Alberghiero G. Falcone Gallarate: nuovo bando per le esercitazioni di laboratorio

L’Alberghiero G. Falcone di Gallarate ha bandito oggi la gara per i servizi di mensa e di esercitazione di laboratorio per il triennio 20 – 23.

Un esempio di come la scuola nonostante il caos che la circonda stia ancora lavorando al meglio.

Per tutte le ditte che volessero partecipare si allega il link al bando di gara:

https://www.isfalconegallarate.edu.it/index.php/bandi-e-gare/9-generale/1832-bando-derrate-alimentari-2021-2023




START … SI (RI)PARTE … VROOOOOM

Con nota prot. 1324 del 17 luglio il Ministero dell’Istruzione ha disposto la rilevazione dei fabbisogni degli arredi scolastici per far (ri)partire la scuola in sicurezza, garantendo il distanziamento.

La rilevazione, scadenza 20 luglio poi prorogata al 21, ha permesso ad ogni scuola di indicare le quantità di banchi monoposto con relative sedie e delle ormai famose “sedie innovative”.

Il Pavoncelli, nella rilevazione dei fabbisogni in arredi scolastici, ha indicato solo banchi monoposto, soluzione unica che potrà con tutte le difficoltà del caso assicurare il distanziamento statico.

Meglio il tradizionale banco in legno, perché più utile alle attività di classe, per poggiare quaderni e libri, per utilizzare l’ingombrante album da disegno.

Inoltre la scelta farà risparmiare sensibilmente le casse pubbliche passando da 40 euro per un banco monoposto a circa 300 euro per una sedia innovativa. Da altre scuole ci scrivono: “… abbiamo acquistato questo tipo di sedie con il PON Ambienti digitali. In molte le ruote si sono rotte, non sono comode per i ragazzi e i più indisciplinati le usano tipo autoscontro”.

Per garantire il distanziamento fisico meglio i “vecchi” banchi che saranno posizionati nelle aule nel rispetto di “… 1 metro dalle rime buccali” e segnata sul pavimento la loro corretta posizione, in modo che possa essere facilmente ripristinata dopo le quotidiane operazioni di pulizia e sanificazione.

Con le sedie provviste di ruote sicuramente aumenterà la capienza delle aule scolastiche, ma come si farà a far rispettare il distanziamento? Occorrerebbe un freno a mano e docenti/ausiliari del traffico per vigilare sul rispetto del distanziamento.

Eppure molti sembrano entusiasti dell’iniziativa, come se in una qualsiasi classe di una qualsiasi scuola, al nord come al sud non ci fossero mai entrati.

Si sente dal Ministero che le sedute con rotelle sono “la soluzione che garantisce il maggior distanziamento” e “in futuro permetteranno invece l’avvicinamento per avere un’innovazione didattica che permette agli studenti di lavorare in gruppo”.

La scuola innovativa non si fa con nuove sedie, ma attraverso la personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento, possibile solo con MENO alunni per classe e PIÙ personale docente e ata.

 

D.S. Pio Mirra




“Il buio dietro il sole”: Franz Schubert

 

Stavo guardando ed ascoltando un breve video in cui Luca Ciammarughi veniva intervistato a Piano City Milano, quando mi è preso questo impulso di scrivere.

Luca ha, così, in tutta serenità e semplicità, dall’alto della sua disparata conoscenza musicale – schubertiana in particolare – espresso alcuni concetti e visioni che hanno perfettamente incontrato le stesse mie impressioni.

Impressioni e ipote­si che mi sono fatto a suo tempo, quando il mio percorso di studi musicali mi ha portato ad avvicinarmi “seriamente” alla figura di Schubert, affrontando la sua Sonata in La minore D784.

 

Non conosco molto della vita di Franz Schubert.

Senza vergogna aggiungo anche che credo di ricordare molto poco, e che quanto so è quel che si può trovare nei più comuni libri di storia della musica o affini.

Quel che ricordo sono bagliori isolati, concetti sparsi che, probabilmente, nel mio inconscio hanno un loro senso, seppur tratteggiato.

“Maestrino”, ricordo: un vezzeggiativo di cui tanti anni fa mi disse un mio maestro di pianoforte.

A quanto pare, così era spesso velatamente – ma neanche troppo – sbeffeggiato Schubert da certi suoi contemporanei: in un’epoca in cui il fantasma beethoveniano imperava ancora profondamente sul mondo musicale.

Ricordo di aver letto della “gavetta” di voce bianca di Schubert, della sua voce apprezzatissima e del suo amore per la vocalità, la quale, guarda caso, ha ispirato un numero a quattro cifre di lieder.

Ricordo che morì giovane, ahimè; ma come Mozart, lasciando a noi posteri una produzione disparata di musica di grandissima importanza.

 

Fino a una decina di anni fa del repertorio schubertiano – se si escludono le composizioni pianistiche arcinote come i due cicli di Impromptus, i Moments musicaux, la Wanderer-Phantasie, la Sonata D960 e i brani per duo a 4 mani come le Marce militari, la celebre Fantasia in Fa minore e il Divertimento all’ungherese – conoscevo più che altro la musica cameristica.

I quartetti d’archi primi su tutti, i cui i più noti Der Tod und das Madchen (La morte e la fanciulla) e Rosamunde non sono che due ovvi esempi.

Ma anche l’ultimo, pazzesco e meraviglioso, Quartetto in Sol maggiore D887 che, non mi si chieda il motivo, mi riporta spesso alle sfumature del Sestetto per archi n.2 Op.36 di Johannes Brahms (altro compositore di cui amo probabilmente più il lascito cameristico che di altro genere), specialmente nei momenti in cui il tono popolareggiante emerge più spiccatamente.

Conoscevo i due trii con pianoforte, opere monumentali dense e ricche di aspetti interessanti; l’incredibile Quintetto in Do maggiore, sempre per archi, e il ciclo liederistico Winterreise, un vero e proprio viaggio – appunto – non solo nel freddo dell’inverno, ma fuori dal tempo e dal corpo.

Ignoravo quasi tutte le sonate.

Ignoravo le sinfonie e ancor di più la musica sacra.

Ignoravo perché riconoscevo una mia personale fatica a entrare in vero contatto con l’autore, unita all’esiguità delle occasioni nelle quale poterlo ascoltare.

Come dicevo, è stato l’incontro-scontro con la Sonata in La minore D784 a dipanare alcune nebbie e avvicinarmi con un’altra disposizione d’animo alla figura poliedrica e alquanto misteriosa di Schubert.

La D784 non lo rese uno dei compositori più vicini al mio sentire, tantomeno mi fece innamorare perdutamente di tutto quel che ignoravo.

Ma, indubbiamente, creò uno spazio in più; mi diede un’ulteriore ricchezza che a sua volta mi regalò molto.

 

D’impatto potrei dire che Schubert, ben più di altri – per i quali sarebbe forse più ovvio o prevedibile dirlo – è un compositore con un non-so-ché di “inquietante”.

Anche quando ci propone una melodia dolce e pacifica, dalla fisionomia chiara, o un tema delicato e tranquillo, trasmette allo stesso tempo qualcosa di ombroso e sfuggente.

Non riferendo unicamente alla sonata della quale ho accennato, ma più in generale a tutta la sua musica.

Un po’ come Schumann, che di Chopin una volta disse “cannoni sotto i fiori”, di Schubert si potrebbe dire “il buio dietro il sole”: come un’ambigua smorfia di tensione che cerca di rannicchiarsi dietro un sorriso bonario, o una sorta di freddo alito dietro l’orecchio nel pieno di un momento di pace.

 

Mi torna alla mente una frase della cantante Björk: “la musica non è questione di stile, ma di sincerità”.

La musica schubertiana è non poco ambivalente: tanto schietta ed eloquente da un lato quanto metaforica ed “equivoca”, diciamo, dall’altro.

La rassegnazione che percepisco quando ascolto, ad esempio, l’apertura della Sonata D960 è qualcosa che non riesco ad ignorare: questo tema così morbido, semplice e pulito, mi restituisce anche un senso di accettazione “passiva”, di arresa, di abbandono a un triste destino forse già annunciato.

Schubert è capace di evocare, con lo stesso motivo, luoghi molto reali e terreni quanto piani molto più elevati e lontani.

La prima volta che ascoltai in disco la Sonata in La minore, interpretata dall’immenso Radu Lupu, rimasi sconvolto, nel primo movimento, dalla ripresa del secondo tema: quell’aura di semplicità popolare che lo rivestiva nell’esposizione si trasforma in qualcosa di ultraterreno, sognante ed elevato al suo richiamo, in La maggiore.

Questo canto rinasce estremamente timido, e dal punto più intimo dell’io; quasi di controvoglia, come se Schubert volesse tenerselo per sé ma si rendesse conto che ormai l’ha scritto e l’ha portato nel piano reale, e lo osservasse, da lontano, andare per la sua strada.

E’ quasi una preghiera, detta con unimi e semplici proprie parole, innocente come un bambino arrossato da un velo di vergogna.

 

E di nuovo nella D784 ho percepito un aspetto della musica di Schubert, aspetto che anche altri hanno sottolineato: il suo “camerismo”, se così si può dire, la vicinanza con la scrittura per quartetto d’archi o con quella dei lieder.

Spesso al limite della trascrizione.

Tale aspetto pone non di rado parecchi problemi e punti interrogativi con la tastiera, in quanto non sempre è possibile evocare pienamente certe sonorità con il pianoforte.

Diversi passi di questa sonata hanno immediatamente richiamato a me sonorità d’arco – lo stesso motivo iniziale, così essenziale e legato, enunciato con le mani all’ottava, ne è chiaro esempio – o anche di fiati e di voci.

Soltanto il finale può essere considerato un po’ più pianistico, seppure non manchino tessiture adatte a un possibile trio o a una linea di canto con accompagnamento.

 

Un’altra cosa di cui mi sono accorto, è che la musica pianistica di Schubert non cerca facili virtuosismi, non ama gli effetti strumentali fini a loro stessi, non ha del “biedermeier”.

In un contesto musicale come il primo romanticismo, dove i grandi dominatori della tastiera solcano gli orizzonti (e i palchi dei teatri, o i tappeti dei salotti più in voga), lui percorre e traccia una strada tutta sua, coraggiosamente.

Non ama le parafrasi, gli studi da concerto, le cascate di note vaporose e le scritture “di bravura”.

Trova il suo nutrimento in un terreno in cui l’eloquio narrativo è il fattore predominante.

Schubert si fa cantastorie di situazioni salottiere e di ritiri al limite dell’ascetico.

E’ qui che sento – almeno personalmente – quella sua profonda radice del canto, quella sua voce bianca.

E’ qui che mi accorgo dell’agilità melodica e della disinvoltura costruttiva e discorsiva di Schubert.

Cose che, un po’ più avanti, adotterà il già citato Brahms, il quale ripudierà i funambolismi dei lisztiani (al limite dell’addormentarsi ascoltandoli) e cercherà, nel riappropriarsi di forme più classiche e convenzionali o in un rievocato rigore contrappuntistico, i punti di forza della sua poetica musicale.

Così pare essere Schubert, che fra terra e cielo, inquietudine e riposo, rarefattezza e intensità, rinuncia a tutto ciò che sembra non essergli necessario, curandosi invece di portare avanti l’essenza, l’anima indispensabile della musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andrea Rocchi




Testa: no ad alta tensione inutile

COMUNICATO STAMPA

TESTA (FI): DICE NO ALLE PALE EOLICHE 

 

Sarà per me un onere e un onore rappresentare il capofila di maggioranza nell’illustrazione dell’ordine del giorno “No alle pale eoliche, orizzonte libero” nel prossimo consiglio comunale. 

È mia premura innanzitutto ringraziare la maggioranza per l’opportunità concessami, affinché anche la figura di un giovane possa farsi portavoce di pratiche che assumono notevole rilevanza per tutta la comunità e non solo. 

La costruzione di un parco eolico off shore  rappresenta l’ennesima strumentalizzazione di una città a cui non viene data voce. 

Ora basta. 

In aggiunta al danno d’immagine, la centrale eolica off shore richiederebbe  l’installazione di migliaia di chilometri di nuove linee ad alta tensione altrimenti non necessarie, in aggiunta ad un costo capitale ed energetico eccessivo e senza previa valutazione di impatto ambientale. 

Per essere precisi, il progetto prevede la costruzione di 59 aerogeneratori, una rete elettrica a tensione nominale pari a 30 kV, 2 piattaforme marine, 2 condotte elettriche sottomarine, 2 giunti cavi terra-mare, 2 vasche, una condotta terrestre interrata a circa 1,70 m, una stazione utente di trasformazione 150/380 kV, un collegamento lungo circa 450 m e uno stallo di 380 kV. 

A riguardo, quello che in apparenza potrebbe sembrare una numerosa lista della spesa è invece la disastrosa portata di un progetto che, se posto in essere, rappresenterebbe l’inizio della fine del settore turistico riccionese da sempre parte fondamentale e integrante del più ampio turismo romagnolo.  

Noi non ci stiamo. 

A questo proposito, ci tengo a sottolineare che ho già provveduto a contattare il consigliere regionale Valentina Castaldini che oltre ad aver appoggiato la causa si farà promotrice congiuntamente al centro destra di una risoluzione da presentare dinanzi al consiglio regionale visto e considerata la pura follia ambientale e turistica che genera questa opera a livello di impatto sulla città. 

 

Testa Greta

consigliere comunale FI Riccione




LETTERE DA ENDENICH

Qualche considerazione sui coniugi Schumann in seguito alla lettura di “LETTERE DA ENDENICH” (Filippo Tuena/Anna Costalonga)

di Andrea Rocchi

 

Nel Novembre 2017 mi trovavo in visita a Verona, e, alla ricerca di un oggetto ricordo, sono inciampato in Lettere da Endenich, piccolo libro edito da “Piccola biblioteca di letteratura inutile” e curato da Filippo Tuena e Anna Costalonga che descrive gli ultimi anni di vita di Robert Schumann facendo leva sulla  corrispondenza epistolare del compositore dal sanatorio di Endenich luogo nel quale egli stesso chiese di essere internato.

 

L’introduzione di Tuena – intitolata di paesi e uomini stranieri, in chiaro richiamo al titolo della prima delle celebri Kinderszenen – illustra come la figura di Robert Schumann, negli ultimi anni di vita e in particolare dal suo internamento, si possa paragonare a uno specchio andato in frantumi.

Frantumi che non possono, ahimé, essere riassemblati ottenendo un’immagine completa e unitaria; ma frammenti dai quali sta al lettore interessato dedurre, fare ipotesi più o meno plausibili e giustificate al fine di stilizzare una fisionomia più o meno veritiera del volto del compositore.

Il frammento è la lanterna dell’eremita, l’indizio che può condurre, forse, verso una visione meno evanescente e più nuda, più cruda di Schumann.

Come infatti Filippo Tuena dice, “l’uomo che si è specchiato affronta i propri fallimenti”: il nostro compositore si disincanta gradualmente, si discosta dagli entusiasmi artificiali e dalle sognanti speranze che giungono dai cari; scruta dentro se stesso, senza filtri, istigato dal graduale svelarsi di un elemento sconosciuto che induce uno senso di disturbo, di profonda e crescente inquietudine.

L’uomo-artista guarda in faccia il proprio sdoppiamento: quella zerrissenheit che, già tempo prima, aveva partorito le figure di Florestano e Eusebio, che ora sembra come rigirarglisi contro – o, meglio, addosso – sempre di più, rendendolo inerme, incapace di imporsi in qualche modo.

Fra gli elementi caratterizzanti di questa condizione di sudditanza emergono le allucinazioni auditive – cominciate da un leggero “fischio” per raggiungere suoni precisi (un la) o intere melodie, orchestre suonanti; un doppio tentativo di suicidio, mai effettivamente accertato; una forma di depressione dalle svariate manifestazioni – quasi un senso di “inutilità di sé” – forse a seguito di una qualche malattia venerea, contratta in giovinezza; o ancora l’alcolismo, che pare involontariamente amplificato dall’emergere della figura amica di Johannes Brahms. Schumann descrive quest’ultimo quale fiera e coraggiosa stella nascente del panorama musicale, colui “che doveva giungere”; si entusiasma per le sue composizioni, ne scrive ampiamente e con calore in più di una lettera.

Eppure, forse è possibile scorgere, correlatamente, un velato ma passivo, intimo senso di invidia.

Dalle lettere che costituiscono l’anima di questo libricino, quel che mi ha colpito maggiormente è l’imprevedibile apparente – probabilmente anche simulato di proposito – stato di quiete del compositore, diametralmente contrapposto all’angoscia urlante della moglie, Clara Wieck.

Il che è indubbiamente comprensibile quanto non biasimabile; ma la sensazione che se ne trae, che anche Tuena non si esime di sottolineare, è quella che rende il dolore di lei il fulcro, il reale focus della vicenda: l’attesa forzata di sei mesi dall’inizio dell’internamento dell’amato marito prima che lei possa scambiare con lui anche una sola lettera; per non parlare, poi, di due lunghi anni prima poterlo rivedere, ormai agli sgoccioli della sua esistenza, la sfiniscono.

A ciò si unisce quello stato di indeterminatezza, di “non veramente detto” che lui tiene nelle lettere (forse per evitarle maggior dolore, ma che lei percepisce bene) non la aiutano: si ha l’impressione che Schumann non faccia che chiederle piccoli o grandi favori senza considerarla più di tanto od esprimere parimenti sensazioni di mancanza, di desiderio.

Clara nella sua quotidianità non ha che Brahms e Joachim a sorreggerla, che ciclicamente si recano a Endenich a fare visita a Schumann in sue veci, tenendola informata sull’evolversi della malattia e sui comportamenti del marito; non può contare sulla voce del suo Robert, che negli ultimi quattordici mesi interrompe drasticamente la corrispondenza con lei, accrescendo enormemente la sua angoscia.

Eppure, nonostante tutto questo, Clara deve portare avanti il suo lavoro di pianista concertista – per lei non poco debilitante: soffre spesso di tendiniti – e compositrice, mantenere se stessa e le figlie, pagare la degenza di Endenich…

I frammenti messi a disposizione in Lettere da Endenich hanno al loro interno una fragorosa capacità comunicativa.

Le lettere, i loro toni, ci raccontano gli effettivi valori attribuiti da Schumann alle sue relazioni umane, i quali appaiono non di rado ridimensionati rispetto a quel che ci si potrebbe aspettare o si è solito conoscere per consuetudine storica.

Quando, poco sopra, ho accennato ad una possibile invidia del compositore nei confronti di Johannes Brahms, l’ho fatto sulla base di considerazioni tratte dando uno sguardo più acuto al linguaggio che l’uno utilizza con l’altro (diversamente che con altre persone), cosa che Tuena a sua volta sottolinea quando scrive che “le lettere svelano molto dell’uomo che le scrisse e persino dei destinatari che le ricevettero; soprattutto svelano molto dei rapporti intercorsi tra i corrispondenti in quel periodo essenzialmente velato dalla «non comunicazione»”.

Voli pindarici alquanto estesi e approfonditi sulle composizioni di Brahms – quasi “lettere dentro le lettere” – in un’epistola che non principia con alcun “caro…”, e che magari termina solo con un poco coinvolto “a presto”, danno adito all’idea di una forte emozione iniziale associata al tentativo di mantenere uno strano distacco; un senso come di “fastidio” una volta spentosi l’ardore scaturito sfogliando le Variazioni o le Ballate brahmsiane.

Pur sapendo della venerazione di Schumann per il giovane amburghese, forse non fuori luogo supporre che essa potesse rimbalzare in lui negativamente, con un vago ma invadente senso di invidia, di “gelosia” verso quel temperamento umano e musicale (ovvero non per Brahms in sé); riportando ancora, e con violenza, davanti quello specchio ormai in pezzi, e impossibile da ricomporre: quel riflesso crepato irrimediabilmente portatore di un senso di ingiustizia subita così difficile da digerire, alla cui accettazione si associa una rinuncia di obiettivi, di sogni così vitali ed essenziali e forse, paradossalmente, anche a un vero contatto con la realtà.

Gli ultimi giorni di vita del compositore emergono anch’essi in sgretoli, dalle strazianti descrizioni: ancora una volta è la moglie al centro della scena, nella disperata ricerca di un segno negli occhi del suo Robert che le suggerica di essere riconosciuta o le comunichi ancora amore, che non vanifichi le lunghe attese e gli sforzi fatti.

Clara si prostra fino alla fine, con il dubbio di non essere realmente considerata dal marito – ormai in stato irriconoscibile, ad occhi chiusi nel letto: gli arti tremanti, incapace di articolare parole comprensibili, in continua lotta con i suoi spiriti, e che dalle dita di lei a malapena beve qualche goccia di vino.

Soltanto rari barlumi danno a lui il coraggio di tentare di stringerla a sé, ma ciò si traduce solo in un braccio goffamente gettatole intorno.

Non si è presenti alla vicenda eppure sembra quasi di vederli, immancabilmente innamorati, nell’estrema sofferenza, profondamente uniti anche negli ultimi momenti prima dell’inevitabile separazione.

Alla morte di Robert Schumann corrisponde quella di una parte delle persone che lo amavano – soprattutto, appunto, di Clara – e il trascinarsi dei suoi misteri in un baratro in cui forse mai troveremo risposte alle nostre domande.

Ci possiamo però consolare, con le sue musiche: in particolare le ultime (citate anche nelle lettere), come i Gesänge der Frühe o il Concerto per violoncello e orchestra, sperando possano suggerirci, in un linguaggio altro, se non il nome del male che affliggevano Robert o dei demoni che lo assillavano, almeno qualche aspetto di quell’universo al contempo celestiale e infernale da lui tenuto in petto e dispensatoci, come fece Clara con il vino, a poche gocce, direttamente dalla sua penna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andrea Rocchi




Luci ed ombre sul nuovo assetto della storia

Nella riunione dell’eurogruppo, durata appena tre ore, il problema dell’adesione al Mes, che pure aveva rappresentato un fardello ai lavori della Commissione europea negli ultimi mesi, si è risolto agevolmente.

L’oggetto della discordia, il Mes, ha diviso l’europa tra paesi del blocco nordico, fautori della frugalità e del rigore dei conti pubblici, da quelli dell’area mediterranea, alle prese con la recessione economica già da prima che la pandemia divampasse.

Eppure il Meccanismo Europeo di Stabilità ha rappresentato un principio, un articolato normativo, una Linea Gotica, per e della Germania, più che una reale misura di sostegno per i paesi aderenti in difficoltà.

Dopo la riunione di ieri, infatti, grazie al Mes, sarà operativa una nuova linea di credito disponibile dal 1° giugno che potrà essere utilizzata per le spese sanitarie dirette ed indirette a concorrenza del 2% del Prodotto interno lordo.

Per il nostro paese la manovra non dovrebbe superare i 36 miliardi di euro.

Una cifra inadeguata alle esigenze sanitarie del paese.

Perché tanta importanza, allora, a questo strumento il cui dibattito in sede comunitaria era stato inizialmente calendarizzato per il mese di luglio e poi  anticipato bruscamente a fine gennaio scorso e, cioè, al palesarsi dei primi sintomi del Covid 19 in Italia?

Non è facile capirci molto anche perché il gergo della maggioranza  e dei capi di Stato e di Governo dell’Unione è sempre stato smussato dai consulenti della comunicazione per i quali tra verità reali e presunte spesso non c’è soluzione di continuità.

Il regolamento 473/2013 relativo alle “disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri della zona euro

si occupa della complessa vicenda richiamando nell’articolo 1 che il trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che gli Stati membri considerino le loro politiche economiche una questione di interesse comune, che le loro politiche di bilancio siano guidate dalla necessità di finanze pubbliche sane che non rischino di compromettere il buon funzionamento dell’Unione economica e monetaria.

L’articolo 1 è già di per sé esaustivo.

I principi richiamati non sono la solidarietà e la promozione sociale economica ed umana dei cittadini soprattutto in contesti di gravi crisi asimmetriche, come qualcuno avrebbe pensato, ma l’equilibrio dei conti pubblici, costi quel che costi.

E’ tuttavia la lettura del regolamento 472/2013, al titolo

sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati Membri nella zona euro che si trovino o rischino di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria” che ci permette una visione più chiara di cosa stia accadendo.

Nel dettato normativo, in sostanza, si attribuisce alla Commissione (art 2) la facoltà di sottoporre a sorveglianza rafforzata uno Stato membro che si trovi o rischi di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria.

Il rafforzamento della sorveglianza economica scatta per i paesi che abbiano accettato di beneficiare di assistenza finanziaria a titolo precauzionale da uno o più stati membri o terzi, dal Mes …

o da altre istituzioni finanziarie, come il Fondo Monetario Internazionale, l’FMI (art 3).

Nei casi più gravi il Consiglio, a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, puo’ raccomandare misure correttive precauzionali o predisporre un progetto di aggiustamento macroeconomico  che avrà come obiettivi:

la riduzione del debito pubblico, il contenimento di pensioni e salari e la riforma dello Stato (art. 7).

Lo Stato membro soggetto al richiamato programma di aggiustamento macroeconomico che non avesse la capacità amministrativa di guidare la transizione verso gli equilibri di bilancio potrebbe essere assistito da personale tecnico messo a disposizione dalle istituzioni europee (art 8).

La lettura dei regolamenti citati dissipa ogni dubbio.

Attraverso il Mes, che è un “trigger”, un tecnicismo giuridico, non una vera e propria misura di sostegno economico, l’Unione monetaria può imporre politiche economiche rigoriste ai paesi che abbiano fatto richiesta di misure di sostegno fino a limitarne la sovranità economica e politica.

Il paese aderente, una volta richiesto l’intervento del Meccanismo europeo di stabilità, si vedrà costretto a siglare un’accordo di intesa

(MOU Memorandum of understanding) con la Commissione europea, la Bce ed il Fondo Monetario Internazionale (Troika) che daranno via al monitoraggio ed alla probabile imposizione di politiche economiche come previsto dai trattati e dai regolamenti citati.

Il caso della Grecia durante la crisi del 2010 ci torna in mente in modo prepotente.

Il programma di aggiustamento macroeconomico messo in opera dalla Troika ha prodotto, in quella occasione, tagli verticali a salari e pensioni, nuove forme di imposizione fiscale e tagliato il debito pubblico di oltre il 50%.

La cattiva notizia è che non esiste un “Mes light”.

Non esistono condizionalità attenuate a meno che non si metta mano alla modifica dei regolamenti richiamati.

Coloro che sostengono il contrario sono come quel banchiere che nel prendere le firme sulla pratica di mutuo al momento di presentare  le clausole di garanzia ed i provvedimenti in caso di morosità ci dicesse di non preoccuparci perché tanto la banca non li userà…!

Il tentativo del Commissario Gentiloni di presentare il Mes come un’iniziativa diretta al finanziamento delle spese sanitarie la cui condizionalità opererà soltanto su l’uso coerente dei fondi, non è credibile e fa il coro con le dichiarazioni dei numerosi politici e dirigenti  che nelle prossime ore cercheranno di presentare agli italiani come vittoria quella che invece è, e resterà, una sconfitta.

Né convinceranno le prese di distanza che anime della maggioranza di governo in italia porranno in essere, con lo scopo di rendere meno pesanti le ricadute di consenso delle politiche sostenute.

Del resto il paese è duramente colpito e le proiezioni su prodotto interno lordo, deficit, reddito ed occupazione non potranno che confermare l’impoverimento del nostro tessuto sociale ed economico.

Le misure di sostegno promesse dal Consiglio europeo, una volta accettato il Mes,  riposano, inoltre, sul bilancio dell’Unione 2021/2027 e prevedono finanziamenti importanti per l’economia comunitaria da spalmare in più esercizi ma senza un’unione fiscale:

lo scontro sulla mutualizzazione del debito dei paesi più in difficoltà non si risolverà facilmente e la parola d’ordine continuerà a rimare con rigore, tagli alla spesa, tasse patrimoniali e riduzione del debito pubblico esistente.

La Germania ha fatto del Mes la sua Linea Gotica, la linea difensiva fortificata lunga oltre 300 chilometri costruita dai soldati tedeschi nell’Italia centro settentrionale alla fine della seconda guerra mondiale con il fine di proteggere la madre patria germanica da una ipotetica controffensiva.

Linee fortificate di ieri fatte di montagne e costruzioni che rivivono oggi nelle parole, nelle normative e negli  atti di indirizzo politico ma la sostanza non cambia.

Sullo sfondo rimangono le macerie di un continente  europeo ancora alla ricerca di una propria identità.

In questi mesi, le riunioni delle assemblee decisionali dell’Unione sono state accompagnate, spesso precedute, da eventi negativi annunciati o temuti:

downgrade del debito pubblico

revisioni al ribasso delle stime economiche

sentenze avverse da parte di tribunali costituzionali ad interventi di sostegno economico già assunti da anni

(i.e. Quantitative Easing).

Campanelli d’allarme che ai malpensanti possono richiamare echi di complottismo ed ai miti  semplici casualità.

Non sorprenda, tuttavia ad entrambi, che la società Moody’s abbia lasciato inalterato il merito creditizio del paese nella riunione, anch’essa svoltasi nella giornata di ieri.

Non si dispiaceranno i miti lettori, se alle coincidenze, i maligni, dai quali ci  dissociamo, ne aggiungeranno un’altra: una data.

Quella dell’8 maggio.

Il Mes è adottato da ieri, 8 maggio 2020 e consegna alla Germania un primato sugli altri paesi.

Settantacinque anni fa un’altro 8 maggio regalava al mondo una speranza di pace: la resa senza condizioni della Germania nazista alle truppe alleate.

Fatti che s’inseguono quasi per caso e che parlano più di mille parole.

Se gli eventi conservano un’anima, se un filo lega i corsi storici, dovremo ricordare, a questo punto, che dopo la capitolazione della Germania

nazista e la fine della guerra, il Mondo dei “giusti” avvio’ un percorso di pacificazione che ebbe inizio con un Processo:

quello di Norimberga.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Piano Marshall oggi più che mai!!

Pandemia Finanziaria, cui prodest?

 




Maestra mi manchi…..

“Maestra mi manchi”

“Guarda la mia foto maestra ,mi sono caduti tre denti!”

“Mi scusi maestra, volevamo salutarla, Mattia in questi giorni di quarantena, ha iniziato a mangiare
tutto!”

… e via così.

Viviamo la nostra vita a distanza, maestre, genitori e alunni, ma ci manchiamo.

Il Coronavirus ci ha divisi e, anche se, dal giorno successivo alle parole del Presidente del Consiglio, noi insegnanti della Scuola dell’Infanzia di Castiglione in Teverina, ci siamo attivate per stringerci in un cerchio virtuale e affettivo, con le famiglie, per rimanere uniti, alla Scuola, quella con la S maiuscola manca la sua anima.

Ci manca l’essenza dell’ insegnamento : la presenza.

Ci mancano le bocche “cioccolatose”, gli occhi felici per le grandi conquiste, i disegni bellissimi, gli abbracci altezza ginocchio, le impronte di quelle piccole mani. Ci mancano i sorrisi giganti, per le caramelle, o gli esulti per andare in giardino. Ci manca sfogliare insieme un bel libro.

“Prendete asciugamano e bicchiere, oggi è venerdì e domani non c’è scuola!”, è un po’ che non
pronunciamo questa frase.

Ulisse nel suo viaggio e nel nostro progetto è rimasto all’isola delle Sirene o poco più in là e per
noi, la sveglia non suona più da quasi due mesi, ma stranamente, non siamo tranquilli.

Spesso mi chiedo come si possano sentire chiusi in casa, mi dispiace saperli tristi, ma poi, arriva la foto.

Arrivano le foto della vita quotidiana, dei loro lavori meravigliosi, frutto del grande impegno dei
genitori che, ci seguono e si dedicano a loro con amore.

Si lavora da casa tutti, maestre, genitori e bambini, per portare a compimento la progettazione
annuale, alla quale in questo, seppur, breve anno scolastico, ci siamo tanto dedicati……
dobbiamo ritornare a Itaca!

I nostri telefoni e computer sono incandescenti la sera, perché è così che ci siamo organizzati,
inviando attività didattiche, messaggi vocali, registrazioni video di storie lette da noi.

Abbiamo rivisitato e ridimensionato la nostra progettazione, per permettere alle famiglie di gestirla al meglio.

Siamo entrati nelle loro case, principalmente, per trasmettere vicinanza, non è importante
essere al pari con tutte le attività inviate, ma è importante che esse ci siano, che in un momento
così difficile, la Scuola sia l’ancora a cui aggrapparsi per non mollare.

Sembrava di vivere un film la sera del blocco, cercavamo certezze in famiglia, gli uni negli occhi
degli altri, ma non c’ erano.

Quelle che avevamo si sono dissolte nel nulla, come gli esami di maturità di mia figlia o quelli
all’Università del maggiore.

Metabolizzare i rimi delle nuove giornate e conciliare le proprie esigenze di studio con le circostanze attuali, non è semplice, neanche per loro anche se ormai, sono grandi.

Dopo colazione, ognuno nelle proprie stanze, la nostra vita scandita dai pasti, dai
collegamenti online con la scuola, con i colleghi, con amici o familiari.

Le grandi abilità tecnologiche dei nostri giovani, verso le quali, talvolta, abbiamo espresso criticità,
ci stanno salvando dall’isolamento, permettendoci, di mantenere i rapporti con il mondo e di
continuare a lavorare per non farlo fermare.

Da inguaribile ottimista, voglio pensare che, presto tutto questo finirà e torneremo tra i banchi a
pitturare, nel salone a ballare e a recitare, a cantarci gli auguri per i compleanni, a tornare a casa
senza voce e a desiderare il silenzio, a progettare cose belle da insegnare per entusiasmare coloro
che saranno il nostro futuro.

” Se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo
aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”.

M. Montessori

 


Anna Lisa Lattanzi
Insegnante Scuola dell’Infanzia-Castiglione in Teverina
IST.OMNICOMPRENSIVO F.LLI AGOSTI BAGNOREGIO

 

 

 

 

 

 

Esame sì, esame no, esame boom…

Educare la Mente, il Corpo e lo Spirito, oggi qualcuno ne è ancora capace?

 




L’origine di tutti i mali.

Sono convinto che l’origine di questa crisi sia stato il colossale fallimento del mercato e delle politiche neoliberali che hanno intensificato i profondi problemi socio-economici.

Si sapeva da tempo della possibilità che si verificassero pandemie dovute soprattutto alle trasformazioni dell’epidemia di SARS.

Per limitare i danni avrebbero potuto lavorare sui vaccini, sullo sviluppo di una protezione per potenziali pandemie da coronavirus, e con lievi modifiche avremmo potuto avere i vaccini disponibili oggi ma è più redditizio fare nuove creme per il corpo che trovare un vaccino che protegga la gente dalla distruzione totale.

La crisi sanitaria del coronavirus è molto grave e avrà gravi conseguenze, ma sarà temporanea, mentre ci sono altri due gravi orrori per l’umanità: la guerra nucleare e il riscaldamento globale.

Il problema più complesso da risolvere, però è quello che riguarda il cambiamento di mentalità, tema trattato ampiamente nella mia tesi di laurea.

Mi riferisco alla transazione di uno sviluppo sostenibile e non solo tanto all’attenzione a chiudere il rubinetto dell’acqua mentre si lavano i denti, a ridurre gli sprechi alimentari, a minimizzare il consumo di energia, ad avere migliori stili di vita, tutti elementi comunque importantissimi “a prescindere”, ma mi riferisco alla trasformazione della cultura e dei modelli con cui interpretiamo, e quindi trasformiamo nella direzione voluta, la realtà.

La trasformazione che dobbiamo operare riguarda i parametri con i quali misuriamo il successo di un Paese e il benessere collettivo e dei singoli, oltre che la sua equità e la sua sostenibilità nel tempo.

Non esiste nessun sistema economico sano se non c’è la biosfera sana. Perché per definire il “profitto” lo si trae dagli elementi economici e dal lavoro delle persone.

Non può crescere il PIL di una nazione all’infinito ma alla fine bisognerà fare i conti con quella stagnazione perché saranno finite le materie prime o le fonti di energia.

Affiancare al PIL indicatori di benessere “a tutto tondo” non è una pura operazione tecnico-statistica, ma un passo fondamentale verso un cambiamento della cultura dominante, il quale può avere impatti rilevanti sulle preferenze collettive e quindi sulle politiche, fermo restando che, per un Paese come l’Italia caratterizzato da un alto debito pubblico, l’esigenza di produrre il reddito necessario per farvi fronte si pone in maniera più pressante rispetto ad altri Paesi meno deboli.

Ci troviamo, quindi, in un momento critico della storia umana e non solo a causa del coronavirus.
Questo dovrebbe portarci alla consapevolezza dei profondi difetti del mondo, delle profonde e disfunzionali caratteristiche dell’intero sistema socio-economico, che deve cambiare se vogliamo sopravvivere nel futuro.

La crisi del coronavirus ci induce a pensare a quale tipo di mondo vogliamo, un mondo in cui dobbiamo assumerci le nostre responsabilità con la consapevolezza che senza un cambiamento radicale non riusciremo mai a realizzare la trasformazione al tempo dell’Antropocene.

D’altronde, questo è esattamente ciò che Papa Francesco intende quando si richiama alla necessità di una “ecologia integrale” in grado di tenere insieme l’ecosistema e quello che ho chiamato “sociosistema”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ing. Raffaele Falzarano




Ormai è finita, di Giacomo Mammucari

Nessuno l’avrebbe mai detto, mai pensato o immaginato.
Non l’ho guardato.
Non ho guardato quel banco, il mio compagno.
Il banco era mio compagno intendo.
Lasciamo stare quella ragazza dai capelli camaleontici che mi era sempre vicino.
Che in realtà era vicino anche al mio compagno, il banco.
Era testardo e duro di comprendonio, ma si lasciava far tutto: scrivevo sopra il suo volto, delle volte veri e propri disegni, altre volte tatuaggi di pennarelli indelebili.
E quando lo prendevo a pugni non si arrabbiava, mi faceva da spalla per un pisolino leggero, interrotto dalle urla stridenti degli altri compagni, i banchi.
Il mio compagno, il banco, non era solo: c’era lei, signora e regina, che schiena a schiena, era serena.
La mia compagna, la sedia, era sempre quella e sempre con me la portavo: altro che amore che porti nel cuore!
La compagna, la sedia, lei era il mio vero amore!
Era spesso contesa per le sue gambe fine e i suoi pantaloni blu, perché ti rilassava ed era comoda, o poco più.
Il mio compagno il banco era spesso geloso, ma quando io andavo via sapevo con certezza che avrebbero stretto amicizia.
Per lo meno lo speravo, o mi sarei sentito in colpa per averli lasciati soli. E ora soli parlano di me e dei nostri momenti vissuti anch’essi soli.
E poi c’erano loro, che sapevano tutto, che apprendevano come spugne, i miei compagni i muri.
Loro si che parlavano con saggezza, bastava avvicinarsi ad essi che la versione di latino veniva perfetta.
Altre volte insultavano pesantemente, forse stanchi di tutta quella gente ma erano sempre protettivi quei miei cari amici.
Ai muri la lavagna, diciamo anche lei mia compagna, non andava molto a genio.
Appesa ferendoli con chiodi, la lavagna, diciamo mia compagna, amava di più i professori e forse chi la rendeva splendente, i collaboratori.
E io tutto questo non l’ho guardato.
Non ne ho sentito le voci, non l’ho toccato, non gli ho parlato o salutato.
No, sono andato via ridendo e scherzando, ma chi mai avrebbe detto sarebbe stato l’ultimo dell’ anno. Ma che dico: l’ultimo di una vita intera.
Ma il banco, la lavagna, la sedia e i muri, i miei compagni, mi hanno fatto apprezzare anche ciò che li riempiva e li rendeva grandi.
Con loro il vuoto non c’era, diciamo, con quelle poche persone che eravamo!
E con loro, i professori, genitori un po’ troppo pretenziosi.
I miei amici fidati, quelli che non ho mai sopportato, sono rimasti lì, per sempre, nei segni e nei ricordi indelebili dei miei compagni.
Che fai adesso, piangi?

Giacomo Mammucari
5^ G
Liceo Falconi di Velletri




La scuola siamo noi di Angela Ferraro

La scuola siamo noi

 

Una volta tanto mi fa piacere impiegare una frase o delle parole che seppure molto usate, non perdono significato nel loro riutilizzo, ma diventano più forti, al contrario di quanto accade a termini stra-abusati, ed oggi se ne fa abuso a iosa, che si sviliscono e perdono la loro funzione significativa.

E quindi, “La scuola siamo noi”, persone che la vivono quotidianamente, per cui tutto ciò che è burocrazia liturgica e struttura, ne rappresenta solo il contorno e mai la sostanza. Questo momento di “sospensione” in cui non si sospende tuttavia la relazione umana ed educativa con gli allievi, ce lo evidenzia nel modo più forte.

E’ vero, manca l’incontro fisico, il contatto, la struttura contenitore con le sue liturgie: dalla campanella, all’appello, alla chiacchera con il compagno di banco, pur tuttavia da questo campo di mancanze, spunta prepotente il germoglio della ricerca del contatto, del rinsaldamento della relazione con i docenti, quelli che ti cercano, che sono disponibili ben oltre il solito orario, a supportarti e offrirti un punto di arrivo di un filo di comunicazione che è più saldo di prima.

La motivazione che guida questi docenti non è il mero adempimento lavorativo o l’adesione ad una indicazione ministeriale, bensì è volontà di essere con gli studenti, di immaginare e collocare la scuola in uno spazio altro, non fisico ma relazionale, che non solo continua ad esistere ma diventa paradossalmente più vivo.

Tutti rimarcano che in questo momento la scuola si scopre classista, nel divario socio-economico derivante dalla disponibilità o meno dei device per realizzare la cosiddetta “didattica a distanza”. Eppure basta un cellulare (ovviamente mi riferisco alla scuola secondaria di secondo grado) per parlarsi, contattarsi, vedere video, scrivere elaborati, fare videochiamate e via discorrendo.

Allora ciò che fa la differenza, ancora una volta, è la parte umana, la voglia di “restare” con i propri alunni, di star loro vicino, di continuare a seguirli in quel processo che è si didattico ma soprattutto formativo ed umano. Noi docenti siamo per loro modelli e punti di riferimento umani e culturali, questa “sospensione” ci offre l’opportunità per rinsaldare legami, per coltivare confronti, idee e relazioni in un momento di angoscia e paure collettive.

E di angosce ora i ragazzi ne hanno molte, perché non tutti i giovani sono quelli degli aperitivi, delle manie di onnipotenza o del menefreghismo nei confronti dei più anziani o dei più deboli, molti dei nostri ragazzi partecipano più di prima a tutto ciò che la didattica a distanza consente, nelle varie situazioni specifiche, si mostrano empatici, maturi, dotati di sensibilità sociale e umana, in grado di rispondere alle sollecitazioni dei docenti che li contattano, in modo ben superiore alle aspettative.

Dunque la scuola non si è affatto né fermata, né chiusa, né si può identificare col freddo e impersonale assegnare compiti da svolgere, quella non è scuola, ma pseudo-adempimento burocratico.

La scuola è l’insieme di quei docenti che si adoperano, per fortuna molti, e tutti gli studenti che partecipano. La scuola sono le relazioni che nessun decreto né emergenza può fermare, perché fioriscono e crescono anche sui terreni più difficili ed impervi.

 

Angela Ferraro

Docente di liceo