Caro Ministro Valditara, tutor di orientamento ma è veramente utile???
La domanda sulla validità e l’utilità dei tutor di orientamento solleva diverse questioni complesse e può essere affrontata da diverse prospettive.
Per sviluppare un’analisi critica, considererò vari aspetti come il ruolo dei tutor di orientamento, la loro efficacia, il contesto educativo e sociale, e gli eventuali limiti e sfide che questo ruolo può comportare.
I tutor di orientamento sono spesso impiegati nelle istituzioni educative con l’obiettivo di fornire guida e supporto agli studenti nel loro percorso accademico e professionale.
La loro funzione primaria è quella di aiutare gli studenti a comprendere le loro opzioni accademiche e di carriera, fornendo informazioni, consigli, e risorse.
Una critica è che l’orientamento fornito da un tutor può essere troppo standardizzato e non adeguatamente personalizzato per le esigenze individuali degli studenti.
Questo approccio “taglia unica” può non essere efficace per tutti gli studenti, specialmente in un contesto educativo sempre più diversificato.
La qualità dell’orientamento fornito può variare significativamente a seconda della formazione e dell’esperienza del tutor.
In alcuni casi, i tutor potrebbero non essere adeguatamente formati o aggiornati sulle ultime tendenze nel mondo dell’istruzione e del lavoro.
Vi è il rischio che gli studenti diventino troppo dipendenti dai tutor per prendere decisioni importanti, invece di sviluppare la capacità di valutare autonomamente le proprie scelte e percorsi.
L’orientamento fornito potrebbe non essere sempre in linea con le reali esigenze del mercato del lavoro, portando gli studenti a perseguire percorsi di studio o carriere meno vantaggiosi.
Il vero orientatore è in realtà il docente che ben conosce, o dovrebbe, il suo giovane allievo, e pertanto per molti studenti, soprattutto in fasi critiche del loro percorso accademico, il docente può fornire supporto essenziale, aiutandoli a navigare in un sistema educativo complesso.
Gli stessi docenti possono agire come un importante collegamento tra gli studenti e le risorse disponibili, come borse di studio, tirocini, e opportunità di studio all’estero, che altrimenti potrebbero essere difficili da scoprire.
Invece di creare dipendenza, un buon docente può in realtà aiutare gli studenti a sviluppare competenze decisionali e di pianificazione autonome, fornendo strumenti e metodi per valutare in modo critico le proprie scelte.
In un contesto educativo che valorizza la diversità e l’inclusione, i docenti correttamente formati ed aggiornati possono svolgere un ruolo cruciale nel supportare studenti con background e esigenze diverse, inclusi quelli con difficoltà di apprendimento o provenienti da contesti svantaggiati.
È importante considerare, inoltre, il contesto in cui operano i tutor di orientamento.
In alcuni sistemi educativi, potrebbero essere sottoposti a pressioni per indirizzare gli studenti verso percorsi specifici che riflettono gli obiettivi istituzionali piuttosto che le esigenze individuali degli studenti.
Inoltre, il rapido cambiamento del mercato del lavoro e l’evoluzione delle carriere richiedono un aggiornamento costante delle competenze e delle conoscenze da parte dei tutor di orientamento.
In conclusione, mentre ci sono critiche valide riguardo all’efficacia e all’approccio dei tutor di orientamento, è anche chiaro che solo i docenti possono svolgere un ruolo significativo nel supportare gli studenti.
Quindi caro Ministro alla fine forse era il caso di valorizzare maggiormente il corpo docente che lei ha a disposizione senza buttare altri soldi, smettendola di umiliarlo con progetti che non valorizzano il ruolo dei docenti.
Da Caravaggio a Ceruti: alla scoperta del Pitocchetto
Da Caravaggio a Ceruti: alla scoperta del Pitocchetto, il pittore della povera gente
È in corso al Getty Museum di Los Angeles la mostra sul pittore lombardo del 1700Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto.
L’esposizione si intitola “Giacomo Ceruti, un occhio compassionevole” (“A Compassionate eye”).
L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nell’universo della povertà nell’Europa del 1700.
Alla scoperta del Pitocchetto, il pittore della realtà
È in corso a Los Angeles la mostra “Giacomo Ceruti, un occhio compassionevole” (Giacomo Ceruti, a Compassionate eye).
L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nell’universo della povertà nell’Europa del 1700 attraverso i dipinti del pittore lombardo del 1700 Giacomo Antonio Melchiorre Ceruti, detto il Pitocchetto (Milano, 1698-Milano, 1767).
Il “Pitocco” è infatti il nome che nel Cinquecento indicava il rozzo panno marrone e nero con cui si vestivano i mendicanti.
Da Brescia a Los Angeles
All’artista è stata dedicata la prima mostra in occasione di Bergamo e Brescia Capitale italiana della cultura 2023, inaugurata il 14 febbraio 2023 al Museo di Santa Giulia, prima che prendesse il volo per la tappa d’oltreoceano.
La mostra è prodotta dal Comune di Brescia, la Fondazione Brescia Musei ed è organizzata dalla J. Paul Getty Museum di Los Angeles.
Si tratta di una eccezionale co-produzione con il Getty Center.
La tappa californiana, intitolata “Giacomo Ceruti, a Compassionate eye” è infatti frutto della collaborazione tra Fondazione Brescia Musei e Getty Museum.
Il Getty Museum di Los Angeles
L’esposizione è esposta al J.Paul Getty Museum di Los Angeles dal 18 luglio 2023.
Presenta per la prima volta al pubblico statunitense un gruppo di assoluti capolavori del maestro lombardo.
La splendida cornice del Getty Museum di Los Angeles invoglia a ripercorrere i bei saloni arredati e ricchi di opere d’arte.
Ed anche a ripercorrere gli ampi giardini, che incorniciano un complesso moderno e funzionale, architettonicamente ambizioso ed esteticamente piacevole.
Da Caravaggio a Ceruti
L’argomento della interessante esposizione è dedicata a quel filone di pittura sei-settecentesca che si pone sulla scia del maggiore rappresentante di questo filone post caravaggesco, rappresentato da Giacomo Ceruti, il pittore “della realtà” e della povera gente, famoso per aver sviluppato un genere di pittura antiretorica per quell’epoca.
Il suo percorso artistico fa parte di quel filone della “pittura della realtà” che ha in Lombardia una tradizione secolare.
Prima di lui, grandissimi artisti come Caravaggio, Vincenzo Foppa, ed esponenti della scuola bresciana rinascimentale come Giovanni Girolamo Savoldo e il Moretto, avevano toccato l’argomento.
La precedente mostra a Brescia nel 1987 sul pittore di strada
Sono passati trentasei anni, dalla grande mostra che nel 1987 Brescia ha dedicato a Giacomo Ceruti.
I tempi sono dunque maturi per tornare a indagare questo particolare pittore.
La pittura di strada di Ceruti incontrò molto favore presso l’aristocrazia locale bresciana.
La favolosa Brescia del 1700
Nel Settecento infatti Brescia, politicamente assoggettata alla Serenissima, fu centro attivo e culturalmente vivace, con respiro europeo grazie alla influenza milanese e francese.
Fra i committenti certi del pittore si annovera la famiglia Avogadro che possedeva le tele dei Pitocchi e del ciclo Padernello, ora disperso in varie collezioni private.
La mostra ha il grande pregio di riunire le quindi tele dei Pitocchi, appartenenti al Ciclo Padernello.
L’universo della povertà nella prima Europa moderna
Giacomo Ceruti si impone come una delle voci più originali della cultura figurativa del XVIII secolo.
I dipinti di Ceruti sono toccanti rappresentazioni dei ceti umili.
I suoi ritratti sono penetranti.
Aleggia sui volti dei suoi dipinti un senso di rassegnazione e di stanchezza.
Come nella “I due mendicanti nel bosco”, dove i volti seri ma sereni si stagliano nello sfondo dello scarno paesaggio boschivo.
L’ evoluzione della scena di genere in Italia nel Sei-Settecento.
Giacomo Ceruti (1698-1767) nacque e morì a Milano e fu attivo nel nord Italia tra la Lombardia e il Veneto.
I suoi dipinti si distinguevano per la rappresentazione di commercianti a basso reddito e di individui senza casa, che ritrasse con dignità e simpatia.
Per questo Ceruti arrivò a essere conosciuto come Il Pitocchetto (il piccolo mendicante).
Il percorso espositivo statunitense, il primo incentrato esclusivamente su Giacomo Ceruti, esplora le relazioni tra arte, mecenatismo e disuguaglianza economica nella prima età moderna dell’Europa.
Gli argomenti includono rappresentazioni di soggetti emarginati nella storia dell’arte europea della prima età moderna.
Le scene di genere e l’immagine dei pitocchi nella pittura di Giacomo Ceruti
Giacomo Ceruti ritrae con realismo sincero, e spesso impietoso, scene di vita quotidiana e domestica.
La vena è spiccatamente narrativa e popolare.
In particolare, la sua attenzione si sofferma sulla umile vita di strada ed i particolare sui mendicanti, i cosiddetti “pitocchi”. Da qui il suo soprannome “Il Pitocchetto”.
Il volto e le mani sformate dei suoi “pitocchi” sono segnate da profonde rughe, lo sguardo è sfuggente, il vestiario di estrema povertà.
La pittura di genere
L’ occhio compassionevole di Giacomo Ceruti si traduce nella rappresentazione delle scene di genere.
La pittura di genere è una rappresentazione pittorica che ha per soggetto scene ed eventi tratti dalla vita quotidiana.
Fu a lungo considerata un genere “minore”.
Si distingue per la rappresentazione degli aspetti della vita di tutti i giorni; mercati, faccende domestiche, interni o feste.
I primi grandi pittori di scene di genere si affermarono nei Paesi Bassi, paese con una forte componente mercantile.
Pieter Brueghel il Vecchio, Johannes Vermeer sono tra i più noti pittori olandesi specializzati nelle scene di genere.
In Italia tra i primi pittori ad aver dipinto scene di genere si segnalano il cremonese Vincenzo Campi e il bolognese Bartolomeo Passerotti.
Entrambi furono d’esempio per Annibale Carracci, il cui Mangiafagioli è uno dei dipinti di genere più celebri della pittura italiana.
I soggetti pauperisti di Ceruti
La pittura europea del XVII e XVIII secolo è nota soprattutto per scene storiche, ritratti espressivi, nature morte e rappresentazioni idealizzate di soggetti religiosi e mitologici.
Ceruti si distingue invece per la particolarità pauperista dei suoi soggetti.
Il progetto espositivo vede esposte infatti tele di soggetto pauperista: mendicanti, vagabondi e persone umili.
In realtà Ceruti ha dipinto tele anche con soggetti religiosi, ritrattistica e nature morte, ma la sua fama è passata alla storia per la rappresentazione della vita reale e umile della strada.
Sono ritratti con oggettività e al contempo rispettosa partecipazione, dalla quale promana un senso di dignità e profondità interiore, il contributo più originale dell’artista alla pittura europea della prima età moderna.
Particolarità dei dipinti di Ceruti nel panorama europeo del 1700
Le straordinarie raffigurazioni a grandezza naturale di persone che vivono ai margini della società dipinte dall’artista dell’Italia settentrionale Giacomo Ceruti (1698-1767) sfidano una facile categorizzazione.
I soggetti delle sue immagini includono anziani e disabili che chiedono l’elemosina o seduti in preda alla stanchezza.
Oppure uomini, donne e bambini che lottano per la sussistenza come calzolai, merlettaie, filatori e facchini.
Scene di vita quotidiana
In un’epoca in cui i dipinti di genere (scene di vita quotidiana) rappresentavano spesso i poveri come ammonimenti moralistici o figure di parodia, Ceruti ritraeva i suoi soggetti con verosimiglianza ed empatia.
Le sue immagini ci presentano frammenti austeri della vita di persone spesso cancellate dalla storia, rappresentazioni inquietanti che sono allo stesso tempo profonde e difficili da spiegare.
Non è un caso che Ceruti si sia ritratto con le sembianze di un pellegrino o di una persona umile.
La povertà e la diseguaglianza economica
Le rappresentazioni di Ceruti ci incoraggiano a considerare questioni più ampie come la disuguaglianza economica di allora e di oggi.
Il potere dell’arte di trascendere le categorie e sfidare le norme sociali.
In un gruppo di dipinti straordinariamente inquietanti dell’artista italiano del XVIII secolo Giacomo Ceruti ritrae mendicanti, vagabondi e lavoratori poveri.
Essi sono ritratti con un realismo ipnotizzante, ma anche con un senso di dignità e profondità emotiva.
In un’epoca in cui gravi disuguaglianze continuano a segnare anche le società più ricche, il lavoro di Ceruti testimonia il potere duraturo dell’arte di riflettere la nostra comune umanità.
Le immagini di lavoratori e di senza tetto di Ceruti si dipanano come protagonisti di storie distinte piuttosto che come tipologie generiche.
Scuola di cucito
Emblematico è il dipinto “Scuola di cucito”.
È una delle grandi tele che fa parte del cosiddetto ciclo dei Padernello dal nome del castello dove sono state trovate nel 1931.
Il quadro si intitola Scuola di cucito e rappresenta un gruppo di ragazze e donne di differenti età riunito in una stanza priva di arredamento, quasi uno spazio vuoto, a eseguire vari lavori, soprattutto di cucito, in un contesto di calma e decoro.
Le persone raffigurate sono vestite in modo modesto ma curato.
Le donne hanno dei lineamenti ben individuati.
I gesti sono precisi, di chi sa quello che fa e attende a farlo bene, come un dovere pacificamente accettato, lontano da qualsiasi costrizione apparente.
Emerge anche quella concentrazione assoluta che si trova in altre scene di cucito specie olandesi, e soprattutto nella sublime Merlettaia di Vermeer.
Il Ciclo di Padernello
Il Ciclo è composto da quindici grandi tele, acquisite da Bernardo Salvadego, all’asta della collezione Fenaroli che si tenne il 20 aprile 1882 a Brescia.
Ciclo di Padernello è da ritenersi, all’interno dell’articolata e a volte inaspettata, vicenda pittorica di Giacomo Ceruti (1698-1767) una raccolta di opere intesa come “summa artistica”.
Senza dimenticare e sottovalutare alcuni efficaci ritratti nobiliari, altre tele di soggetto pauperistico, le nature morte, e qualche esempio di pittura religiosa.
L’uomo di bassa statura
L’opera fa parte del cosiddetto “ciclo di Padernello”.
Si tratta di un caso esemplare della pittura pauperistica dell’artista che pone attenzione ai soggetti più umili, appartenenti alle classi sociali più basse, descritti con minuziosa veridicità, dalla giubba cenciosa al cappello bucato.
Sullo sfondo un paesaggio agreste con un cascinale e alcune piccole figure e sulla sinistra il tronco di un albero in ombra funge da quinta alla scena. Il dipinto è dominato da una colorazione dai toni scuri e terrosi.
In questa tela “Mendicante seduto” l’uomo vestito con abiti poverissimi tiene in grembo una cesta e un bastone.
Il cromatismo sapiente permette di creare un gioco di volumi e di chiaroscuri che donano solidità a questa fragilità a questa fragile figura.
L’espressione dell’uomo permette di cogliere anche tutta l’umanità dei poveri che Ceruti ben rappresenta anche in altre tele.
La mostra consente agli americani di conoscere per la prima volta un artista poco presente nei musei italiani di oggi, ma molto nelle collezioni private.
Un artista che ha saputo rappresentare la povertà attraverso i volti, i vestiti, le occupazioni, il modo di stare seduti.
Un artista che ha fatto della realtà “qualcosa di allora così nuovo e moderno da essere contemporaneo ancora oggi”, come dichiarato dalla curatrice delle collezioni della Pinacoteca bresciana, Roberta D’Adda.
Manet e Degas, amici e rivali ai tempi dell’impressionismo
È in corso a New York una delle mostre più attese degli ultimi anni.
Si intitola “Manet/Degas” ed è esposta al Metropolitan Museum of Art.
È iniziata a fine settembre e resterà aperta fino al 7 gennaio 2024.
L’esposizione propone un interessante viaggio tematico nella Parigi della seconda metà dell’800 e sul rapporto tra Manet e Degas, i padri dell’impressionismo.
Importante mostra a New York sui primi passi dell’impressionismo
A New York è in corso una importante mostra.
Si intitola “Manet/Degas” ed è esposta al Metropolitan Museum of Art di New York.
L’esposizione è iniziata a fine settembre e resterà aperta fino al 7 gennaio 2024.
Il percorso espositivo propone un interessante viaggio tematico nella Parigi della seconda metà dell’800.
In particolare, analizza il rapporto tra Manet e Degas, i padri fondatori dell’impressionismo.
È una delle mostre più attese degli ultimi anni.
Un viaggio tematico sul rapporto tra Manet e Degas
L’esposizione si snoda attraverso il dialogo tra Édouard Manet (1832-1883) ed il suo connazionale e contemporaneo, Edgar Degas (1834-1917).
La mostra offre una nuova e avvincente prospettiva sulla “storica coppia di artisti”, ripercorrendone i viaggi tematici e cronologici.
Particolare è l’attenzione e l’enfasi sulle loro relazioni private.
Il mondo di ieri visto da Manet e Degas
E anche sul contesto sociale e intellettuale che ha influenzato le loro vite e le loro esperienze pittoriche.
I due artisti furono accomunati dalle stesse frequentazioni.
Ad esempio, i circoli culturali privati, come quello della famiglia Morisot.
Od ancora, l’ambiente dei caffè parigini, soprattutto del caffè La nouvelle Athènes, famoso ritrovo di artisti e intellettuali dell’epoca.
Ebbero in comune anche le dure esperienze della guerra franco prussiana nonchè dei giorni della Comune di Parigi nella primavera del 1871.
Manet e Degas furono tuttavia molto differenti come personalità e temperamento.
Parigi, musa ispiratrice degli impressionisti
“Manet/Degas” ripropone uno spaccato della vita parigina della seconda metà dell’800 attraverso il tumultuoso rapporto tra i due artisti.
La Parigi favolosa di quell’epoca è segnata da una svolta radicale e rivoluzionaria che interessa la pittura francese
La mostra offre inequivocabilmente uno sguardo dettagliato sui primi passi del movimento impressionista.
I primordi dell’impressionismo
È proprio l’impressionismo a fare da sfondo all’incontro iniziale dei due artisti alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento.
Entrami sono figli dello stesso ambiente borghese della Parigi di fine secolo.
Sono considerati i maggiori interpreti della pittura pre-impressionista.
I loro dipinti sono infatti lo spartiacque che segna l’inizio della pittura moderna.
Sono stati i primi artisti del XIX secolo a dipingere la vita moderna.
In particolare, la vita di tutti i giorni ispirata dalla vita parigina di quell’epoca indimenticabile.
La mostra newyorkese: le parole del curatore
Manet e Degas, ha commentato Max Hollein, direttore del Metropolitan museum, hanno “prodotto alcune delle immagini più provocatorie e ammirate dell’arte occidentale”.
Le opere in mostra sono raggruppate per temi comuni: il ritratto, le corse dei cavalli, il nudo femminile, le scene di vita parigina.
I dipinti sono esposti uno accanto all’altro, permettendo al visitatore di confrontare la tecnica e il diverso approccio dei due artisti.
Da Parigi a New York
La rassegna giunge a New York dopo essere stata allestita la scorsa estate al Musée d’Orsay di Parigi.
Presenta 160 dipinti e opere su carta.
A questi si aggiungono altri due schizzi di Manet provenienti dalla collezione del Metropolitan Museum of New York.
Notevoli i prestiti di oltre 50 dipinti, anche di singoli collezionisti.
Il museo d’Orsay ha prestato il “Ritratto di famiglia” di Degas (La famiglia Bellelli) e due disegni di Manet, raffiguranti Degas.
Manet Degas, due parigini legati alla città natale
Parigini entrambi, provenienti dal medesimo ambiente borghese di fine XIX secolo, Manet e Degas sono molto legati alla loro città natale.
I loro dipinti rappresentano figure di uomini e donne parigine nel loro ambiente familiare, appartenenti a diverse categorie sociali, evocanti la vita moderna.
Inizia così un dialogo serrato tra i due artisti, i cui soggetti e il cui approccio riecheggiano i romanzi naturalisti dei fratelli Goncourt o di Émile Zola.
Interessati da soggetti simili, cercano di infondere nelle loro opere, posate ed eseguite in studio, la spontaneità di scene prese dalla vita.
Manet e Degas realizzano così una “Nuovo Pittura”.
Manet e Degas differenze e affinità
Degas, nato due anni dopo Manet, diventa celebre insieme agli altri impressionisti, come Monet, Renoir, Pissarro, Cézanne.
Manet si distingue per le pennellate libere, i colori audaci e le prospettive suggestive.
Degas, invece, preferisce una tavolozza di colori tenui e pastello e concentra la sua attenzione sul movimento e sull’intimità.
Seguono un percorso parallelo in quanto a formazione ed esordi.
Prendono poi direzioni differenti già a partire dal 1870, quando Manet si dissociò fermamente dal neonato movimento impressionista.
Amici o rivali?
Manet e Degas erano amici e rivali nello stesso tempo.
Rimasero tuttavia sempre molto legati.
Queste opere sono affiancate anche dalla famosa tela “Monsieur e Madame Manet” di Degas, proveniente dal Museo municipale d’arte di Kitakyushu, in Giappone.
Si tratta di un’opera, per nulla apprezzata, che Manet mutilò con una lama.
Il signore e la signora Manet
Catturando Manet in un atteggiamento abituale, Degas dipinge infatti originariamente un doppio ritratto che riunisce l’artista e sua moglie al pianoforte.
Insoddisfatto di questo lavoro che Degas gli offre, Manet ritaglia l’immagine di sua moglie, in quanto “troppo brutta”.
Quando scopre il suo quadro mutilato, Degas, molto offeso, lo porta con sé.
Sebbene questa ferita abbia segnato la fine della loro amicizia, non ha concluso la loro storia artistica.
Degas continua a dipingere ispirandosi a Manet a lungo, dopo la morte prematura di quest’ultimo.
Influenza reciproca tra i due artisti
La loro corrispondenza scritta è scarsa.
Ma le loro opere d’arte forniscono preziose indicazioni su come questi grandi artisti si influenzassero a vicenda.
L’ ampia esposizione offre infatti una opportunità unica per esplorare il loro affascinante rapporto attraverso un dialogo tra le loro opere.
La vita di tutti i giorni
Inedito per l’epoca è rappresentare nei dipinti la vita di tutti i giorni.
Come, ad esempio, entrare in un negozio per l’acquisto di un cappellino alla moda.
La scena presso la modista diventa un classico per entrambi gli artisti, uno spaccato della vita quotidiana della ricca borghesia parigina.
La vita di famiglia
Non preoccupati di ottenere commissioni lucrative, i due pittori prendono ispirazione per i loro modelli dalla famiglia e dagli amici.
Cercano soprattutto di catturare “persone in atteggiamenti familiari e tipici”, e sono interessati dalla forza espressiva dei corpi tanto quanto a quella dei volti.
La modernità è quella di cogliere i momenti intimi, in atteggiamenti inusuali, come il riposo pomeridiano sul sofà.
La vita dei caffè parigini
Manet e Degas rappresentano la stessa modella, l’attrice Ellen Andrée, e lo stesso luogo, l’elegante caffé della Nuova Atene, famoso ritrovo dei letterati ed artisti dell’epoca.
I risultati sono significativamente diversi.
Il caffè di Degas
Ispirato dall’arredamento del caffè di Nuova Atene dove si riunivano artisti e letterati, Degas ha ritratto nel famoso dipinto “In un caffè”, due dei suoi amici: l’attrice Ellen Andrée e l’incisore Marcellin Desboutin.
La giovane donna, vicino ad un uomo chiaramente ubriaco, sembra indifferente a ciò che la circonda.
Ella versa in uno stato di abulia, davanti ad un bicchiere di liquore verde, sopraffatta dallo stordimento provocato dall’assenzio.
L’opera è conosciuta infatti anche con il titolo “L’assenzio”.
Il consumo di assenzio, di tabacco, unitamente alle fumerie di oppio e di hashish furono le principali trasgressioni pubbliche della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento.
Edgar Degas ritrae un momento di vita o. meglio, di assenza di vita all’interno dei caffè parigini.
È un fermo immagine sul senso di vuoto esistenziale, di incomunicabilità, di autodistruzione tipico della deriva di una certa cultura bohémienne.
Il caffè di Manet
Manet non rappresenta la sua modella sotto l’influenza degradante dell’alcol e delle droghe, come accade invece nel dipinto di Degas
La ritrae come una giovane donna attraente ed elegantemente vestita.
Il suo atteggiamento evoca certe tecniche di seduzione delle prostitute che aspettano in un bar l’incontro che verrà.
Il mondo femminile
Tra i tratti della personalità che distinguono Manet e Degas ci sono i loro rapporti con le donne.
Descritto come un seduttore, Manet si è sempre trovato, secondo l’opinione dei suoi contemporanei, molto a suo agio nel mondo femminile.
Il riserbo di Degas con le donne
Altrettanto proverbiale è, invece, il riserbo di Degas, la cui vita “fu sempre misteriosa dal punto di vista sentimentale”.
Da un lato Manet, perfettamente a suo agio all’interno della società femminile, dall’altro Degas, sempre molto riservato sulla propria vita privata e più impacciato nelle relazioni con il sesso opposto.
Ne derivano anche modalità differenti di rappresentare la figura femminile.
Manet il seduttore
Donne dalla posa e dall’espressione rassicurante quelle dipinte da Manet.
Esse intrattengono un diretto scambio di sguardi con lo spettatore, esemplari i ritratti di Berthe Morisot.
Ben diverse dalle donne di Degas, sempre rappresentate da punti di vista non convenzionali, in situazioni che rivelano turbamento e disequilibrio (La tinozza, 1886).
Modalità differenti di rappresentare la donna
Nelle opere di Degas i rapporti con il mondo femminile appaiono quasi sempre tormentati o sbilanciati. dai suoi scritti emerge la sensibilità di un uomo preoccupato del suo cuore e che sogna la felicità coniugale.
Manet rappresenta donne la cui posa e il cui sguardo riflettono una certa sicurezza e disinibizione.
“Nana” e le cortigiane di Manet
Una cortigiana semisvestita, con indosso un corsetto, calze ricamate e décolleté con i tacchi alti, si trucca in presenza del suo protettore.
La giovane donna ha un sorriso malizioso e lancia uno sguardo allo spettatore.
L’uomo, sulla panchina, è tagliato in due dall’inquadratura, senza più importanza che se si trattasse di un mobile.
Rifiutata al Salon del 1877, Nana fu esposta nella vetrina di Chez Giroux, un negozio di “ninnoli, quadri, ventagli” dove ottenne un grande successo come curiosità.
La scandalosa Olimpia
Tra le opere esposte vi è anche il capolavoro di Manet, “Olympia” (1863).
Si tratta di uno dei dipinti più scandalosi del XIX secolo.
Manet si fece notare fin da subito con opere spettacolari come “Olympia” e “Colazione sull’erba”.
Olympia può essere letta come l’apoteosi insolente di una prostituta, che posa in una nudità rinascimentale.
Durante il Salon del 1865, salvo poche eccezioni, un grido di orrore accolse il dipinto.
Il Salon
Fino al pieno sviluppo delle gallerie d’arte, il Salon, con antiche origini (1600) costituì in Francia il principale luogo di esposizione degli artisti viventi.
Nessun principiante poteva sfuggire al Salon negli anni ’60 del 1800.
Ospitato nell’ex Palais de l’Industrie, imponente vestigia dell’Esposizione Universale del 1855, il Salon è un evento annuale dal 1863 e la sua giuria è sempre più liberale.
Questo evento ereditato dall’Ancien Régime riunisce migliaia di dipinti, sculture e opere su carta.
Attira quasi 500.000 visitatori e attira l’attenzione dei principali giornali e collezionisti.
È al Salon che il patrocinio statale manifesta la sua azione attraverso acquisti, premi e incoraggiamenti.
Manet vi espose nel 1861, Degas nel 1865. Manet non vi espose più, amareggiato dalle critiche.
La ritrattistica
Il ritratto occupa un posto importante nella prima produzione di Manet e Degas.
Manet, rispetto a Degas, ama ritrarre personaggi pubblici, sottolineando così i loro legami con determinati ambienti sociali o artistici.
Pittore colto, Manet conosceva, a volte da vicino, i più grandi scrittori del suo tempo.
Li associava al suo lavoro attraverso la ritrattistica e la comunità di ispirazione.
Il suo debito con Baudelaire, Zola, e Mallarmé, tra gli altri, ha lasciato molte tracce nella sua pittura e nella sua vita.
Manet ama trattare i suoi modelli con una certa maestosità.
Occupano il cuore della composizione, spesso in pose ereditate dagli antichi maestri.
La loro maestosa plasticità è amplificata dai colori vivaci dei loro vestiti o degli accessori che li circondano.
Più tenui i colori di Degas, più composti i suoi personaggi.
Il circolo Morisot
Il circolo che i genitori di Berthe Morisot aprirono ad artisti, musicisti e scrittori, sotto il Secondo Impero, è un centro di modernità.
Donne e uomini parlano di arte o di politica su un piano di parità.
La modernità delle donne di Manet: Berthe Morisot:
Ci troviamo all’indomani della guerra e della Comune.
Le immagini di Berthe Morisot esprimono uno slancio particolare e il desiderio di ricostruire il presente.
Oltre ad incarnare il simbolo della eleganza parigina.
Il “paesaggio all’aperto” (en plein air)
Manet e Degas non rimangono indifferenti alla pittura en plein air.
Essi non ignorano la spinta verso il “paesaggio all’aperto”.
Se ne impadroniscono abbastanza rapidamente, con audacia, e lo usano secondo le esigenze della loro carriera.
Tuttavia, non lavorano mai all’aperto, non condividendo il metodo di dipingere rapidamente en plein air per catturare l’effetto della luce e del momento.
Preferiscono lavorare in studio, utilizzando schizzi e bozzetti eseguiti all’aperto come base per le loro opere.
Fondano, in fin dei conti, quello che si potrebbe considerare un impressionismo a parte.
La Normandia
La produzione normanna di Degas è molto simile a quella di Manet.
Il dipinto “Bagno in mare. Bambina pettinata dalla sua cameriera” di Degas,
è simile a quello di Manet “Sulla spiaggia di Boulogne del suo predecessore”.
Da una guerra all’altra
Da repubblicano convinto, Manet espone regolarmente opere legate a eventi che lo toccano o lo disgustano come cittadino.
Il suo obiettivo è colpire l’opinione pubblica.
Degas, al contrario, lascia sempre l’attualità fuori dal suo lavoro pubblico.
La guerra franco prussiana
Nel luglio 1870 la Francia dichiara guerra alla Prussia.
I due pittori vengono richiamati nella Guardia Nazionale e rimangono a Parigi per difendere la città durante l’assedio.
Condividono lunghe settimane segnate dall’attesa, dal freddo e dalle privazioni e si distinguono dai tanti artisti fuggiti dal Paese.
L’amicizia inizia proprio in quel periodo, quando il continente americano è segnato dalla guerra civile americana (1861-1865) e dall’esecuzione dell’imperatore Massimiliano in Messico (1867), soggetti raffigurati da Manet, esposti in mostra.
Il soggiorno negli Stati Uniti
Nel 1872 Degas si reca negli Stati Uniti.
Visita per la prima volta la sua famiglia a New Orleans.
Durante il suo soggiorno menziona più volte Manet che “qui avrebbe visto cose belle” e scopre una società ancora segnata dal sistema schiavistico.
La guerra civile americana influenza direttamente la famiglia materna di Degas, che si guadagnava da vivere con il commercio del cotone a New Orleans.
La morte prematura di Manet
Degas rimase legato a Manet anche dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1883 all’età di 51 anni, dopo una grave malattia.
La mondanità di Manet e la discrezione di Degas
La mostra coglie nel segno e riesce con successo a condurci per mano in un avvincente viaggio attraverso le opere dei due artisti, ben delineando la loro differenza di temperamento.
I dipinti esposti testimoniano Manet come uomo mondano alla costante ricerca di riconoscimento.
Degas invece appare un avanguardista raffinato, più discreto ed enigmatico, che non abbraccia mai del tutto i canali di legittimazione ufficiale.
La mostra resterà aperta fino al 7 gennaio 2024 e sta registrando un successo strepitoso.
LA POLITICA DEL CENTRISMO IN ITALIA TRA ATTUALITA’ E PROFEZIA
“Alla società del non pensiero ancora oggi la Democrazia Cristiana propone una visione fondata sui valori umani e cristiani.”
Bisogna riportare le lancette degli orologi indietro nel tempo per cogliere l’importanza e le ragioni del sorgere del c.d. centrismo nella politica nel nostro Paese …
Il PPI nasce nel 1919 con Sturzo e poi De Gasperi che poi confluisce pure lui nel 1920 nel PPI.
A questi si unisce il futuro Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, allora sindacalista cattolico.
Il Partito si fondava sul popolarismo di Sturzo e la Dottrina Sociale della Chiesa. Grazie a ciò, molti cattolici tornarono in politica dopo il Non Expedit.
Il PPI raccolse anche molti Liberali cattolici antisocialisti e una grande parte della massa contadina, in quanto appunto non legato a una classe sociale borghese.
Il Manifesto di Sturzo è noto come «Appello ai liberi e forti», i cui capisaldi sono:
Il ruolo della Società delle Nazioni
La libertà religiosa
La famiglia
I sindacati cattolici
Il PPI ottenne il 20 % dei voti nel 1919 e circa 100 deputati. Altre istanze del Partito riguardavano: il decentralismo, la lotta al latifondo e il voto alle donne, temi dichiaratamente antifascisti.
Dopo la Marcia su Roma tuttavia don Sturzo aderì al nuovo governo di Mussolini con atteggiamento critico.
Nel 1924, i Popolari conobbero una sconfitta notevole, poiché diversi cattolici aderirono al Fascismo tanto che nel 1926 i Popolari si sciolsero.
In seguito, la DC raccolse diversi ex esponenti cattolici del Fascismo, tra cui Fanfani, Tambroni, Giuseppe Medici etc.
Nel 1942 De Gasperi, Gronchi, Scelba, Malvestiti, Andreotti e Moro con Fanfani e Dossetti, si radunarono presso la casa di Giorgio Falk per discutere la costituzione di un partito cattolico.
Il 1943 viene comunemente considerato come il momento di fondazione della DC con il relativo simbolo storico.
Venne inoltre elaborato qui nel luglio 1943 il c.d. Codice di Camaldoli, un documento programmatico che tratta tutti i temi della vita sociale: dalla famiglia al lavoro, dall’attività economica al rapporto cittadino-stato.
Si elencano inoltre anche i principi morali cui deve sottostare anche il mondo economico.
Nel 1944 Ivanoe Bonomi fu incaricato di costituire un nuovo governo, il terzo col suo nome, con appoggio di DC, PLI, PCI, PDL, nel quale De Gasperi rafforza la sua influenza.
Il comitato cattolico resta clandestino fino al Governo Badoglio. La DC partecipa alla Resistenza armata contro il Nazifascismo; uno dei capi di essa fu Enrico Mattei.
Nel 1945 Nacque il Governo Parri appoggiato da varie forze democratiche e in seguito il Governo De Gasperi che avrebbe dovuto organizzare le elezioni democratiche referendarie.
Era la mattina del 2 giugno 1946 quando per la prima volta in Italia anche le donne partecipavano ad una consultazione politica nazionale determinandone l’esito: votarono infatti circa 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini. L’Italia il 2 giugno 1946 si sveglia una Repubblica.
Un esame degli avvenimenti più rilevanti da un punto di vista storico, sociale, politico, economico e antropologico ci fornisce uno spaccato per comprendere i primi passi del giovane paese repubblicano, nella prospettiva di intendere le prime significative scelte propedeutiche alla difficile ricostruzione dell’Italia post bellica proprio attraverso la politica del centrismo.
Il centrismo nella politica nasce con Alcide De Gasperi, figlio della cultura popolare e strumento operativo del “popolarismo sturziano”, la più alta forma di democrazia che aprì un varco in quella stagione storica così da generare una rinascita e una ricostruzione democratica dell’Italia sulle spinte riformiste.
Il centrismo rappresenta una cornice ideologica non nettamente definita, alla quale appartengono quei partiti che si collocano nel centro dello schieramento politico e che si fanno promotori di una posizione intermedia tra le posizioni estreme di destra e di sinistra in campo socio-economico.
In Italia, dal 1946 in poi, il centrismo è stato principalmente sinonimo di “cristianesimo” democratico.
La DC ha racchiuso al proprio interno variegate posizioni sia in campo economico- sociale che culturale, tutte, però, cresciute nel comune alveo della dottrina sociale della Chiesa cattolica e ha saputo coltivare una sorta di partito società, in quanto rispecchiava le diverse classi sociali caratterizzandosi per essere interclassista.
Questa scelta di politica moderata adottata dal centrismo sostanzialmente viene generata dalle condizioni storiche poste in rilievo che concentrano il loro momento topico sulle elezioni politiche del 18 aprile 1948: le prime dell’Italia Repubblicana, nelle quali la Democrazia Cristiana consegue un risultato inequivocabile, il Paese nel timore delle sinistre, coagula nel responso delle urne un consenso elettorale storico del 48,5 %: gli italiani scelgono di dare fiducia al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e al suo progetto di governo centrista.
Le contrapposizioni e le conflittualità non producono frutto se non indirizzate in una dialettica di reciproco ascolto che conduce ad una riflessione.
La politica senza dialogo, confronto e proficua riflessione sui problemi continuerà progressivamente a generare uno scollamento della gente dalla politica stessa, le persone alla luce degli scenari del tutto deludenti e inefficaci che certificano il fallimento della politica insensibile alle esigenze sociali ha prodotto sentimenti diffusi di incredulità e profondo pessimismo.
Il percorso del governo De Gasperi si profilava alquanto difficile e complicato, doveva fare i conti oltre che con le contingenze della storia anche con i contrasti tra i partiti della maggioranza e all’interno della stessa DC, dove il gruppo guidato da Dossetti e Fanfani si batteva facendo leva sulla conoscenza intellettuale per cambiare la realtà del Paese anche attraverso una diversa visione dello sviluppo economico e sociale, aspetto basilare per un effettivo cambiamento della società.
Dopo il successo elettorale della Democrazia Cristiana del 19 aprile 1948, nel quale ottenne il risultato storico del 48,5% dei consensi in Italia, De Gasperi, anziché optare per un governo monocolore, diede a battesimo quella scelta politica del centrismo che, nel prendersi cura delle Istituzioni democratiche, si rilevò profetica e rispondente ai bisogni del Paese.
De Gasperi mise insieme per sostenere l’azione di governo: “Socialdemocratici”, figli della tradizione culturale del pensiero marxista; “Repubblicani”, laici ispirati dai riferimenti culturali inizialmente ancorati alle posizioni di sinistra non marxista e anticlericale del pensiero mazziniano; “Liberali”, una parte della classe dirigente che partecipava attivamente alla vita politica ponendo in grande considerazione le questioni sociali che generarono un contributo alla discussione pubblica del tempo.
In queste diversità di posizioni politiche, De Gasperi non chiese una comunione di pensiero alla coalizione, ma un sostegno all’azione di governo per contribuire, ognuno nella propria autonomia di vedute politiche, alla costruzione della democrazia rappresentativa nel Paese.
La legislatura si chiude sulla inattuata e controversa riforma elettorale che tuttavia alle elezioni politiche del 1953 conferisce nuovamente la maggioranza allo schieramento centrista che segnerà anche la fine del percorso politico di Alcide De Gasperi che da saggio uomo politico quale era, si ritira dalla politica di quegli anni e morirà prematuramente l’anno successivo nell’agosto del 1954.
Le elezioni politiche del 1958 definiscono uno scenario politico interno e internazionale cambiato rispetto agli anni precedenti che avevano favorito la genesi e caratterizzato la stabilità dei governi figli del “centrismo degasperiano” e dell’indiscussa egemonia politica della DC, appoggiata dai partiti di centro minori da cui era scaturita la definitiva emarginazione governativa del PCI e del PSI.
Durante la II Legislatura della Repubblica Italiana in carica dal 25 giugno 1953 all’11 giugno 1958 la politica di governo del centrismo sopravvisse al suo fondatore in maniera sempre più instabile e mostrando ormai segni evidenti di deterioramento che nel 1958 ebbero il loro epilogo, in quanto la formula centrista adottata per contrastare la sinistra socialcomunista e per evitare accordi con la destra monarchica e neofascista segnava ormai il suo declino.
Si alternarono governi deboli e, da un lato il progressivo distacco del PSI dal PCI con la fine dell’unità delle Sinistre, e dall’altro l’involuzione conservatrice cui andò incontro il PLI, contribuirono a mettere in crisi la formula centrista sulla quale si era costruito il solco della democrazia rappresentativa, una esigenza inarrestabile del Paese.
Alle lezioni del 1958 la prognosi del primo declino dei governi centristi fu conclamata dalla storia, la DC sotto la guida di Amintore Fanfani prima, e di Aldo Moro poi, elaborò alcune coalizioni verso la sinistra che si batteva per una più equa distribuzione del reddito cercando di intercettare in ogni modo il consenso popolare.
Dopo le elezioni politiche del 1958, furono sperimentate le prime esperienze politiche di “centro- sinistra”, rese possibili dall’appoggio esterno dei socialisti, con la nascita nel 1962 del governo tripartito guidato da Amintore Fanfani, con la partecipazione di DC, PSDI, PRI e con l’astensione benevola del PSI, fino all’ingresso organico del partito progressista nel governo nel 1963, con la nascita del primo governo Moro.
Il 1969 aprì una nuova drammatica fase: con la bomba di piazza Fontana (MI) iniziò così la strategia della tensione, che per oltre un decennio condizionerà la vita politica italiana, gli anni di piombo culminarono nelle atrocità inflitte al sistema politico dall’uccisione, da parte delle Brigate Rosse, di un uomo politico illuminato, Aldo Moro.
La virtù nella quale Aldo Moro si elevò e distinse fu la preziosità del servizio nella politica.
L’agire politico di Moro è stato non solo il frutto maturo di una genialità intellettuale e giuridica, che tutti gli riconoscono, ma anche la fioritura di un’autentica testimonianza di vita nascosta che rileva il senso profondo della sua pratica di essere servo inutile di Cristo, servizio che reclama, per Aldo Moro politico, sapiente, saggio e interprete fedele della carità, gli onori dell’Altare a sugello della sua vita santa.
Aldo Moro, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, Igino Giordani, autorevoli personaggi politici del dopoguerra, sono stati discepoli di Paolo VI, che in quegli anni formava i suoi ragazzi sui corposi testi, densi di profezia e attualità, di Jacques Maritain, San Tommaso e di quella nouvelle théologie che giungeva dalla Francia.
Questi allora giovani si sono formati sulle ferite delle atrocità della guerra e sulla profondità del pensiero illuminato dell’altissimo magistero del giovane Montini, divenendone figli spirituali e lasciando all’umanità un solco di eredità di pensieri politici che ancora oggi genera una fioritura di semina e una copiosità di messi.
Fu proprio Paolo VI ad accennare alla Santità di Aldo Moro quando, alle esequie ufficiali, nella preghiera, lo definì con quelle parole dense di profezia «uomo buono, mite, saggio, innocente e amico».
Il sistema politico centrista assesta la sua azione di governo facendo leva sulla base centrale degli assetti politici per contenere pulsioni e segnali estremi.
La politica governativa centrista, in una visione di corsi e ricorsi storici, potrebbe attrarre tutte le forze politiche moderate del Paese diventando coagulante sociale e politico delle diverse prospettive per dare realizzazione ad una politica a misura di uomo che si nutra dei valori umani e cristiani e dia valore al pensiero europeista degasperiano formidabilmente rifletto nel concetto espresso dallo statista della “Nostra Patria Europa” cercando di arrestare le spirali sovraniste di un nazionalismo anacronistico e di arginare le derive degli estremismi di destra e di sinistra con l’obiettivo di annientare definitivamente nostalgie pericolose e destabilizzanti.
Occorre una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che passa attraverso l’educazione e la formazione che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo facendo tesoro dei propri vissuti, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e successivamente politico per porre in essere una politica alta.
Per riscoprire il valore della “Politica” dobbiamo ritornare a comprendere il travaglio, il pathos, la sofferenza i drammi esistenziali e sociali del popolo, lasciato per troppo tempo fatalmente al suo destino sfrattato dalla sua stessa dimora: il Parlamento che attraverso le leggi avrebbe dovuto essere il fedele interprete delle esigenze sociali e invece è stato un luogo estraneo a chi avrebbe dovuto essere il vero sovrano e si è caratterizzato per aver dato tutela a interessi personali snaturandone la funzione e il ruolo democratico, divenuto sempre più cassa di risonanza di accordi presi fuori dal Parlamento.
Con il ritorno alla antropologia delle problematiche esistenziali e sociali riscopriremo l’immenso valore di Dio che governa la storia e che deve essere sempre al centro di ogni pensiero e azione che ha a cuore il futuro dell’uomo dobbiamo ricostruire insieme una nuova idea di futuro, se l’umanità vuole riscattarsi dalla deriva e dal caos che la pervade l’umanità deve rimettere al centro della storia Dio nella prospettiva di sentire il disagio, il bisogno altrui che determina il senso dell’umanità nella politica.
Senza la guida dall’alto attraverso l’umiltà dell’uomo e ispirato dallo Spirito non potrà non riconoscersi bisognoso di aiuto, l’esistenza si deprime e scade negli istinti e negli impulsi senza controllo che conducono allo smarrimento e alla dispersione dei valori e dei principi che dovrebbero edificare un mondo migliore dove prevalga il bene comune, la giustizia, la solidarietà e la pace.
Se in politica non cercheremo con sincero sforzo di comprendere l’altro, il prossimo che ci sta dinnanzi, sentire il suo dramma esistenziale, la sua sofferenza, il nostro agire politico non potrà rivestirsi di quella connotazione umana della Politica definita da Paolo VI “come la più alta forma di carità…” la politica in questa nobile accezione partecipa del divino.
Diceva La Pira dopo la mistica la politica e lo strumento che più avvicina a Dio.
Nella odierna dimensione politica porre al centro dell’agire il “servizio” rappresenta la via maestra che conduce alla ricerca del bene comune, obiettivo dimenticato da “certa politica” insensibile di questi anni. In questo cammino quasi messianico, possiamo trovare la giusta ispirazione in quella realtà evangelica da cui tutto ebbe inizio.
Allo stesso modo nella politica occorre pronunciare e testimoniare quel profetico “Sì” di “Maria” che faccia nascere nella società una “nuova civiltà di diritti e soprattutto un “nuovo senso del dovere” per rimettere in campo la “speranza” nella giustizia per farci uniti-insieme ma diversi costruttori di pace partendo dal piccolo gesto, consapevoli che “ogni piccolo gesto è rivoluzione non violenta in sé”, se accompagnato da uno spirito solidale di tutti e di ciascuno perché “nessuno è dispensato dal partecipare alla costruzione della società che vogliamo” per renderla più libera, più giusta e solidale con i più bisognosi e deboli, al fine di raggiungere il bene comune, prima essenza della Politica che deve rivestirsi di carità.
Quel “nuovo senso del dovere” avvertito dalla sensibilità e profezia di “Aldo Moro” nel suo ultimo intervento in Parlamento, alla Camera del 28 febbraio 1978 : “Questo Paese non si salverà,
la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”.
Parlare di doveri non è mai facile e si rileva al quanto complesso e difficile perché mentre i doveri segnano dei limiti, i diritti aprono spazi. I diritti richiamano libertà e democrazia; i doveri mobilitano gerarchia e autorità.
Di qui l’interesse più per i diritti che ci stimolano che per i doveri che ci comprimono.
Tuttavia, i diritti, pur costituendo l’essenza della democrazia, non sono sufficienti, da soli, a sostenerla; possono affermarsi solo in una società che adempie ai doveri nell’equilibrio delle due funzioni di stimolo e di compressione nelle quali si rivela la bellezza del vivere in armonia con le fluttuazioni del divenire della società.
Fattori questi propedeutici per rimettere in campo la “speranza” nella prospettiva della “giustizia” per farci tutti insieme ma diversi “costruttori di pace” nel Paese e nel mondo.
Molto spesso la politica si rivela per non essere per i più affar nostro, i giovani si disinteressano, le persone se ne allontanano perché non condividono gli esempi negativi di certi “politicanti” che hanno ridotto la politica ad un mercimonio, degradata oltre il prevedibile ad una attività da evitare, rendendola estremamente impopolare.
Tale deriva di pensiero nel quale è precipitata l’interpretazione disincantata di una politica lontana dalla gente che ha dimenticato la bellezza della polis, del pensare politicamente per risolvere i problemi del popolo sovrano, relegato in soffitta e defraudato dal diritto primario di scegliere attraverso l’esercizio del voto, la rappresentanza parlamentare, la classe dirigente che emerge dalle segrete stanze delle segreterie dei partiti generando l’aberrante logica della “partitocrazia”, una delle “tre male bestie” individuate da Don Luigi Sturzo unitamente allo “statalismo” e “l’abuso del denaro pubblico”.
La politica deve riscattarsi da questa disonorevole onta, dovrebbe riuscire a trovare soluzioni, aborrire il calcolo e sperimentare ancora la passione di un tempo, quando la politica si faceva proprio per passione vivendo la cultura dell’alterità e del servizio come missione perché se non serviamo agli altri a che serve vivere.
La politica è “affar nostro” perché anche se non ci occuperemo di essa, la politica non smetterà mai di occuparsi di noi, lasciare deleghe in bianco ai politicanti di strapazzo è un grave errore che non si dovrebbe fare perché lascia in meno a degli irresponsabili il timone della storia.
Dobbiamo riscoprire con Aldo Moro oltre alla conquista dei diritti una rimodulazione di “quel nuovo senso del dovere” che suona di profezia e attualità ancora oggi per dare un’altra possibilità alla politica.
Suonano di monito e di profezia l’attualità delle parole di Papa Francesco: “Non pensiamo che la politica sia riservata solo ai governanti: tutti siamo responsabili della vita della ‘città’, del bene comune; e anche la politica è buona nella misura in cui ognuno fa la sua parte al servizio della pace”.
In questo scenario di divisioni e disfattismo organizzativo occorre rivivere il valore cristiano dell’“eccomi” divenendo questa la risposta unanime al bisogno diffuso della gente, da troppo tempo inascoltato, affinché si innalzi un inno alla concretezza del fare per una politica più alta, più umana e caritatevole incrementando la pasienza e la capacità di ascolto fondamentali per sentire i bisogni del popolo.
L’eccomi sia strumento profetico della carità, come espresso dal pensiero illuminato del Pontefice Paolo VI nella Enciclica del 26 marzo 1967 Populorum Progressio.
Tale disegno potrà realizzarsi attraverso l’unica scelta possibile quella dell’amore: fare germogliare semi di speranza nella politica che facciano fiorire una nuova civiltà di diritti e soprattutto un nuovo senso dei doveri realizzando così la profezia di Moro.
Sul punto risuonano attuali e profetiche le parole del filosofo Carl Gustav Jung: «Dove l’amore impera, non c’è desiderio di potere, e dove il potere predomina, manca l’amore. L’uno è l’ombra dell’altro».
La politica non deve accontentarsi di raggiungere nel dialogo, il minimo comune denominatore che non serve, se non a vegetare, così come ha fatto nel tempo senza più emozionare nessuno, senza generare entusiasmo, imitazione, partecipazione, relegandosi ai margini della società e determinando astensionismo, indignazione e disapprovazione.
Quando la politica non diviene strumento prolifico di servizio nel cammino verso il miglioramento delle condizioni dell’uomo, e strumento d’amore per il prossimo, rimane inefficace, si impoverisce la sua fondamentale forza naturale di essere generatrice di progresso e di sviluppo sociale, economico e culturale.
Sotto tale profilo, la politica dovrebbe vivere una nuova stagione storica che si alimenti della bellezza del “dialogo” che miri a sperimentare l’ascolto reciproco che nel confronto riesca ad elaborare una “riflessione” che cerchi di analizzare i bisogni e individuare il modo di risolvere i problemi che attanagliano la gente.
Se analizziamo la parola “dialogo” che letteralmente indica un incrocio, e ci sforziamo di ricercare un sinonimo possibile, lo possiamo trovare nella parola “incontro”, occorre mettere al centro del “dibattito politico” questa prospettiva dialettica di incrocio fatta di ascolti reciproci volti a elaborare una riflessione che coniughi le diversità contrapposte.
La parola “incontro” è formata da due elementi antitetici, la preposizione “in” che vuol dire andare verso, mettersi in ascolto, alla fine condividere; ma abbiamo anche l’avverbio “contro” che vuol dire di per sé “opposizione”, ecco perché il dialogo non deve essere omogeneizzazione del pensiero e non può e non deve accontentarsi di arrivare ad un minimo comune denominatore, deve andare oltre il dialogo.
Deve generare un confronto che per essere produttivo, fecondo deve tendere a comprendere le diversità di vedute, percependone le differenze, sentire le ragioni dell’altro e i suoi vissuti sperimentare in un cammino comune l’elaborazione di una riflessione.
Nella consapevolezza che è proprio da queste diversità, dal sentire le ragioni dell’altro, che una società cresce e progredisce in questa prospettiva di “incontro” di opinioni che generino nella riflessione la conoscenza, mutuando Wilde potremmo dire : “Le cose vere della vita non si studiano né si imparano, ma si incontrano.”
Attualizzare il “pensiero della visione cristiana” nella politica e nella storia vuol dire analizzarne lo stato di salute e verificare se si sia di fronte ad una visione moribonda, anacronistica o al contrario sia ancora viva per svolgere il grande ruolo di unire piuttosto che dividere, ricucendo gli strappi e le lacerazioni attraverso una via: applicare alla politica il “codice materno” che vuol dire “prendersi cura dell’altro”, “non confondere mai le persone con il numero” essere al servizio degli altri e in particolare di chi è più debole e bisognoso.
Pensiamo quali effetti positivi potrebbe generare l’applicazione del “codice materno” alla politica, alla economia, alla imprese al vivere nelle sue diversificate forme del sociale.
La politica deve rivalutare e adottare il potere delle emozioni, deve puntare sul valore cognitivo delle emozioni che sostanzialmente precedono lo stesso valore cognitivo dell’intelletto.
Quando la politica riesce ad emozionare coinvolge le masse, genera imitazione, condivisione e partecipazione, senza emozione la politica rimane sulla soglia della conoscenza, ne conseguono disapprovazione e a tratti disprezzo, perché nessuno vi si rispecchia più; cresce progressivamente il risentimento e la sensazione ostile che nulla possa effettivamente cambiare, tutto ristagna e rimane così com’è a prescindere da chi vada a governare, tanto nell’opinione collettiva non cambierà mai nulla e il tasso dell’astensionismo, diventato ormai il partito di maggioranza assoluta ne è la più triste attestazione della sconfitta della politica.
Un pensiero se coltivato nel cuore della responsabilità, della fortezza e della libertà non muore, vive nella speranza le diverse stagioni della storia.
La politica si deve riappropriare della libertà di parlare pubblicamente il linguaggio della verità.
La verità la si incontra vivendo con l’amore dentro il senso profondo del servizio, e il vivere comprende tutto quanto ci accade, oltre a quello che facciamo accadere noi quando diventiamo strumento della nostra carità.
La politica senza carità diventa sterile conquista del potere per il potere e nessuna azione ci gioverebbe anche se conquistassimo il cento per cento dei consensi.
Questi sentimenti descritti germinano nella Democrazia Cristiana, realtà che deve riproporsi a tratti rinascere, ma per rotolare la pietra del sepolcro e risorgere deve ricordare, perdonare e innovare, nella prospettiva di quella attualizzazione profetica finora descritta applicando quel codice materno menzionato.
Da qui, riannodando i fili della memoria, diviene facile seguire il cammino verso l’incontro dell’uomo e nell’incontrare l’altro, i suoi bisogni riscoprire il senso profondo della nostra umanità e finalmente incontrare nell’altro, nel prossimo, nel bisognoso, nel povero il volto trasfigurato del Cristo la cui umanità dopo la rivelazione nella storia è in mezzo a noi.
E allora con Dossetti riapriamo una nuova stagione di riforme che pongano al centro la persona umana, la sua dignità e valore sin dal concepimento, con La Pira ridefiniamo la politica, guardiamo alla persona incontriamo la bellezza dell’altro e soprattutto del povero e bisognoso, su queste dinamiche di servizio riuscire ad incontrare il Cristo trasfigurato nei poveri e nei più bisognosi, solo in questo modo si potrà elevare la politica alla più alta forma di carità come teorizzato da Paolo
VI. In queste successioni di senso, generare una nuova stagione nella storia contemporanea nella quale la politica di centro, moderata può ancora avere un “ruolo centrale” nella politica nazionale, europea ed internazionale nel riportare in campo il “confronto” e nel “dialogo” la speranza dell’incontro dei popoli ricucendo lo strappo tra la politica e la gente.
In questa umanità nuova occorre che la DC divenga strumento indispensabile per risolvere e dissolvere ogni ingiustizia sociale che si verifica sempre come diceva Aldo Moro “per una mancanza d’amore”.
Il mondo non ha bisogno di erigere muri, di chiudere i confini, di chiudere i porti. L’umanità e i popoli hanno necessità di costruire ponti, l’accoglienza è un principio fondativo, fondante e fondamentale di civiltà e di progresso a cui la politica non può rinunciare per esprimere la bellezza della umanità. Il mondo deve aprirsi alla libertà di transitare e potere decidere liberamente dove vivere nel rispetto delle culture e nel rispetto dell’altro e dello straniero in una prospettiva di reciprocità e nella equidistanza dei diritti.
I diritti umani sono inviolabili e vanno garantiti al di là di ogni discriminazione di sesso, razza, di idee, di religione, di cultura. In questa stagione storica di buio nella politica, di disagio economico, di incertezza del futuro, sull’esempio di “Noè” dovremmo farci “piantatori di vigne” perché in questo semplice gesto Noè agisce non solo come strumento di Dio guidato dalla volontà del Signore ma anche facendo leva sulla sua umanità.
Quando “pianta la vigna” Noè agisce nella sua umanità, come uomo che con il gesto simbolico di piantare la vigna restituisce l’avvenire al tempo e alla politica una nuova opportunità.
Dobbiamo sulla metafora della vigna generare un nuovo germoglio di speranza, promuovendo l’ “unione cristiana” su quel patrimonio di idee fondate sui valori umani e cristiani per ritrovarci “uniti-insieme”, ma diversi, a dare una nuova possibilità alla “Politica” che restituisca l’avvenire al tempo e riconquisti la fiducia perduta da parte del popolo così da farlo ritornare ad essere sovrano.