Questo è stato il terzo vertice tra i due paesi, evidenziando la continuità dei rapporti diplomatici.

Ciolacu ha portato con sé un mazzo di rose bianche per la premier italiana, aggiungendo un tocco di cortesia e gentilezza al momento dell’incontro.

Nel pomeriggio dello stesso giorno, sempre nell’ambito del vertice intergovernativo, si è tenuto un Business Forum presso la Farnesina, che ha visto la partecipazione di circa 200 aziende provenienti da entrambi i paesi.

Le principali aziende italiane operanti in Romania sono state rappresentate da Confindustria Romania, guidata dal presidente dott. Giulio Bertola e dall’Ambasciatore d’Italia in Romania, S.E. Alfredo Durante Mangoni.

L’obiettivo del forum è stato quello di rafforzare ulteriormente i rapporti economici bilaterali, concentrandosi anche su settori innovativi e tecnologie emergenti, con un’attenzione particolare alla transizione ecologica e digitale.

Durante il vertice, Meloni e Ciolacu hanno sottoscritto un impegno reciproco: gli italiani condannati in via definitiva in Romania devono poter scontare la pena in Italia, e viceversa per i romeni nelle carceri italiane.

Questo accordo mira a garantire una maggiore equità nel trattamento dei detenuti e a rafforzare la cooperazione giudiziaria tra i due paesi. Oltre a ciò, sono state firmate sette intese tra Italia e Romania, che spaziano dalla difesa al turismo, passando per la cooperazione nel settore dell’energia nucleare, la cybersicurezza e la formazione dei funzionari pubblici.

Questi accordi evidenziano la vastità e la profondità dei rapporti bilaterali, toccando settori chiave per entrambe le nazioni.

È interessante notare che la delegazione rumena è stata ricevuta anche da Papa Francesco, evidenziando l’importanza dei legami culturali e religiosi tra i due paesi.

Inoltre, il primo ministro di Bucarest ha annunciato il coinvolgimento della Romania nel restauro della Colonna Traiana, un monumento di grande significato storico e culturale per entrambe le nazioni, simboleggiando la volontà di preservare e promuovere il patrimonio condiviso.




Congresso conservatore americano: forse occorre tornare a riveder le stelle.

Primo giorno di un CPAC storico, anche per la UE

Il CPAC è il congresso del mondo conservatore statunitense, ed è ritenuto riferimento per tutto il conservatorismo mondiale, oggi viene definito “sovranismo”.

Per questo vi partecipano delegazioni dei partiti sovranisti di ogni dove.

Oggi in Virginia, in Stati Uniti, prende inizio uno dei CPAC più importanti della storia repubblicana americana.

La causa si può trovare in tutto quanto è accaduto dalle elezioni presidenziali del 2020 ad oggi.

Periodo nel quale il tema dei brogli elettorali durante quelle elezioni non si è mai spento.

Tema sempre messo al centro dal Presidente Trump ed ostentatamente non affrontato dall’attuale inquilino della Casa Bianca e non solo.

Non solo in Stati Uniti.

Il 6 gennaio 2021, infatti, una enorme folla protestava davanti alla sede del Congresso, Capitol Hill, a Washington DC.

Una folla che riteneva che il risultato delle appena avvenute elezioni presidenziali fosse stato invertito attraverso brogli elettorali.

Un fatto storico da molti punti di vista che trovava origine da una inquietante sequenza di eventi.

Dalla, incredibile dichiarazione del candidato Biden alla chiusura dei seggi “oggi non sapremo chi avrà vinto le elezioni”, fatto mai avvenuto in Stati Uniti, a cui fece seguito un black out del sistema elettronico di calcolo per ben tre giorni, per terminare con una, per alcuni inquietante, ripresa del conteggio delle schede elettorali attraverso lo stesso sistema elettronico ed il rovesciamento dell’andamento dello scrutinio in molti Stati della federazione. Improvvisamente le schede erano tutte, il cento per cento, favorevoli a Biden.

Molti elettori statunitensi non credettero alla “casualità” e una parte di loro decise di protestare davanti a Capitol Hill.

Alcuni la invasero. Fatto storico perché mai era stata profanata la sacralità della sede del Congresso americano.

Storico perché, forse ancora di più, quella parte di corpo elettorale statunitense non credeva nella legalità delle elezioni presidenziali svolte nel precedente novembre.

Per la prima volta nella storia della democrazia americana, infatti, il popolo statunitense metteva in dubbio la legalità del voto in tutta la federazione, non in uno Stato come già accadde in Florida nel 2000.

Di tutto questo fu incolpato il Presidente Trump.

Purtroppo, da quel giorno ad oggi, nulla di serio è avvenuto per fare chiarezza su quella giornata e, fatto ancor più sconcertante, su quel voto.

Il “dubbio” nel popolo americano è nel frattempo accresciuto, in molti è divenuto “certezza”.

Questo proprio per la protervia del negare senza documentare la negazione. Doppia negazione, in politica come nella vita, cela sempre una “verità”.

Questo atteggiamento, diciamo così, alla “Marchese del Grillo” ha causato una unica certezza negli analisti e sondaggisti politici, quella che il Presidente Trump ha, tuttora, una gran parte dei cittadini statunitensi dalla sua parte ed è stabilmente avanti per distacco nel risultato elettorale del novembre 2024.

D’altronde l’uomo di Mar a Lago ha sin dal primo momento ritenuto di aver vinto con ampio margine anche quelle del 2020 tanto da aver lasciato al momento di abbandonare il famoso studio ovale uno scritto assai emblematico, quello che diceva a Biden “lo sai che hai perso”.

Certezza, condivisa con il suo popolo, che oggi esplicita dichiarando in ogni dove “vincerò per la terza volta”.

“Terza volta”, appunto, un modo neanche tanto subliminale per ricordare che l’elezione nel 2020 di Biden alla Casa Bianca non ha mai visto superati i dubbi dei primi giorni.

In ogni caso Biden e la sua parte le stanno provando tutte per impedire al leader indiscusso del Partito Repubblicano statunitense di correre alle elezioni del novembre 2024.

Forse sarebbe più corretto dire al leader del movimento sovranista nel mondo.

Un solo caso simile nella storia moderna del nostro occidente tutto, quella giudiziaria di Silvio Berlusconi.

C’è quasi da chiedersi se vi sia qualche “cattivo maestro” italiano a far da consulente a chi sta cercando di usare la magistratura come strumento politico anche in Stati Uniti.

In Stati Uniti, però, le radici democratiche e la fiducia nella necessità di scindere il ruolo politico da quello giudiziario sono molto più profonde.

Questo si comprende nel prendere atto dello scetticismo dei nove membri della Corte Suprema americana ad accogliere positivamente la sentenza della Corte del Colorado che dichiara ineleggibile il Presidente Trump proprio a causa delle vicende di Capitol Hill.

Due dei tre giudici nominati da Obama alla Alta Corte, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson, hanno dichiarato, infatti, che “permettere ad uno stato di decidere chi può candidarsi per una carica nazionale è un pericoloso precedente da evitare”.

La giudice Kagan, in particolare, ha ampliato la propria preoccupazione al fatto che “consentendo al Colorado di rimuovere Trump dal ballottaggio si creerebbe un precedente pericoloso nel conferire ai singoli Stati un potere straordinario che permetterebbe ad un singolo Stato di influenzare le elezioni nazionali”.

La giudice Kagan ha continuato dichiarando che “pur continuando a ritenere che il Presidente Trump sia responsabile di quell’assalto alla sede del Congresso americano, la Costituzione non autorizza un singolo Stato ad escludere un candidato per la presidenza federale degli Stati Uniti” ed ancora “sarà compito del Parlamento, nel caso lo ritenesse, di attivare una procedura di impeachment nei confronti del neo eletto, se dovesse vincere le future elezioni presidenziali, Presidente Trump per quanto avvenne il 6 gennaio 2021”.

Lezione alta di cultura democratica!

A causa di questa molti iniziano ad essere assai convinti che fermare la corsa vincente del leader repubblicano sia, oramai, impossibile.

“La protesta del 6 gennaio a Capitol Hill fu pacifica e patriottica” ha detto l’inquilino di Mar a Lago dopo l’udienza della Corte Suprema che molto probabilmente produrrà la sentenza entro il Super Tuesday del 5 marzo.

Anche questo è un messaggio chiaro e forte.

Quel martedì 15 stati voteranno per le primarie e il mondo, non solo gli statunitensi, saprà chi correrà a novembre per i repubblicani e, a guardare i sondaggi, questi vincerà le presidenziali.

La Corte Suprema visse un momento in cui fu chiamata a decidere chi avrebbe governato gli Stati Uniti nel 2000 allorquando annullò il riconteggio dei voti in Florida determinando la vittoria di Bush contro Gore.

L’opinione pubblica, in quell’occasione, ritenne la decisione della Corte Suprema una sentenza politica, per cui lontana da quella terzietà che la Costituzione americana garantisce ai membri della Corte attraverso la nomina a vita.

Anche nel 2022 una sentenza dell’alta corte fu ritenuta politica allorquando essa rovesciò la sentenza Roe contro Wade in ordine al diritto costituzionale ad abortire.

In questa occasione, da quel che si apprende dai media, sembrerebbe veramente che la Alta Corte voglia tenere al centro il dettato costituzionale a prescindere dalle opinioni che i singoli membri hanno sia sulla vicenda di Capitol Hill sia sulla figura del Presidente Trump.

Dovesse confermassi questo noi cittadini occidentali tutti non potremmo che esserne lieti, una sentenza basata esclusivamente sul diritto e non sulla ideologia politica sarebbe una lezione per molti, anche magistrati, nel mondo.

Allo stesso tempo tutto questo sta aprendo degli scenari particolarmente interessanti sul fronte democratico americano.

Mentre fino a pochi giorni fa nei salotti dei bene informati si sentiva sempre più spesso parlare di Michelle Obama come candidata democratica alle presidenziali del 2024, gli stessi salotti oggi iniziano con forza a ritenere la candidatura della consorte dell’ex presidente degli Stati Uniti come improbabile.

La motivazione è chiara, il presidente Trump è ritenuto un avversario “non affrontabile” perché amato e “voluto” da una gran parte del popolo americano e la famiglia Obama non ama rischiare di perdere.

Anche da questo cambio di orientamento si può facilmente comprendere che la possibilità che il mondo tutto, la nostra Italia forse più di altri, dovrà confrontarsi nuovamente con il Presidente Trump è sempre più vicina.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto lottare come una belva per difendersi da attacchi di ogni genere.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto accettare di subire molte umiliazioni che reputa totalmente dovute a quei brogli che lui è certo ci siano stati.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto vedere il suo popolo soffrire ed impoverirsi a causa di una leadership alla Casa Bianca che lui ritiene inetta.

Un uomo che in questi quattro anni ha dovuto vedere suoi amici e sostenitori subire processi, andare in carcere, essere ghettizzati, per il solo fatto di non averlo abbandonato e tradito dopo il 2020.

Un uomo che in questi quattro anni, proprio da tutta questa sofferenza, ha imparato molto e, lo si vede facilmente seguendolo, vuole tornare per mettere le cose a posto.

Tutte a posto, al loro posto.

Ovunque.

Ignoto Uno

 

Ettore Lembo News




L’Italia Trionfa al Festival di Los Angeles “Kick The Rules”

“Lia non deve morire” di Alfonso Bergamo Trionfa al Festival di Los Angeles “Kick The Rules”

Los Angeles, CA – Il cortometraggio “Lia non deve morire”, diretto dal premiato regista Alfonso Bergamo e

scritto in collaborazione con Valentina Morricone, ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di Best Short

Film al festival “Kick The Rules” di Los Angeles.

Il Festival “Kick The Rules” è  uno degli appuntamenti cinematografici più significativi della California.

Il film è stato premiato grazie alla qualità narrativa e registica di Alfonso Bergamo e per le eccellenti musiche composte

da Sergio Cammariere.

Al film sono andati anche i premi per Miglior Corto LGBTQ e Miglior Fotografia diretta, questa, da Daniele Poli.

Alfonso Bergamo
Alfonso Bergamo

Il cortometraggio

“Lia non deve morire” esplora la lotta interiore di Vincenzo, un stand up comedian sposato e padre che si

confronta con la parte di sé che ha sempre rifiutato di accettare: Lia, la sua “amica immaginaria” e

allontanata dal padre durante l’infanzia.

Un giorno il suo segreto viene scoperto dalla figlia e Vincenzo si ritrova di fronte a una scelta drammatica che lo porterà a un confronto finale sul binario 3 di una stazione ferroviaria.

Angela, unica spettatrice del suo ultimo atto, tenterà di salvare Vincenzo da un gesto estremo, dimostrando che Lia esiste e non deve morire.

Alfonso Bergamo, attraverso questo potente cortometraggio, tocca tematiche delicate come l’identità di genere, l’omofobia e il suicidio, evidenziando come quest’ultimo rappresenti una realtà troppo spesso ignorata, soprattutto quando legata alla

discriminazione.

“L’arte – afferma Bergamo – è resistenza al tempo e alla morte, e con ‘Lia non deve morire’ vogliamo offrire la forza di resistere a chi si trova in situazioni emotive simili”.

La produzione

La produzione è stata curata da GiKa Production, sotto la guida di Gian Gabriele Foschini e Francesca

Cornelia Tosetti.

Co-produzione con BRANDOS Film e Produttore Associato Giuseppe Esposito.

Chi è Alfonso Bergamo

Alfonso Bergamo, ha recentemente terminato la lavorazione per il suo ultimo film “The Garbage Man”, con

Paolo Briguglia, Tony Sperandeo, Randall Paul e Roberta Giarrusso.

Attualmente ha creato una community di attori e artisti in tutta Italia con l’obiettivo di tessere una rete solidale nel mondo dell’arte e del cinema.

Il progetto ha già coinvolto oltre 300 partecipanti, dimostrando l’impatto e l’importanza dell’iniziativa.

Il cortometraggio verrà presto reso disponibile sulla piattaforma WeShort, rendendolo accessibile a un pubblico ancora più ampio.




Critica d’arte, Paolo Battaglia La Terra Borgese: critica artistica è la corretta definizione

 

Intervista al critico d’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese: criticare la critica artistica

Lei, Battaglia La Terra Borgese, ha di recente affermato che la riflessione su un’opera d’arte, allo scopo di conoscerla e di giudicarla, consiste nel compito ultimo di insegnare a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Vorremmo dunque e intanto sapere, in proposito, se sia più corretto dire critica d’arte o è giusto dire critica artistica?

È migliore, e certamente più corretto, sostenere critica artistica, poiché critica d’arte nasceva dal fatto che quello del critico d’arte fosse un ruolo, un tempo, esclusivamente o prevalentemente maschile, oramai questa definizione va considerata del tutto superata, e per critica d’arte deve necessariamente intendersi un critico d’arte donna, cioè una donna la cui professione è quella di critica d’arte, così come avvocata, ministra e via dicendo. I critici, uomini o donne che siano, si occupano dunque di critica artistica.

Ma è possibile criticare la critica artistica?

Se vogliamo distinguere, anche perché è doveroso! e dal punto di vista professionale perfino obbligatoriamente etico, e soprattutto perché ricorre un dovere intellettibile per differenziare un critico d’arte da un showman televisivo o dall’intrattenitore di una mostra, possiamo a nostra volta valerci della critica finta tipica degli imbonitori: è quella che va bene per qualsiasi artista di qualsiasi tendenza, quella superlativamente descritta nel 1971 dal milanese Bruno Munari, grande artista e designer capace: “Con la sua personale tecnica e con un modo di esprimersi del tutto adeguato, attraverso segni, colori, forme e materie particolari, il Nostro ci propone, nelle sue opere, delle sensazioni elaborate secondo il suo schema, alle quali lo spettatore è libero di partecipare o meno. Il lungo e paziente lavoro, fatto sotto la guida spirituale del suo grande maestro preferito, giorno dopo giorno, nel segreto del suo luminoso studio al settimo piano di via Roma 18, lo ha condotto a queste inevitabili scelte. Le sue opere sono quindi il frutto prezioso di una ispirazione personale e di una esperienza che il Nostro ha dovuto farsi da solo, a tu per tu col mondo esterno dal quale capta il bene e il male. Non si può negare il valore artistico di queste opere proprio per le qualità specifiche che le formano. Ancora una volta il Nostro ci dimostra le sue qualità estetiche con rara coscienza ed esemplare equilibrio… I veri critici d’arte termina Munaridovrebbero protestare vivacemente contro questo malcostume che ridicolizza il lavoro serio di una categoria socialmente valida quando aiuta la gente a capire. Il danno che può provocare questa falsa critica va tutto a scapito della critica vera per cui il pubblico, non avendo la possibilità di giudicare l’opera di questi falsari, mescola falsi e buoni in un unico calderone.”

Il vero critico, quello migliore, chi è?

Quando il lavoro del critico si rivolge al pubblico, il professionista insegna a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Quello è il vero critico, e non ne esiste uno migliore degli altri, perché la critica artistica non ha mai fine: ogni professionista esperto aggiungerà sempre qualcosa all’impianto critico già costituito.

Siamo tutti in grado di comprendere l’arte?

C’è un’enorme differenza di contatto: occorre mostrare agli inesperti soltanto il valore della scena delle opere in senso lirico e concettuale, per educare al gusto e alla definizione dello stile, un po’ come fa la guida nei musei; il valore estetico e quello puramente tecnico-artistico-costruttivo deve invece essere diretto agli addetti ai lavori, per non creare all’inesperto confusione tra arte ed erudizione».

Secondo una sua battuta che abbiamo rispolverato, in Italia ci sono più pittori che Vendesi ai muri! Ci può dire quali sono i dati reali?

A proposito di muri, mi si conceda una nota a favore dei murali, dove molto frequentemente si rileva una perizia o un talento singolare. Il muralismo meglio dei monumenti, avvicina l’arte figurativa alla gente, sia perché è esso stesso che si porta agli occhi dei passanti e non il contrario, quanto perché in maniera esplosiva e catturante, con le sue superfici di grande estensione, con effetti ipnotici creati dalla magistrale bravura tecnica dei suoi autori, trasmette, risveglia e promuove la sensibilità estetica. A differenza delle decine di migliaia di c.d. opere che se pure esposte – ogni anno nelle oltre 4.200 sedi del sistema espositivo italiano dove si inaugurano 40 mostre al giorno per un totale di circa 15.000 mostre annuali – non producono bellezza. È facile intuire da questi dati che possa non trattarsi sempre di vera arte.

Siamo dunque alla mistificazione dell’arte? Possiamo dirlo?

Ad alta voce. In pochi sanno tradurre la forma in valori d’espressione, sanno cioè fondere i contenuti con la forma. Assistiamo così a un generale risibile rifiuto della forma che in realtà nasconde l’incapacità artistica dei più.

Un’ultima domanda: come acquistare un’opera d’arte in sicurezza?

A rassicurarci è la congruità del prezzo sollecitato. Occorre richiedere sempre al pittore o allo scultore che non lo esibisca palesemente il suo coefficiente d’arte, che deve immancabilmente essere certificato e calcolato da un critico d’arte di chiara fama: non sono bastevoli assegnazioni, aggiudicazioni d’asta e musealizzazioni.




Pace, solidarietà e democrazia: Europa.

Il 17 luglio 1979, durante la prima seduta del primo Parlamento europeo direttamente eletto, il nuovo Presidente del Parlamento, Simone Weil, sottolineò con parole molto toccanti l’importanza dei valori europei di pace, solidarietà e democrazia.

Secondo l’ottica del proprio humus culturale e del personale impegno sociale, Simone Weil affronta la “lettura” della domanda “Quale Europa per il Futuro?” o, meglio: “Quale Futuro per quale Europa?”.

Un’analisi lucida e appassionata, con riflessioni embricate fra loro, colte e misurate, sintetiche ed efficaci, di fronte al clima che si sta insinuando nelle società europee e, in particolare, in quella italiana, riguardo al futuro dell’Europa – e di fronte al nuovo nazionalsocialismo con il quale l’Unione Europea si deve confrontare, così come sui programmi europei; osservando le sfide e interrogandosi sulle risposte possibili.

Di fronte a questo panorama complesso, si trovano sentimenti alimentati dall’ignoranza della realtà, dal fanatismo arrogante e dalle ambizioni sovraniste: «le civiltà non muoiono, ma si suicidano, perché non danno risposte adeguate alle sfide in atto» – diceva Arnold Toynbee – e questa tesi si adatta perfettamente alla situazione attuale dell’Europa, oggetto e soggetto di sfide che vanno da quelle esterne, globali, a quelle interne, culturali.

Alcune di esse possono essere considerate esiziali, per il grado di civiltà raggiunto dall’Europa: Ambiente, Migranti, Guerre, Terrorismo, Sicurezza, Populismo, Sovranismo, Austerità, nuove Autarchie, negazionismi vari, ma anche i nuovi razzismi, l’antisemitismo risorto e mai sepolto, l’intolleranza del diverso – ammesso che esista «un diverso» – secondo un canone unico di discrimine di chi è diverso da chi, per cosa, in quale contesto.   

Fondamentali risultano i richiami alla Coscienza, alla Democrazia, all’Etica, alla Coerenza, alla Laicità (da intendersi come quella affermazione della libertà di pensiero e di culto che trova limiti solo nel rispetto della libertà di pensiero e di culto altrui e come valore etico che favorisce l’armonia sociale ed il dialogo fra le diverse confessioni), alla Libertà e alla Responsabilità.

Un occhio cinico e disincantato potrà leggere queste parole e giudicarle «desuete». Esse sono, invece, più che mai attuali, e saremo noi europei ad essere «desueti» o, meglio, «suicidati», se non vi rifletteremo con un po’ di attenzione – prima che sia troppo tardi, per tutti.

Barbara de Munari, 20 febbraio 2024

 

Di seguito, pubblichiamo alcuni stralci del discorso di Simone Weil.

 

«Non possiamo dimenticare i successi sostanziali delle Assemblee che ci hanno preceduto, ma voglio ora sottolineare con forza il nuovo passo fatto dalle Comunità Europee con questo Parlamento eletto, per la prima volta, a suffragio universale diretto.

È infatti la prima volta nella storia, una storia in cui così spesso siamo stati divisi, contrapposti, dediti alla distruzione reciproca, che i popoli europei hanno eletto insieme i loro delegati in un’assemblea comune che rappresenta, in questa Camera oggi, più di 260 milioni di persone.

Non si lasci adito a dubbi: queste elezioni sono una pietra miliare del percorso dell’Europa, la più importante dalla firma dei Trattati.

È vero che i sistemi elettorali variano ancora da uno Stato membro all’altro – e questo è stato stabilito dall’Atto del 20 settembre 1976 sull’elezione dei rappresentanti dell’Assemblea a suffragio universale diretto – e starà a noi delineare un sistema elettorale uniforme per le elezioni future.

Questo è un compito al quale, insieme a voi, dedicherò le mie energie.

Qualunque sia il vostro credo politico, siamo tutti consapevoli che questo passo storico, l’elezione del Parlamento Europeo a suffragio universale, è stato compiuto in un momento cruciale per il popolo della Comunità.

 

Tutti i suoi Stati membri si trovano ora di fronte a tre grandi sfide: la sfida della pace, la sfida della libertà e la sfida della prosperità, e sembra chiaro che esse possano essere affrontate solo nella dimensione europea.

 

Iniziamo con la sfida della pace.

In un mondo in cui l’equilibrio dei poteri finora ci ha permesso di evitare la violenza suicida di un conflitto armato fra le superpotenze, le guerre localizzate, per contro, hanno proliferato. Il periodo di pace di cui abbiamo goduto in Europa è stato una fortuna incredibile, ma nessuno di noi dovrebbe sottovalutarne la fragilità.

C’è bisogno di sottolineare la novità di questa situazione in Europa, la cui storia è un lungo capitolo di guerre fratricide e sanguinarie?

Come i suoi predecessori, anche la nostra Assemblea, indipendentemente dalle differenze che ci sono tra noi, ha una responsabilità fondamentale per mantenere la pace, che probabilmente è la risorsa più importante di tutta l’Europa.

La tensione che prevale nel mondo di oggi rende questa responsabilità ancora più grave, e la legittimità conferita a questa Assemblea dall’elezione a suffragio universale, speriamo, ci aiuterà a farcene carico, e a diffondere questa nostra pace nel mondo esterno.

 

La seconda sfida fondamentale è quella della libertà.

Le frontiere del totalitarismo si sono espanse così tanto che le isole di libertà sono circondate da regimi nei quali prevale la forza bruta.

La nostra Europa è una di queste isole; accogliamo dunque con gratitudine il fatto che la Grecia, la Spagna e il Portogallo, con tradizioni antiche come le nostre, si sono aggiunti alle fila dei Paesi liberi.

La Comunità sarà contenta di accogliere anche loro.

Anche qui, la dimensione europea dovrebbe aiutare a rafforzare la libertà il cui valore troppo spesso non viene colto finché non è perduta.

 

Infine, l’Europa deve affrontare la grande sfida della prosperità, il che per me vuol dire far fronte alla minaccia ai nostri livelli di vita posta da quello sconvolgimento essenziale che negli ultimi cinque anni è stato sia scatenato, sia rivelato in tutta la sua ampiezza, dalla crisi petrolifera.

Dopo avere sperimentato per una generazione una rapida e continua crescita nei livelli di vita senza precedenti nella storia, ogni Paese in Europa ora si trova di fronte a una sorta di guerra economica che ha portato al ritorno di quella piaga dimenticata, la disoccupazione, e sta minando la crescita degli standard di vita.

Questo sconvolgimento sta portando a cambiamenti di ampia portata.

Nei nostri Paesi, ognuno è pienamente consapevole che il cambiamento è inevitabile, ma allo stesso tempo lo teme.

Tutti si aspettano garanzie, salvaguardie e azioni di rassicurazione dai governi e dai rappresentanti eletti, a livello sia nazionale che locale.

 

Tutti noi sappiamo che queste sfide, la cui portata viene avvertita in tutta l’Europa con pari intensità, si possono affrontare in modo efficace solo con la solidarietà.

Oltre alle superpotenze, solo l’Europa è un’entità capace di svolgere le azioni necessarie, che superano quelle di ogni singolo membro isolato.

Tuttavia, per agire efficacemente, le Comunità Europee devono unirsi e raccogliere le forze. Il Parlamento Europeo, che ora è eletto a suffragio universale, in futuro sarà il portatore di una speciale responsabilità.

Se dobbiamo affrontare le sfide che l’Europa ha di fronte, abbiamo bisogno di un’Europa capace di solidarietà, di indipendenza e di cooperazione.

Per «Europa di solidarietà» intendo solidarietà fra i popoli, le regioni e gli individui.

Nelle relazioni fra i nostri popoli non vi può essere questione di passare sopra o di trascurare gli interessi nazionali fondamentali di ciascuno Stato membro della Comunità.

Tuttavia, è senza dubbio vero che, molto spesso, gli interessi di tutti sono soddisfatti meglio da soluzioni europee piuttosto che da una persistente opposizione a esse.

Mentre nessun Paese può considerarsi esente dalla disciplina e dagli sforzi che ora sono richiesti a livello nazionale dai nuovi vincoli di carattere economico, la nostra Assemblea deve continuamente far pressione per una riduzione delle disparità esistenti, dato che un deterioramento della situazione distruggerebbe l’unità del Mercato Comune e, con essa, la posizione privilegiata di alcuni dei suoi membri.

 

La solidarietà sociale, o, in altre parole, la riduzione delle diseguaglianze economiche e a volte finanziarie, è necessaria anche se si vogliono ridurre le disparità regionali.

La Comunità ha già preso misure pratiche ed efficaci in questo campo e dovrebbe continuare a perseguire questa politica finché i risultati non siano proporzionati alla spesa.

La politica dovrebbe anche adattarsi per gestire la situazione, non solo nelle regioni tradizionalmente depresse, ma anche nelle regioni considerate fino a poco fa forti e prospere, ma ora afflitte da disastri economici.

 

Infine, e cosa ancora più importante di tutte le altre, bisogna promuovere la solidarietà tra gli uomini. Nonostante i progressi reali, e certamente notevoli, raggiunti in questa sfera negli ultimi decenni, molto rimane da fare.

Tuttavia, in un tempo in cui tutti i cittadini dovranno senza dubbio accettare il fatto che l’aumento nei livelli di vita dovrà fermarsi o progredire più lentamente, e accettare altresì la frenata nella crescita della spesa pubblica, i sacrifici necessari non dovranno essere affrontati senza una reale riduzione delle diseguaglianze sociali».

 

SIMONE WEIL, Parlamento Europeo, 17 luglio 1979

 

 

 




IL SONNO DELLA RAGIONE

 

C’è una parola, che dovrebbe appartenere al frutto acquisito della Storia, trasparente e matura, di cui oggi si fa abuso: si tratta della parola «Libertà».

Peccato che molti non stiano parlando della stessa «cosa», o meglio, che non si attribuisca a questa parola lo stesso significato, in sostanza, lo stesso valore.

Che cosa è andato storto?

Come è possibile che un improvviso velo oscuro sia calato sulle menti, ottenebrandole?

Come è possibile che quel dono fragile, umile, prezioso, ineliminabile, sia improvvisamente andato in frantumi – disperso in mille pezzi?

E fa male, è doloroso, leggere con quanta disinvoltura la parola «Libertà» sia usata, trascurandone – non si sa se volontariamente o per ignoranza – le valenze e le implicanze, perché la Libertà, come la Memoria, è «cosa» preziosa, fragile, delicata e importante. 

 

Da Socrate e Platone in poi, si ragiona sul concetto di «Libertà».

Abbiamo capito che si tratta non di un concetto assoluto ma di un concetto relativo: esiste la «libertà da…», la «libertà di…»;  abbiamo imparato che la libertà si deve eticamente rapportare con il mondo e, in questo mondo, ciascuno è, o dovrebbe essere, responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni.

Plotino, va oltre, e riconduce la libertà del volere non a un impulso, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza».

 

La libertà è, di solito e a ragione, invocata a proposito delle rivendicazioni e delle difese dei «diritti» dell’essere umano: diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, alla comunicazione, all’informazione, alla proprietà, al muoversi e all’associarsi, al difendere le proprie opinioni, al praticare il proprio culto religioso, e così via.

Meno di frequente, anzi mai, in questo periodo, la libertà è messa a confronto con la «Responsabilità»: responsabilità di fronte alle azioni compiute; responsabilità di fronte alle scelte fatte o da fare; responsabilità sulla verità di quello che si dice e sulle testimonianze che si rendono; responsabilità come dovere di rispondere delle proprie azioni, semplicemente e arrogantemente non rispondendo alle domande e alle richieste di quanti rimangono delusi, stupefatti, indignati, o rispondendo deviando, o cercando di deviare, l’attenzione su falsi problemi.

Si rimane toccati e coinvolti, o anche solo più consapevoli, attoniti di fronte alla totale mancanza di coerenza.

Ci si sente come traditi, nel profondo del nostro essere, delle nostre anime.

E assistiamo al dilagare dell’ignoranza, della mancanza di una cultura, anche minima, e dell’abuso di potere.

 

L’abuso dei poteri è prassi: fatti più o meno gravi sono volutamente ignorati: non se ne parla, o se ne parla il meno possibile, sperando che ci se ne dimentichi in fretta.

Se, per caso, si denunciano situazioni grottesche, ben oltre il limite del ridicolo, ci si difende dicendo: «È tutto un equivoco. Avete frainteso. Non mi avete capito».

Dobbiamo avere ben presente che la libertà è violata e impedita ogni volta che si ostacolano i diritti, e questo può essere fatto in tante forme, dalle più aperte e manifeste, a quelle più nascoste e insidiose.

A fronte di determinate situazioni e pur di preservare la propria sfera, il proprio «cortile dietro casa», spesso al singolo non interessa partecipare, preferisce rinunciare, tacere.

 

Ed è qui, in questa frattura, che altri si inseriscono abilmente.

Abilmente e senza scrupoli.

Il singolo è indotto a dimenticare che ognuno di noi è responsabile anche nei confronti di chi c’era prima, di chi c’è ora, e di chi ci sarà dopo. 

Perché la storia non comincia da me.

Prima di me dovrebbe esserci sempre «l’altro» che mi interroga, a cui sono chiamato a rispondere.

Perché è in questa «tensione verso l’altro» che dovrebbe orientarsi l’agire umano, guidato da princìpi che, per quanto possibile, se pur relativi, tendano all’universalità.

 

In un libro di Hannah Arendt,  «Tra passato e futuro», si considera la crisi in vari settori dell’agire umano, determinata da una lacuna (o frattura) nell’agire, che interrompe qualsiasi solco etico e morale sia stato tracciato dalla tradizione.

Hannah Arendt coglie questo aspetto, evidenziandolo con l’aforisma del poeta René Char «La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento», per indicare che il filo della tradizione si è spezzato e manca di continuità.

Ciò rappresenta un aspetto importante poiché permette di scoprire che cosa, e perché, è andato perduto nella voragine attuale, tra passato e futuro.

Negli ambiti in cui ognuno si muove e agisce, questa voragine rende ogni giorno di più qualcuno vittima e, se da questa voragine si «deve» uscire, in questa voragine, invece, qualcun altro sembra muoversi a proprio agio.

 

Barbara de Munari in supporto alla redazione di Betapress




OPERA D’ARTE: IL PREZZO RAPPRESENTA IL VALORE? (di Paolo Battaglia La Terra Borgese)

Come avviene nel mercato dell’automobile piuttosto che del tonno in lattina, realmente il valore economico dell’opera d’arte non è mai veramente proporzionale alla dote estetica e al dato qualitativo.

Le leggi dell’economia per le contrattazioni dei beni regolano la fruizione e trattano l’opera come un prodotto qualsiasi, per poterne budgettizzare le singole voci e arrivare alla determinazione del prezzo finale tenuto conto del sistema globale.

Dai Sofisti a Platone fino all’Aesthetica del filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, il problema del Vero rispetto al Buono e al Bello afferisce all’opera d’arte nel senso più largo delle nozioni, e Socrate avvertiva “Non necessariamente ciò che non è bello e buono è brutto e cattivo”; ma sarà Vero e reale, c’è da chiedersi?

Puro no di certo, se si parla di soldi.

Nel sistema dell’arte a noi contemporaneo, e forse da sempre, l’opera – abbiamo detto – è sottomessa ad un vero e proprio marketing come qualsiasi prodotto in vendita.

È ampiamente accettata valida a tal proposito l’esemplificazione del noto critico d’arte italiano Achille Bonito Oliva, secondo cui l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il mercante vende, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano, il pubblico contempla.

Oggigiorno la strutturazione internazionale dell’attività artistica si edifica su rapporti ascendenti il tramaglio mondiale delle gallerie e il tramaglio mondiale delle istituzioni culturali.

La distesa culturale dove si opera con valutazioni lo studio del bello e le piazze mondiali dell’arte dove vivono le negoziazioni e le alienazioni delle opere, combinano sinergicamente la determinazione del valore degli artisti e delle loro opere; Francesco Poli docet.

Si comprende bene che, decidendo di cosa musealizzare, anche le preferenze di direttori e conservatori di museo intervengono conseguentemente sulla determinazione del valore artistico; e ancorché queste scelte siano dettate dalle finanze a disposizione esse influenzeranno inevitabilmente il mercato stesso.

Per dirla alla Oscar Wilde: oggigiorno si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente.

Testi critici, libri monografici, bibliografia, sitografia, cataloghi commentati, mostre in residenze pubbliche o prestigiose, fiere, opere musealizzate, collezionisti che contano, quotazioni ufficiali certificate da esperti di chiara fama, battute e aggiudicazioni d’asta, reference galleries e vastità dei territori di distribuzione concorrono a costituire il coefficiente di quotazione dell’artista, valore, questo, indispensabile per calcolare il prezzo esatto delle sue opere, ferme restando le variabili che incidono a seconda dei supporti utilizzati e delle capacità tecniche ed estetiche espresse nel dato degli elementi contestualizzati in ogni singolo lavoro.

Per dirla con le parole di uno degli artisti attualmente più pagati negli Stati Uniti, Jeff Koons: «l’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo», alias: il problema non è fare il quadro ma venderlo.

Il grosso problema discrasico del collezionista d’appartamento risiede invece nella volontà di tesoreggiare la creazione dell’artista, dunque nel comprare in certezza di qualità e garanzia di mantenimento di valore – quasi stesse lui acquistando una lavatrice che continui a funzionare nel tempo – separando il problema del bello dal problema dell’uomo, come rilevava Giovanni Paolo II riferendosi però agli artisti moderni.

Baudelaire, Dante e anche Eliot avvertivano che per creare il bello l’uomo deve prima cercare in tutte le forme delle manifestazioni in natura, uomo compreso, per poterne attingere.

Il collezionista commette l’errore di voler considerare l’acquisto di un’opera d’arte quale trasformazione di risparmio in capitale (opera d’arte), ma l’investimento – per sua nozione – può rivelarsi sia buono quanto sbagliato, e l’investimento giusto per definizione è collega dei prodotti per la ricrescita dei capelli: non esiste.

Perfino le grandi organizzazioni di lobbisti museali internazionali, le principali gallerie di importanza mondiale e le principali case d’asta – veri mercanti di oggi – potrebbero fallire puntando su taluni o talaltri artisti.

E l’acquisto giusto?

Il migliore affare è indubbiamente quello che fa coincidere il prezzo dell’opera col suo valore economico reale del momento.

Rivolgersi sempre a un critico d’arte di chiara fama è buona regola per verificare la legittimazione degli autori a quella fascia di prezzo e sulla possibilità nel mercato di opere di altro artista di eguale valore qualitativo ma di valore commerciale ben diverso.

Oltretutto è facile incappare in artisti che spessissimo propongono ingenuamente le loro opere al potenziale compratore a prezzi privi di qualsiasi fondamento: in termini di sottocultura, questi autori sono stati convinti dagli sfruttatori degli artisti dilettanti, a credere in una intima relazione fra quantità di mostre, numero di pubblicazioni e valore delle proprie opere.

Si tratta di galleristi ai quali non occorre nessuna competenza artistica in quanto non hanno loro nessun obiettivo di scelta e di vendita, ma hanno semplicemente il fine di affittare lo spazio dei propri locali ad artisti sprovveduti che anelano di esporre in pubblico le proprie opere, e magari vincere qualche premio; e si tratta inoltre di editori di cataloghi e libri d’arte dove gli artisti possono essere inseriti comunque a fronte di un pagamento, indipendentemente da ogni capacità vera e reale.

Per onestà di cronaca corre il dovere di segnalare che a fronte di tali attività operano nel mercato alcune gallerie impegnate realmente in un serio lavoro culturale, come pure fanno quei mercanti che sono una vera e propria garanzia per i collezionisti di una certa raffinatezza.

È qui utile infine segnalare all’artista le fiere importanti.

Casomai ritenesse opportuno parteciparvi egli sappia che la più antica è la kunstmesse di Colonia, in Germania; che oltre al noto mercatone di quadri e affini che si svolge a Venezia sotto il nome di Biennale, in Italia quella più importante e alacre in assoluto è la Fiera di Bologna, seguita per il buon livello di qualità da Artissima di Torino.

Oltre che a Colonia fuori dall’Italia nel mondo sono importanti Internationale kunstmesse di Basilea, Frieze di Londra, Armory Show a New York, ARCO a Madrid e Foire Internationale d’Art Contemporain di Parigi, e ancora in Italia Miart a Milano, oltre a fiere che si tengono ad Amsterdam, Chicago, Dubai, Francoforte, Los Angeles, Nizza, Shanghai e Stoccolma.

Da segnalare anche Manifesta per la sua peculiarità di edizione itinerante.

 

PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE




Il Bandecchismo II parte.

 

Nel precedente articolo dal titolo “Il Bandecchismo” abbiamo iniziato a trattare un fenomeno politico e sociale a cui il grottesco Sindaco di Terni ha dato vita sin dalle elezioni del Maggio 2023 e che ha colorato con i toni delle drammaticità che non hanno risparmiato attacchi ai diritti civili,  frasi sessiste,  banalizzazione dei femminicidi, fino ai reati di aggressione fisica e verbale.

Una parodia grottesca che ha trovato il culmine nelle dimissioni annunciate il 7 febbraio 2024 e poi ritirare appena due giorni dopo senza apparenti ragioni politiche: qualche screzio con il proprio partito ma nessun rimpasto di giunta, nessuna modifica del programma politico, nulla, in sintesi, che giustifichi il siparietto  delle dimissioni revocate.

In realtà, come ho sostenuto in diversi occasioni, il Sindaco Bandecchi si è dimesso il 7 febbraio allo scadere del termine dei 180 giorni entro i quali il Prefetto di Terni avrebbe dovuto esprimersi rispetto agli esposti ad iniziativa popolare ex art 70 Tuel presentati da cittadini lo scorso 7 e 8 Agosto 2023 e relativi alla incompatibilità alla carica di primo cittadino del manager Bandecchi che era già stata dichiarata da un Parere del Ministero dell’Interno già pubblicato il 3 Agosto e trasmesso al Prefetto di Terni che tuttavia resta nel Suo silenzio impenetrabile.

Il tema della incompatibilità nasceva per il fatto che Bandecchi era al tempo stesso patron della Ternana Calcio e (quindi titolare dei terreni sui quali sarebbero dovuti sorgere il Nuovo Stadio di Calcio ed una Clinica privata convenzionata con il SSN)   Sindaco della Città (che aveva già definito opere pubbliche i due interventi e ne avrebbe gestito la realizzazione) .

Una situazione nella quale il nostro simpatico Sindaco si sarebbe trovato nel ruolo scomodo e illegale di commissionario e committente.

In realtà il Sindaco Bandecchi mise in essere una serie di operazioni societarie che apparentemente rimossero il conflitto d’interessi ma solo apparentemente perché Bandecchi è in realtà l’UBO Ultimate Beneficiary Owner del Gruppo Unicusano e delle sue consociate estere, quindi colui che ne assicura con continuità il governo nazionale ed internazionale.

Vero, altresì, che un pronunciamento del Prefetto anche tardivo in favore della incompatibilità riaprirebbe un dossier scomodo per il Sindaco di Terni che si troverebbe magari a dover chiarire i movimenti societari posti in essere nella galassia di aziende del suo gruppo: un caso per tutti la Nuova Ternana Calcio venduta nel 2023 all’imprenditore Guida che gestisce, tuttavia, con un modesto  5% del capitale sociale che sarebbe, altresì, detenuto concentrato nelle mani di una Holding denominata N21 completamente schermata…

Con la revoca delle dimissioni, ed è questo l’oggetto dell’articolo,  Bandecchi si allontana dal dibattito dissolvendosi dal passato dal presente e dal futuro della comunità politica e civile.

Quello che oggi deve essere indagato e scardinato, dunque, finito Bandecchi è il “bandecchismo”, l’attitudine cioè a tollerare, a non censurare, a  perdonare le manifestazioni politiche del Sindaco sia d’indirizzo amministrativo  nella attività di giunta sia nelle esternazioni fatte pubblicamente In molte occasioni.

Una comprensione che sposta il focus dal Sindaco alle Istituzioni  democratiche, alle forze politiche ad al ceto elettorale.

In primo luogo bisogna chiedersi cosa aspetti il Prefetto di Terni ad intervenire sulla questione descritta e ciò non soltanto in forza degli esposti presentati e rimasti ancora senza risposta ma anche alla luce dell’utilizzo personale che il Sindaco di Terni ha fatto delle Istituzioni rappresentative in violazione di qualsiasi normativa e regola, anche, di buon senso.

Inutile ricordare che l’art 53 del Tuel non prevede in alcun modo una dimissione del Sindaco immotivata e sostenuta da propositi mendaci né una revoca sostenuta da motivazioni razziste: avrebbe revocato le dimissioni per non lasciare il Governo della città alle opposizioni definite come “animali”.

In secondo luogo ci sono tracce di bandecchismo nella reattività delle opposizioni  consiliari che appaiono lente ed ossequiose rispetto all’assunzione di strategie  di contrasto forti  ed incisive.

Basti ricordare che uno degli esposti al Prefetto in ordine alle incompatibilità del Sindaco è stato presentato dai consiglieri di centro destra.

Dare seguito, nei confronti del Prefetto, a quell’esposto darebbe un segno importante alla città.

In terzo luogo il bandecchismo, nonostante le sue mille contraddizioni, delude nei sondaggi nazionali ma resta a forte a Terni, una città stretta da agonia del passato industriale, chiusura delle attività commerciali ed il vuoto di un progetto di rilancio mai realizzato.

Il popolo di Bandecchi sembra sostenerlo malgrado tutto e gli altri, la maggioranza, anche quelli che non lo votarono o non andarono alle urne restano assenti, distanti, forse ci ridono su o forse no, restando a guardare come merli su un ramo.