I desiderata del Ministro: lavorate gratis.

Insegnante missionario o martire?

E’ più forte di me, ma proprio non posso fare finta di niente!

L’ultima boutade, in quest’assurda estate di dichiarazioni ministeriali, viene proprio dal ministro della Pubblica Istruzione, Marco Bussetti, che, per arginare l’annoso problema della dispersione scolastica, propone la figura dell’insegnante volontario.

“Per abbattere il problema dispersione vorrei portare nella scuola pubblica l’esperienza che ho vissuto io stesso: insegnanti volontari che si ritrovano in centri in alcune aree più complesse, dove ragazzi chiedono aiuto per recuperare in alcune discipline scolastiche, lacune che spesso partono da una difficoltà psicologica, di fragilità emotiva”. Queste sono state le testuali parole che il Ministro ha pronunciato ieri, domenica 26 agosto, in un’intervista al quotidiano Il Mattino, parlando dell’abbandono scolastico al Sud.

La dispersione, ha spiegato, colpisce “tante città metropolitane italiane”, il tema “per me è assai importante perché racchiude anche dispersione di risorse, energie, lavoro. Dobbiamo quindi efficientare le risorse economiche che già ci sono”.

Secondo il titolare del Miur, i ragazzi “in questi centri ritrovano prima di tutto l’autostima e poi la voglia di tornare sui banchi di scuola. Invito l’assessore comunale Palmieri a creare questi centri qui a Napoli”.

Dunque, recupero degli alunni in difficoltà, attraverso il coinvolgimento dei docenti più motivati ed appassionati.

Ma non solo. Lo stesso Bussetti, poche ore prima, intervenendo a Napoli all’incontro ‘La riforma della scuola in Italia e il sistema delle scuole paritarie’ promosso dall’Agidae, aveva detto che si deve rimettere al centro “l’amore per il lavoro, per i ragazzi, per le famiglie. Oggi nella scuola non c’è più amore e invece è l’amore che spinge ad essere insegnanti, ad essere il punto di riferimento per gli studenti e per le loro famiglie”.

Sinceramente, come ex-alunna, figlia di insegnanti e madre di studenti, mi sento provocata ed umiliata da simili parole. “Oggi nella scuola non c’è più amore?!?” Ma cosa dice?!? Ma come si permette?!?. Ma Lei, caro Ministro, ha idea di quanto amore, dedizione e motivazione ci sono nella scuola italiana dei nostri giorni?!?

Quello che più mi rattrista, è che lo stesso concetto, a dire il vero, era stato espresso, per la prima volta, a colloquio con La Tecnica della Scuola, quaranta giorni fa. Proprio Lei, caro Ministro dell’Istruzione, aveva detto: “Alla scuola non servono scossoni e strappi. Servono attenzione e cura. Gliele daremo. Serve poi amore, una parola che dobbiamo tornare a usare e mettere al centro del nostro operato”.

Dunque, è proprio convinto di quello che dice, se continua a ripeterlo!!! Non basta che per l’opinione pubblica, gli insegnanti lavorino poco e siano pagati tanto, adesso ci mancava solo Lei a dire che lo facciamo pure senza amore, il nostro lavoro!!!

Secondo Lei, una professione che i miei stessi alunni definiscono una candidatura al martirio, non implica amore?!?

Non ci vuole amore a restare in trincea in scuole ad alto rischio di dispersione scolastica, con ragazzi affidati a case famiglia, contesi da ex-coniugi in guerra giudiziaria, oppure con alunni stranieri, con disagio linguistico e mancanza di integrazione sociale?!?

E poi, ciliegina sulla torta, esiste un problema decisamente complesso: la dispersione scolastica, i ragazzi che abbandonano la scuola per un’infinità di motivi, (personali, familiari, sociali, economici, motivazionali ed istituzionali) e Lei, cosa propone come soluzione? EFFICIENTARE le risorse?!? Mi scusi, ma Lei ha scoperto l’acqua calda!

Per esperienza diretta, di insegnante di alunni borderline, la dispersione scolastica si abbina spesso all’inclusione scolastica, cioè un alunno con delle forti difficoltà di inserimento nella scuola è più facilmente destinato ad abbandonarla.

Partiamo dall’inclusione, quella che al Ministero ci obbligano a gestire con delle sigle (D.S.A.– disturbi specifici dell’apprendimento oppure B.E.S.- bisogni educativi speciali…) rimanda a dei problemi cognitivi, comportamentali, a delle problematiche personali e familiari, nonché a dei disagi economici, linguistici e sociali che l’iter burocratico delle certificazioni non risolve.

Anzi, spesso aggrava! Le famiglie, armate di un certificato medico di un neuro psichiatracompiacente, ricattano la scuola. ”Voi non potete bocciare mio figlio…” Echi lo boccia più! Ogni anno è sempre peggio, aumenta in modo esponenziale il numero dei P.D.P, piani didattici individualizzati, in cui tra strumenti compensativi e dispensativi, si fanno i salti mortali per agevolare l’inclusione e dunque per prevenire la dispersione.

E quando questo non basta, nell’ambito del recupero dei minuti residui, per gli insegnanti che hanno i moduli di 55 minuti anziché di 60, ci si inventa di tutto per motivare ed appassionare gli alunni più a rischio di dispersione. Per esempio, laboratori teatrali, concorsi musicali, torneisportivi per agganciare gli alunni più fragili, più in crisi.

Ma anche si propongono interventi di tutoraggio e di lavoro tra pari, per sviluppare quelle competenze che in sede d’esame equivalgono ad una sigla unica, che non dice niente, come se leggere un pentagramma e fare una capriola fossero la stessa cosa!!!

E vogliamo parlare dei percorsi di alfabetizzazione scolastica per alunni stranieri, immigrati di prima generazione, che non sanno né leggere, né scrivere, ma che per l’età anagrafica devono essere inseriti in prima media!

E poi, c’é il recupero in itinere, (per chi non fosse addetto ai lavori, consiste nel fermare lo svolgimento del programma), per riprendere, ciclicamente, i contenuti didattici per i più deboli, inventandosi degli esercizi di rinforzo per i più sicuri.

Ma per piacere, EFFICIENTARE le risorse!!! E tutte le ore di recupero pomeridiano gratuito in cui gli alunni in difficoltà trovano insegnanti qualificati che li aiutano a studiare, lavorando sul metodo di studio e, prima ancora sulla motivazione?!? Non sono già un modo per ottimizzare le risorse?

Ma faccia un giro nelle scuole, caro Ministro e vedrà che ci sono fior fiore d’insegnanti, che sono già martiri, prima ancora di essere missionari! Perché, se Lei si riferisce a dei docenti che svolgono la professione volontariamente e senza nessun compenso in cambio, sta invitando gli insegnanti a fare come i missionari. Dopo averLe dimostrato che gli insegnanti sono già dei missionari- martiri, Le ricordo che gli insegnanti sono pur sempre dei professionisti. E che, qualsiasi professione, si svolge sempre e comunque in cambio di un corrispettivo economico. Magari, può essere ridotto, minimale, poco più che un rimborso spese, ma ci deve essere. Gratuitamente, proprio no! Non voglio credere che sia possibile, anzi, come dice Lei, auspicabile lavorare gratis!

Semmai, il quesito da girare alle forze politiche da parte sua, caro responsabile del Miur, è un altro: perché non assumere del personale docente aggiuntivo proprio per abbattere la dispersione? Perché non agevolare la collaborazione tra scuola e territorio, con degli esperti multiculturali che lavorino sulla prima integrazione sociale in zone con alta percentuale di immigrati? Perché non prevedere dei mediatori linguistici arabi, cinesi, russi, pachistani, indiani…che entrino in classe prima che gli alunni abbandonino la scuola?!?

Perché non puntare sulla formazione preventiva di personale scolastico qualificato a fronteggiare delle emergenze scolastiche impensabili fino a pochi anni fa? E perché non controllare e gestire insegnanti a rischio di burnout, perché in balia delle classi ed abbandonati dalle istituzioni?!?

Perché non tentare, tramite anche più leggi di Bilancio, di realizzare un piano di immissioni in ruolo straordinario per tale nobile scopo?

Sarebbe una decisione importante, che si abbinerebbe in modo efficacecon l’intenzione di portare il tempo pieno anche nelle aree del Sud. Certo, non a costo zero: ma le emergenze non si possono vincere con il volontariato

E poi per dirla tutta, anche l’idea del volontariato è già venuta a qualcun altro da tempo, perché è una vita che gli insegnanti sono maestri del fai da te… Tanto per fare un esempio, nell’istituto comprensivo in cui insegno,da anni, esiste la “tradizione”, per tanti ex- insegnanti, di dedicare il loro tempo da pensionati agli alunni in difficoltà, per recuperare lacune, ma soprattutto per ritrovare motivazione. Ma che un ministro, che dovrebbe essere un addetto ai lavori, proponga una soluzione del genere, è assurdo.

Perché è un modo per sputare nel piatto in cui tutti mangiano, Lei compreso. Visto che i professori lavorano poco e male, facciamoli fare pure i volontari, tanto per quello che fanno!!!…Sinceramente, ad inizio anno scolastico, non dico che mi aspettassi gli auguri da parte Sua, ma, almeno non una presa per i fondelli

Antonella Ferrari

 




“O Capitano, mio Capitano “

Esattamente quattro anni fa, Robin Williams si è tolto la vita, lasciando il mondo del cinema, e non solo, sconvolto per la scelta di farla finita.

Innumerevoli ed indimenticabili sono le interpretazioni che hanno reso eterno il valore di quest’attore, nato da una famiglia più che benestante (il padre era un alto dirigente della Ford ). Studente mancato in Scienze Politiche, Robin aveva preferito seguire i corsi della scuola d’arte Juillard di New York, e, per mantenersi agli studi, si era improvvisato mimo.

La sua partecipazione al famoso telefilm “Happy Days”, con il personaggio di Mork, ha decretato il suo successo. Il pubblico era talmente entusiasta per il suo ruolo, che il produttore, Gerry Marshall, ha deciso di dedicare un’intera serie al personaggio. Così, con “Mork e Mindy”, iniziata nel 1978, è arrivato il Golden Globe per Robin, come migliore attore televisivo.

Negli anni Ottanta, però, l’attore ha dovuto affrontare seri problemi di droga ed un matrimonio fallito. Dopo il divorzio dalla prima moglie, si è risposato con Marsha Garces, tata del primogenito, che gli ha dato due altri figli.

Intanto, è continuata l’ascesa dell’attore, passando per “Popeye” di Robert Altman del 1980, ma soprattutto “Good Morning, Vietnam” del 1987, per il quale Robin ha ricevuto la sua prima nomination all’Oscar (1991). Per “L’attimo fuggente”(1989) e “La leggenda del Re Pescatore” (1992) egli ha ottenuto due altre nominations, ma è solo nel 1997, con ” Will Hunting – Genio ribelle”, che si è aggiudicato il premio. Dopo questo successo, l’attore ha continuato a cimentarsi in film che hanno accontentano sia la critica che il grande pubblico, come “Patch Adams” (1998), “Al di là dei sogni”(1998) e “L’uomo bicentenario” (1999), costellando una serie di successi cinematografici che suoneranno ancor più stridenti di fronte alla sua depressione esistenziale.

Come insegnante, vorrei soffermarmi sul film “L’Attimo fuggente”, perché è uno dei film più amati dagli studenti di tutto il mondo, ma anche perché il personaggio del professore interpretato da Robin, coincide con la figura mitica dell’Insegnante, proprio con la I maiuscola. Il film di Peter Weir, datato 1989, propone l’eterno dilemma scolastico tra autorità ed autorevolezza, tra accademismo ed innovazione, tra studio e passione.

Robin Williams è l’indimenticabile professore Joan Keating che sconvolge le regole di una prestigiosa accademia americana degli anni cinquanta. Professore di letteratura inglese, ed ex allievo anch’egli della stessa scuola, Keating preferisce affrontare la materia in modo creativo, con spirito libero, attento alle esigenze dei suoi studenti. Il suo metodo consiste nell’ abbandonare i dogmatismi didattici ed inventare le lezioni, con e per, i suoi alunni.

Esilarante è la scena in cui invita gli alunni a salire sui banchi per vedere il mondo da una nuova prospettiva, nonché il momento in cui strappa le pagine di un libro che pretendeva di analizzare una poesia come se fosse una formula chimica.

Keating rappresenta il vero educatore, colui che e-duce da ogni allievo quanto di più magico e meraviglioso ci possa essere. Rappresenta il professore che accoglie la sfida di “iniziare” i suoi alunni al piacere proibito di un rapporto seducente con la materia. Le sue lezioni di letteratura classica diventeranno sempre più l’introduzione in un nuovo ambito intellettuale ed emotivo.

Gli alunni riconosceranno ben presto in lui il vero Maestro, colui che trascina i discenti nell’avventura della conoscenza.

Il professore Keating è il pioniere del cambiamento trasgressivo, ma costruttivo, l’insegnante che ha il coraggio di uscire dal solco del dejà-vu accademico per trascinare gli alunni nella passione per la lettura e per l’interpretazione dei classici. Solo così, sedotti dal professore carismatico ed innovativo, i ragazzi coltiveranno le loro passioni, e, per esempio, l’alunno Neil deciderà di riportare in vita la Setta dei Poeti Estinti (Dead Poets Society è il titolo originale del film), un gruppo dedito alla poesia di cui era stato membro Keating stesso.

Come però ancor oggi succede, il sistema è restio ad accogliere il cambiamento, le nuove idee restano schiacciate dalla burocrazia.

Nel film, il preside infatti non vuole che i vecchi metodi siano messi in dubbio, e quando Charlie, un altro studente, pubblica un duro articolo di denuncia contro la scuola, verrà punito con una punizione “esemplare”. (Per fortuna, in questo, le cose sono cambiate nella scuola dei nostri giorni, niente più punizioni corporali, ma lavori socialmente utili!!!)

La situazione però crolla quando Neil, consigliato da Keating, decide di iscriversi a un corso di teatro, nonostante il parere contrario del padre, che lo vorrebbe studente di medicina. Durante la serata di debutto dello spettacolo il padre fa una scenata, annunciandogli di volerlo iscrivere a una scuola militare, cosa che causa una crisi di panico in Neil che lo porta al suicidio.

Il preside non può fare altro che avviare un’indagine sull’incidente, venendo così a conoscenza di quanto accaduto tra Keating e i suoi ragazzi. Il professore viene ritenuto responsabile e licenziato e i membri della Setta dei Poeti Estinti puniti.

Il film però si conclude con l’indimenticabile scena della reazione degli alunni che salgono in piedi sui banchi.

Uno dopo l’altro, al ritmo della frase “O Capitano, o mio capitano” formulano il loro saluto commosso all’insegnante, testimoniando che niente è andato perduto, che il suo incoraggiamento a non abbandonare i loro sogni, ha già fatto la differenza, che la Cultura è Libertà, e che niente più sarà come prima.

Infine, vorrei concludere con un paio di citazioni, principalmente tratte dalle battute di Keating, che possono servire come spunto di riflessione per alunni e per docenti in primis, ma per chiunque sia appassionato alla conoscenza.

    “C’è un tempo per osare e uno per essere cauti, e l’uomo saggio comprende a quale è chiamato”.

“Non leggiamo e scriviamo poesia perché è carina. Leggiamo e scriviamo poesia perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione”.

E, per ultimo, un consiglio per gli acquisti, a chi ancora crede nella seduzione mentale…Durante una lezione, Keating interroga un alunno. “Il linguaggio è stato inventato per un unico scopo… qual è, Mr Anderson?” “Comunicare?” “No, per corteggiare le donne”.

Antonella Ferrari

 

 

 




San Filippo Neri: proteggi tu la scuola…

Quando meno te l’aspetti …

Quando meno te l’aspetti, guardi il calendario e scopri che c’è pure un santo protettore degli insegnanti, precisamente San Filippo Neri, un nobile originario di Firenze vissuto tra il 1515 ed il 1595 che, dopo essersi trasferito a Roma, era diventato sacerdote, ma soprattutto insegnante.

L’iconografia classica ci rimanda il profilo di un uomo benevolo, sempre disposto a schierarsi dalla parte dei deboli, caritatevole verso i poveri e solidale con gli indifesi, ma, soprattutto, consigliere e MAESTRO dei più giovani.

Un tipo talmente in gamba, che, già allora, aveva tanto a cuore i problemi dei ragazzi da impiegare gran parte della sua giornata all’ascolto delle loro preoccupazioni, sempre pronto a dispensare motti pieni di sapienza e pioniere nella gestione dei conflitti. Famosa la sua frase “State buoni, se potete” con la quale invitava i suoi alunni alla bontà ed alla gioia. Un tipo concretamente impegnato nell’educazione, promotore d’incontri con i giovani e creatore dell’Oratorio.

Per questo attaccamento agli adolescenti, per il senso di sacrificio che lo portava a non stancarsi mai, e per la coerenza di vita, San Filippo Neri è stato eletto protettore dei bambini, dei giovani, ma soprattutto degli insegnanti.

Bene, il 26 maggio, la chiesa cattolica l’ha ricordato ed il presidente nazionale dell’ Anief, ( Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori, una neonata associazione ONLUS con sede a Palermo ) precisamente il professore Marcello Pacifico, in un comunicato si è rivolto ai colleghi cattolici dediti alla formazione degli alunni e degli studenti ed ha dedicato loro alcune riflessioni: “In questo giorno, in cui ogni insegnante festeggia il proprio protettore, il pensiero va a tutte le persone che prestano servizio presso le nostre scuole. Il lavoro del Maestro e quello del Professore denotano un grande senso di responsabilità, di attaccamento ai valori della famiglia”.

E già, qui, entro in crisi, perché, non so voi, ma la famiglia della nostra epoca non condivide più i valori di sacrificio, di merito e di onestà che dovrebbero essere alla base di ogni educazione scolastica.

“La Scuola – continua Pacifico – è una grande famiglia e i docenti spesso sacrificano tempo prezioso per le attività, per portare avanti la missione dell’insegnante. Un sacrificio che vale, ovviamente, anche per i docenti non cristiani.

Perché certamente, chi decide di dedicare la propria carriera all’ammaestramento dei giovani sente questo compito dal più profondo e lo porta avanti con dedizione e serietà. Ognuno di noi, nella propria formazione scolastica, ha dei ricordi che si ricollegano a specifici momenti di formazione e crescita legati a un insegnante. Il loro ruolo è basilare e molti insegnamenti, anche di vita, non lasciano mai la memoria degli studenti”.

Ringrazio profondamente questo professore per le sue parole d’incoraggiamento ed anche dopo trent’anni d’insegnamento mi rivedo sui banchi di scuola intenta a” bere” la cultura, la libertà, l’impegno sociale dei miei insegnanti…

Ma, sinceramente, faccio più fatica a riconoscere la missione attuale degli insegnanti…

O meglio, per dirla come i miei alunni è più una candidatura al martirio.

Lo so, per l’opinione pubblica siamo una manica d’incompetenti, in balia dei genitori e ricattati dagli studenti…

Però vorrei ricordare che, dal punto di vista costituzionale, la nostra scuola, o meglio la BUONA SCUOLA del nostro ultimo governo, propone un nuovo contratto che non tutela docenti e Ata.

La nostra scuola è proprio quella in cui, con una manovra anticostituzionale vengono cancellati i diritti pregressi degli insegnanti, per esempio il titolo abilitante delle maestre elementari che sono arrivate a fare lo sciopero della fame per salvare il loro posto di lavoro.

La nostra scuola è quella dell’incremento costante del burnout, cioè quella in cui i nostri insegnanti soffrono di patologie una forte esposizione allo stress.

La nostra scuola è quella in cui lo stesso sistema che ha partorito gli INVALSI, lo ha poi definito un aborto, inadeguato per verificare le competenze tanto osannate nell’ultima versione degli esami di terza media.

La nostra scuola è quella in cui gli aumenti in arrivo nel mese di giugno saranno irrisori.

Per non parlare poi delle “mance”, qualche centinaio di euro, che, da oggi saranno in busta paga, come arretrati di un rinnovo di contratto congelato da anni…

Mi piace però la posizione di questo sindacalista autonomo che insiste: “Noi ci battiamo – continua Marcello Pacifico – dalla fondazione di Anief affinché gli insegnanti possano vedere riconosciuti i sacrifici e i meriti […] Noi sogniamo una scuola che ridia rispetto e dignità al lavoro dell’insegnante, che parta dal riconoscimento del fatto che un docente è stato, prima di tutto, uno studente che ha voluto emulare i propri maestri, seguendone le orme e divenendone omologo”. Ecco, appunto, vorrei insistere sull’impellente necessità di realizzare un sistema scolastico dove venga riconosciuta l’importanza del formatore, come educatore dei discenti, dove le famiglie riconoscano che i loro figli, sono i nostri alunni, ma anche i cittadini di domani…Vorrei davvero che finalmente passasse il messaggio che, a casa, come a scuola, l’obiettivo è comune, cioè la costruzione di una società civile e civilizzata… Per questo, l’augurio di Pacifico che” nel futuro prossimo le nostre aule siano piene di studenti felici, prepararti, guidati da docenti soddisfatti del proprio ruolo” mi riempie di gioia, ma mi fa tremare d’illusione…” Noi lottiamo da sempre perché ciò possa divenire realtà e la nostra raggiunta rappresentatività non fa che spingerci più avanti rispetto alla sua realizzazione”, così conclude il presidente, e così ci affidiamo fiduciosi al nostro santo protettore, perché, grazie alla sua intercessione, avvenga il miracolo, perché di questo si tratta…

 

Antonella Ferrari

 

 




Sproloquio ergo sum

CARTESIO 2018.

Non me ne vogliano i prof di filosofia, e, pace all’anima sua, povero Cartesio, se c’è chi lo disturba per un dubbio metodico, ma anche iperbolico… 

COGITO ERGO SUM, ovvero penso dunque sono, o, anche, penso dunque esisto.

Chi di noi non ha mai citato questa frase?

L’ha detta Cartesio, al secolo René Descartes, vissuto tra il 1596 e il 1650.

Ma, spesso è impiegata con leggerezza, semplicemente per definire l’uomo come soggetto pensante.

In realtà, ha un significato più profondo di quello che può sembrare.

Nel suo Discorso sul metodo, pubblicato nel 1637, all’età di 41 anni, Cartesio si proponeva infatti il compito di trovare una verità fondamentale e solida.

La scienza, il sapere umano avevano bisogno di fondamenta in grado di reggere a qualsiasi urto, anche a quelli della sua epoca, in cui il tribunale dell’Inquisizione, solo quattro anni prima, aveva processato Galileo, portandolo ad abiurare le nuove conoscenze astronomiche.

Per Cartesio, la conoscenza, al pari di una casa, doveva essere in grado di resistere ai colpi avversi. Nel caso del ragionamento, i colpi avversi erano quelli portati dal dubbio.

Per questo motivo Cartesio si propose un unico scopo: provare a mettere in dubbio tutto. Se una qualche verità avesse davvero resistito ai colpi del dubbio, allora sarebbe stata abbastanza solida da costruirci sopra una scienza.

Se invece avesse ceduto, sarebbe stata da scartare.

Dunque, il dubbio metodico era per il filosofo francese il principale metodo d’indagine della realtà, ed il famoso uomo di Cartesio, più che soggetto pensante era un soggetto dubitante.

Insomma, l’uomo, per essere ingannato dai sensi o dagli dei, doveva per forza esistere.

 Scusandomi preventivamente per aver cosi banalmente ridotto il pensiero cartesiano, mi permetto solo di applicarlo a Facebook. Giusto il tempo di un articolo, per qualche considerazione “virtualmente reale”.

Vorrei riproporre ai nostri giorni le quattro regole di conoscenza di Cartesio, quelle valide per tutte le discipline, perché, per lui, morale, geometria, politica, matematica, fisica ed arte erano solo rami diversi di un unico sapere.

E forse esisteva uno stesso metodo, uno stesso insieme di regole, per indagare ciascuno di questi ambiti.

 Prima di tutto, la Regola dell’evidenza, cioè” non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale, ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio”.

 Che meraviglia! Applicare ogni giorno, che dico, ogni istante, un salutare dubbio nei confronti delle manipolazioni della realtà proposte nei post di Facebook, nonché applicare una salutare perplessità verso i profili Instagram…

Come sarebbe più facile evitare di ingozzarsi di vacuità virtuali, cioè “non comprendere nel mio giudizio, niente di più di quello che si fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio”.

Avremmo finito di confondere il reale con il virtuale, ma avremmo anche finito di vivere nel nulla, perché, sui social, l’apparenza è l’esistenza.

Seconda regola, quella dell’analisi, cioè “dividere ognuna delle difficoltà sotto esame nel maggior numero di parti possibile, e per quanto fosse necessario per un’adeguata soluzione”.

Anche qui, è proprio l’esatto contrario di quanto avviene ogni giorno nel mondo dei social. Di fronte a qualunque problema, anziché scomporlo, tutti sanno tutto. 

I navigatori virtuali s’improvvisano esperti di salute, psicologia e diritto, sparano sentenze e propongono soluzioni, ma, soprattutto si affrettano, in tempo reale, a totalizzare la realtà in un magma di like.

Altro che frazionare la realtà per conoscerla, su Facebook ed Instagram esiste solo un caleidoscopio di dati e d’immagini volti a frullare la realtà.

In una galleria di specchi virtuali, la realtà è sì ridotta in polvere, ma non per essere conosciuta, quanto per essere omogeneizzata.

Terza regola, quella della sintesi, cioè” di condurre i miei pensieri in un ordine tale che, cominciando con oggetti semplici e facili da conoscere, potessi salire poco alla volta, e come per gradini, alla conoscenza di oggetti più complessi; assegnando nel pensiero un certo ordine anche a quegli oggetti che nella loro natura non stanno in una relazione di antecedenza e conseguenza”.

Ma quando mai?!? Sui social esiste una vera compulsione alla banalizzazione, in un vortice mediatico si pretende di comprendere tutto, in tempi immediati, livellando i consigli estetici ai valori etici, parlando della cellulite come dell’eutanasia. In un’ossessione oculo-manuale, non esiste un ordine logico della conoscenza, anzi della pseudo- conoscenza.

Non esiste neanche una consequenzialità dei dati, perché il nostro Ulisse del terzo millennio, rischia di pensare che il riciclo dei rifiuti possa essere antecedente al ritrovamento dei cadaveri, che smacchiare i tessuti possa venire prima di allestire un campo profughi…

E per ultimo, è sempre il caro buon Cartesio che parla,” di fare in ogni caso delle enumerazioni così complete, e delle sintesi così generali, da poter essere sicuro di non aver tralasciato nulla”.

E qui, scopriamo l’acqua calda o l’uovo di Colombo!!! Per noi, l’America è il gossip, il Nuovo Mondo è il buco della serratura del profilo del vicino.

Siamo così capaci di inventariare i fatti altrui, che confondiamo la conoscenza con il voyeurismo, la consapevolezza con l’esibizionismo, la sintesi di un percorso con la generalizzazione di un caso.

Ma, soprattutto, non ci sorge mai il dubbio di conoscere noi stessi, ma questa è un’altra storia…

 

Antonella Ferrari

 

 




Il mondo delle chat come espressione di vero dramma della solitudine

Chatto dunque sono…

Ho deciso di sperimentare, possibilmente senza giudicare, il mondo occulto e distorto dell’amore virtuale.

Ecco, ho già espresso un giudizio…

Il mio problema è che voglio capire bene il dramma vissuto da tanti che frequentano le chat, cioè che chiacchierano su Internet con persone che non conoscono personalmente e di cui non hanno neppure mai sentito il tono della voce.

Come mai quest’attività spesso crea una forte dipendenza?

Perché sull’altare di un amore virtuale, molti di noi, arrivano a compromettere quello reale? Forse perché il rapporto interpersonale che si instaura in una chat è potenzialmente perfetto, intoccato ed intoccabile, a causa del fatto che non risente delle limitazioni dovute alla conoscenza diretta (aspetto fisico, mimica, tono di voce, ecc.).

Il rapporto on-line permette una grande liberazione della fantasia, una diretta gratificazione dei propri desideri.

Chattando, si provano emozioni molto forti, perché si gioca a sperimentare (anzi, in un certo senso si vive veramente) un rapporto che è quello che avremmo sempre voluto avere, quello che ciascuno di noi ha dentro di sé, come modello ideale di rapporto.

Parlando nascosti dietro un nickname, stereotipati in un cocktail di misure fisiche ottimizzate e di interessi mentali sublimati, incasellati in un profilo di sé perfetto, ci si sente capiti, si possono condividere tante cose, si ritorna a quello stato di grazia di una “cotta” adolescenziale.

“L’amore al tempo del colera” dei nostri quattordici anni, era basato molto sulla fantasia, e non a caso, bastava una foto, una stimolazione minima, per far scattare dentro di noi quella complessa reazione psico-affettiva, che chiamavamo amore.

In effetti, prima scoperta, alcuni amano soprattutto chattare, mentre hanno resistenza ad incontrarsi, o anche solo a telefonarsi. Apparentemente questo è paradossale: se ci si piace tanto on-line, perché allora non incontrarsi, di persona? Ma questa resistenza non è contraddittoria, anzi, è razionalmente logica e psicologicamente umana.

Ed ha un nome: PAURA.

E’ la paura di conoscersi meglio, è la paura di barattare il sogno perfetto, con la realtà imperfetta, il virtuale con il reale.

Perché, più ci si conosce, più gli aspetti di realtà, necessariamente, tolgono spazio alla fantasia e limitano la possibilità di provare quei forti sentimenti che erano sbocciati dentro di noi. Infatti, quel complesso di stati affettivi, che in genere chiamiamo amore, si basa sempre su un grado di idealizzazione, di deformazione della persona amata, affinché essa rientri meglio nel modello che ci portiamo dentro. Questo è un meccanismo normale, utile al nostro adattamento e funzionamento sociale.

Dunque, ogni volta che ci innamoriamo, avviene una sorta di abbinamento tra un’immagine interna ed una esterna.

L’esterna deve, però, essere capace di evocare quella interna, perché, solo attraverso quest’evocazione, che produce il piacevole stato psico-affettivo e motivazionale, viviamo l’esperienza dell’innamoramento.

Ecco perché, così tanti, sono bisognosi di essere costantemente innamorati: per prolungare all’infinito questo stato di grazia.

Così, ho scoperto che ci sono persone che stanno benissimo solo in chat, individui che mi hanno raccontato che, mentre davanti ad uno schermo provavano un grande piacere ad aprirsi, una volta al telefono, con quella stessa persona con cui avevano chattato per giorni interi, non sapevano più cosa dire, si bloccavano, provavano imbarazzo, gelo, inibizione dei sentimenti.

Il motivo, con tutta probabilità, è che il tono della voce aumenta molto la conoscenza e quindi l’intimità, ed allora, subito, cresce la paura che quello che proviamo sia inappropriato. Il telefono è la prima “prova del nove”, il primo tentativo di tornare con i piedi per terra.

Ma è soprattutto quando ci si incontra “dal vivo”, che si è alla resa dei conti.

A quel punto, anche solo davanti un caffè, in un bar, si è maggiormente in contatto con una persona reale, e non più con quell’immagine precedentemente prodotta dalla nostra fantasia.

E, qui, viene il bello…

Amara scoperta, adesso, davanti a quella tazzina di caffè, quell’immagine non può più essere evocata con la stessa facilità.

Tutta la nostra psiche è in uno stato di allerta, adesso il nostro inconscio entra in collisione con il nostro conscio, ora bisogna “lavorarci sopra”, cioè fare un certo lavoro per adattare la nostra immagine interna alla nuova.

Prima conseguenza, la FUGA, il rinunciare alla fatica del confronto, perché, conoscersi per davvero, è faticoso.

Infatti, privata della dimensione ludica del virtuale, l’impegno di una conoscenza reale comporta dei rischi, non ultimo, quello di non riuscire più a provare le cose che provavamo prima.

Ma, questo, è il normale percorso dello sviluppo dei sentimenti: in certi casi, quando all’inizio non eravamo tanto innamorati, una conoscenza approfondita fa aumentare l’amore, mentre, se siamo già molto innamorati di una persona che conosciamo poco, può accadere che, con la conoscenza, il sentimento diminuisca o comunque si modifichi molto.

Dunque, è tutto così rischioso e deprimente in una chat? Tutti i rapporti basati prevalentemente sulla fantasia sono destinati a fallire una volta che ci si vede? Assolutamente no!!!

Possono essere delle opportunità, molto belle, per conoscere e esprimere delle emozioni che abbiamo dentro, pronte a sbocciare.

Forse, il chattare con un estraneo, è una specie di terapia domestica, di psicanalisi “fai da te”…  In una chat, si verifica un po’quello che gli addetti ai lavori chiamano transfert, cioè quell’insieme complesso e delicato di sentimenti che possono emergere nei confronti del terapeuta. Un paziente, in cura da uno psicologo, assume la consapevolezza di sé, scopre e conosce sentimenti, soprattutto come sono stati i suoi precedenti rapporti significativi (col padre, con la madre ecc.,.) di cui appunto il rapporto trans-ferale è una sorta di riedizione .

Non a caso, lo psicoanalista classico cerca di non farsi conoscere dal proprio paziente, di comportarsi in modo abbastanza anonimo, appunto per non distruggere questa potenzialità (ben sapendo che eliminare del tutto la propria influenza è impossibile).

Ed in genere, il paziente ha paura di conoscere meglio il proprio terapeuta, ad esempio, si trova a disagio se lo incontra per strada, appunto perché, inconsciamente, sa che quel suo rapporto trans-ferale è prezioso e vuole preservarlo. Il paziente difende quel rapporto perché sa che, quella relazione asettica, gli fornisce conoscenza ed esperienze importanti utili alla terapia di cui ha bisogno.

Certo, il paziente vorrebbe anche conoscere il proprio terapeuta (così come chi chatta vorrebbe conoscere la persona con cui chatta), ma questo desiderio è in conflitto con la paura di perdere quell’altra cosa, basata sulla fantasia, a cui tiene molto.

Io, in passato mi sono interessata alla psicoterapia reale, ora sono attirata da quella on line (cioè tramite Internet), e ho notato un curioso paradosso: molti psicoanalisti sono scettici verso questa nuova potenzialità di Internet, eppure non si rendono conto che la psicoterapia on line estremizza (direi quasi in modo caricaturale) proprio alcuni aspetti centrali dell’approccio psicoanalitico reale.

Infine, per chi è guarito da questa prima fase, si rimanda alla prossima puntata, ma ad onor del vero, non l’ho ancora verificata…

 

Antonella Ferrari




Le Chat: estensioni della fuga dal matrimonio…

Il tradimento virtuale, o l’amante del ventunesimo secolo…

Di recente, ho riso di gusto, quando ho visto un post su Facebook: sotto la foto del volto di un uomo pestato a sangue, si leggeva “Ecco cosa ti succederà quando tua moglie scoprirà la password del tuo cellulare”.

In effetti, penso che tra molti individui, forse più uomini che donne, ci sia l’abitudine al tradimento online, ritenendolo meno grave di quello reale, magari consumato, a pagamento, con una prostituta. Lungi da me stilare una classifica della gravità del tradimento, voglio solo suggerire un’interpretazione del tradimento virtuale. Forse, il tradire online sminuisce il tradimento in sé, lo semplifica, paradossalmente lo giustifica, come meccanismo di sopravvivenza della coppia.

Per gli appassionati delle chat d’incontri esiste, almeno all’inizio, anche la possibilità che questi amori intensi e basati sulla fantasia abbiano una funzione “difensiva”, di protezione del matrimonio già esistente.

Tutto questo rimanda all’istituzione del ruolo dell’AMANTE.

L’amante, è sempre esistito, in ogni epoca ed in ogni ambito sociale, sempre che l’unione istituzionale fosse improntata alla monogamia. L’amante era l’amore scelto dall’individuo, in opposizione a quello imposto dalla società.

Ma perché, anche oggi, che ci si sposa per amore, esiste ancora l’amante? Perché il tradimento è ancora tanto presente ed importante nella nostra società? Perché anche in un’epoca in cui non esiste più il matrimonio politico o l’unione familiare combinata, sono moltissime le persone che sentono il bisogno di tradire il proprio partner? Partner con cui liberamente hanno scelto di dividere la propria vita e di cui peraltro non riuscirebbero a fare a meno…

Bene, nella nostra epoca, il bisogno compulsivo di chattare con un estraneo, rimanda alla possibilità, sempre esistita, in tutte le epoche, di tradire il proprio partner.

Ecco perché, il CHATTARE può essere considerata una forma di tradimento, anche solo a livello di fantasia.

Gli amanti, istituzione che esiste dal tempo dei tempi, non possono essere eliminati facilmente.

Il loro amore si alimenta di segreto e di divieto. Il loro amore si rinforza sempre più, quanto più sono “amanti”, cioè clandestini.

Il loro amore tanto più esiste, quanto più resiste una coppia ufficiale dalla quale sono esclusi.

O viceversa, il loro amore resiste quanto più esiste il matrimonio o la convivenza di base.

Se la questione degli amanti consistesse solo nell’amare un’altra persona più del(la) partner, allora basterebbe separarsi e mettersi con l’amante, e questi problemi sarebbero subito risolti in tutto il mondo.

Ma perché, non a caso, ciò viene evitato quasi sempre? Naturalmente, a livello conscio, il valore della clandestinità e del divieto non viene ammesso, questa loro importanza non viene riconosciuta. Anzi, molti amanti soffrono e si lamentano della loro condizione…

Eppure, vi sono innumerevoli esempi che dimostrano che, la condizione dell’amante, è ricercata, appunto proprio perché è clandestina, irregolare, che, è da questa condizione di non ufficialità, che trae la sua linfa vitale.

Se la coppia ufficiale si separa, non raramente anche gli amanti subito si separano, perché cessa improvvisamente l’amore.

Persino l’attrazione sessuale, che prima era così forte, a volte, sparisce del tutto. Oppure, se la coppia degli amanti diventa quella ufficiale, presto uno dei due sente uno strano desiderio, quello di innamorarsi di un’altra persona. Uno dei due si guarda attorno, prova varie simpatie, sente il bisogno di ricreare una situazione triangolare.

Dunque, un’interpretazione del tradimento online, potrebbe rimandare all’ipotesi che, in alcuni individui, ci sia una paura inconscia verso la condizione monogamica, ufficiale, “normale”, una paura che inevitabilmente porta alla frigidità e alla depressione.

Pensiamo a quelle tante coppie di coniugi che, totalmente ignari delle proprie dinamiche inconsce, razionalizzano la loro difficoltà a stare bene insieme dicendo che alla sera “si annoiano a guardare sempre la televisione”, oppure a quelli che dicono che “è la convivenza che toglie vitalità al matrimonio”. In realtà, è evidente che per tante coppie la convivenza non inibisce i sentimenti e il piacere di stare insieme, anzi!!!…

Il bisogno profondo di vivere qualcosa di bello con la propria fantasia, di “evadere”, di provare sentimenti intensi – bisogno perfettamente legittimo – potrebbe insomma essere concepito non “in positivo”, ma “in negativo”, cioè come il tentativo disperato di provare determinati sentimenti, dato che il soggetto non riesce a provarli nel modo “normale”, perché ne ha paura.

L’unica possibilità per lui è appunto di viverli in una situazione non vera, parziale, non ufficiale, in cui si sente meno responsabile di quello che fa, forse meno “in colpa”.

Dunque, di fronte ad un tradimento virtuale, proviamo a pensare che chi gode tanto di questi bei rapporti di fantasia non è più virile o interiormente più ricco, non ha una vita affettiva più intensa, ma è semplicemente un impotente, una persona che ha paura della intimità affettiva e sessuale, forse anche della amicizia vera.

Non lo dico io, l’ha detto Freud!!! Egli infatti definiva “impotenza psichica” quella di cui sono affette le persone incapaci di provare simultaneamente amore e attrazione sessuale verso la stessa persona: molti uomini, ma anche donne, fanno fatica a gestire questi due sentimenti simultaneamente, ad attivare questi due “sistemi motivazionali” (attaccamento e sessualità) nei confronti della stessa persona.

Preferiscono scindere, cioè amare sentimentalmente una persona idealizzandola, ma senza sessualità, e provare desiderio verso un’altra persona, non amata, vista solo come oggetto sessuale o di divertimento, ad esempio una conoscente occasionale o una prostituta.

Dunque, di fronte ad un tradimento virtuale, scelto o subito, prima di dare in escandescenze per essere stati scoperti o, ancor più, per averlo scoperto, proviamo a porci due domande…Ma, davvero è tutta colpa di internet? O, magari, di Freud!?!…

 

Antonella Ferrari




I dieci comandamenti del Bullismo

Provo a metterla sul ridere, anche se, di questi tempi, ci sarebbe da piangere…Per quello che ne so io, per esperienza diretta, non perché io sia una vittima o un aggressore, ma più “semplicemente” perché sono un insegnante, quotidianamente in campo, non c’è bullo o bulla che si rispetti che non abbia il suo codice comportamentale, ovvero una tavola dei dieci comandamenti.

Primo, “NON AVRAI ALTRO DIO ALL’INFUORI DI ME” ed il bullo in un delirio di autoaffermazione non vede che sé stesso, si sente il centro dell’universo, soddisfa sempre e solo la sua ossessione d’imporsi e pretende che gli altri lo riconoscano un dio in base ad un’escalation di angherie o di violenze perpetrate su una vittima.

Secondo,” NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO”. Sono solo i complici del bullo che lo possono nominare, anzi l’apostrofano con lo pseudonimo che lui ha scelto, sui social’ quando si scatena nel cyberbullismo, si nasconde dietro un nikename per non essere riconosciuto. E se qualcuno lo nomina con il suo vero nome, è perché è una spia che vuole incastrarlo.

Terzo,” RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE”. E qui, ogni intervallo, ogni cambio d’ insegnante o di aula è una festa, perché sono le situazioni non codificate, nei bagni o nella palestra quelle in cui si scatena la festa, ovvero la cerimonia della violenza fisica o verbale.

Quarto,” ONORA IL PADRE E LA MADRE”. La violenza nasce dentro casa, spesso tra le pareti domestiche il bullo impara la prevaricazione, vive la catena dell’aggressività e la mancanza di rispetto. Fuori casa, a scuola, che è una palestra di vita, il bullo onora nel vero senso della parola, il codice comportamentale genitoriale. Del resto, basta pensare alle aggressioni perpetrate dagli stessi genitori di alunni problematici nei confronti dei loro insegnanti, per non avere dubbi.

Quinto,” NON UCCIDERE” almeno fosse preso alla lettera, cioè non torturare fino allo sfinimento la vittima, che, nei casi estremi arriva lei stessa ad uccidersi!!! Il bullo non uccide la propria identità distorta, non rinnega sé stesso, perché vorrebbe dire morire, e lui vuole vivere. Eccome! Vuole vivere, seppur nella violenza. Perché per lui la violenza è vita.

Sesto, “NON COMMETTERE ATTI IMPURI”. La violenza di un bullo è spesso a sfondo sessuale, la sua compulsione ad aggredire l’altro sfiora il sadismo, la vittima è per lui un corpo su cui esercitare uno sfogo a dir poco ormonale. Ma in tutto questo il bullo non vede un atto impuro, ancor meno una perversione psichiatrica, solo un gioco di violenza da amplificare poi con i filmati sparati in rete.

Settimo, ”NON RUBARE”, infatti il bullo non ruba la merenda del compagno, la pretende. Non ruba il materiale scolastico del vicino, se ne appropria. Fino a che, quando sparirà il cappellino firmato o il cellulare appoggiato, è perché il bullo ne ha sempre uno uguale…

Ottavo,” NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA”. Il bullo è un tale manipolatore della realtà che nega l’evidenza dei fatti. Il bullo vive in un mondo parallelo dove la menzogna è la verità, dove la bugia è una tale consuetudine, che la falsa testimonianza è dire il vero.

Nono,” NON DESIDERARE LA DONNA D’ALTRI “. Infatti, il bullo, la donna di un altro, mica la desidera, se la prende, tanto è un oggetto da consumare, non un soggetto d’amare.

E per ultimo, “NON DESIDERARE LA ROBA D’ALTRI”. Ma per questo si rimanda al primo comandamento, gli altri non esistono, men che meno la loro roba!!!

 

Antonella Ferrari




L’Ipocrisia del tutto

Come al solito non sono d’accordo, stavolta con la posizione di Massimo Gramellini che enfatizza il licenziamento della maestra colpevole di scrivere SQUOLA, ma che salva la ministra che non perde occasione per dare prova della sua ignoranza in materia scolastica.

Facciamo un passo indietro, è di questi giorni la notizia che la magistratura ha apposto il timbro definitivo sul licenziamento della maestra veneziana che scriveva scuola con la q.

Certo, per chiunque, è inverosimile che una maestra abbia immeritatamente esercitato la sua professione forgiando generazioni di alunni nell’errore grammaticale.

Anch’io, da addetta ai lavori, resto stupita ed attonita.

Per ottenere quel posto, la maestra in questione avrà dovuto superare indenne un lunghissimo percorso ad ostacoli disseminato di SCUOLE.

Intanto, l’esame di quinta elementare, Poi quello di terza media, nella scuola secondaria di primo grado, infine, la maturità, al termine della scuola secondaria di secondo grado.

Forse una laurea e sicuramente un concorso…

Possibile che nessun esaminatore si sia mai accorto della sua ignoranza?!?

Non oso pensare che fossero tutti corrotti od ignoranti…

Mi basta pensare che fossero “distratti”, come quei tecnici ministeriali che in un tema dell’anno scorso hanno scritto «traccie» con la i?

Oppure, come quei cervelloni che ogni anno redigono dei quesiti delle prove invalsi con palesi errori di grammatica o di calcolo…

La maestra sgrammaticata non è un caso eccezionale, è in tanta buona compagnia, appartiene ad un sistema di selezione del personale scolastico con diversi limiti oggettivi, per esempio il numero eccessivo dei candidati, il basso stipendio dei commissari, i tempi biblici dei concorsi e gli eterni ricorsi…

Ma proprio non posso accettare che lo stesso sistema che elimina la mela marcia, avvalli la presenza quotidiana al ministero ed in televisione, nonché nelle università e nei convegni, di una MINISTRA ignorante che sbaglia l’impiego dei congiuntivi, dice “i più migliori”, propone dei tagli indiscriminati dei contenuti ministeriali di storia e chi più ne ha, più ne metta…

Come fa la signora Fedeli ad occupare un posto di prestigio nella gerarchia scolastica senza avere né merito né servizio!?!

O forse, per essere ministro della pubblica istruzione è un optional essere in possesso della laurea ed avere insegnato, almeno un giorno, giusto il tempo di scrivere scuola con la q???

 

Antonella Ferrari

 

 

 

 

 

 

 

http://betapress.it/index.php/2017/10/30/la-ministra-frettolosa-basta-scaricare-tutto-sulla-scuola-e-la-famiglia/

http://betapress.it/index.php/2016/11/18/io-professoressa-perdente-posto/




Fascismo: fu vera gloria? ai posteri onesti l’ardua sentenza…

Mi scusi Egregio Signor Presidente, ma da Lei proprio non me lo aspettavo…

Esistono i fatti e le opinioni, ma non le invenzioni dei primi o la strumentalizzazione delle seconde, tanto più che siamo in piena campagna elettorale e Lei, Egregio Signor Presidente dovrebbe mantenersi super partes, in nome dell’imparzialità (ahahahah da morir dal ridere N.d.R.) del suo incarico presidenziale…

Durante le celebrazioni al Quirinale per la Giornata della memoria 2018, Ella sul ventennio Fascista ha affermato: “Sorprende sentir dire, ancora oggi, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione”.

Caro Mattarella, Lei sostiene dunque che è un errore affermare che il Fascismo ebbe alcuni meriti, ma io non sono d’accordo, o meglio preferisco sbagliare che vaneggiare…

E voglio sbagliare, in nome della storia, andando a consultare i testi non solo scolastici, ma soprattutto riprendendo i fatti realmente accaduti, così come ha fatto l’illustre Alessandro prof. dott. Tamborini, da cui recupero informazioni significative, ricostruendo in modo impeccabile i fatti veri che oggi sono sparsi nei libri di storia ma mai messi in ordine perché non è interesse di una certa parte raccontare la verità.

Mi permetta anzitutto di proporLe, giusto per rispolverare la memoria Sua e dei nostri lettori, un parziale elenco delle opere fatte in un periodo in cui l’italia era considerata più di oggi.

Accerterà così che è stato fatto più in vent’anni di Fascismo che in settantanni di democrazia.

I meriti del fascismo non sono un’invenzione di qualche nostalgico, ma un dato ormai acquisito nella storiografia e nella coscienza comune, dopo lunghi decenni di rimozioni e demonizzazioni.

Prima di tutto, c’è una bella differenza tra regimi totalitari, come comunismo e nazismo, ed il regime autoritario, con il consenso del popolo, quale fu il Fascismo.

Inoltre, i milioni di esseri umani uccisi nel secolo scorso per mano del comunismo rappresentano lo stesso crimine contro l’umanità a pari merito dell’olocausto.

Sarebbe stato giusto, signor presidente, ricordare anche questo nella giornata della memoria, proprio per essere corretti ed imparziali così come il suo ruolo Le impone.

Basti pensare allo sterminio degli Armeni (1894 e 1915-16) ed a quello dei cinque milioni di contadini ucraini (1932-33) oppure ai quasi due milioni di morti in Cambogia (1975-79) per mano dei Khmer Rossi…

Ritornando al Ventennio, desidero ricordare che le Leggi razziali non erano nel Dna della dottrina fascista, come attesta il gran numero di ebrei che aderirono al fascismo fin dall’inizio.

L’ebraismo italiano era “profondamente integrato nella società plasmata dal regime fascista!” Gli ebrei fascisti non erano un corpo estraneo allo stato e i suoi più alti esponenti proclamavano “l’assoluta fedeltà degli israeliti al fascismo e al suo duce”.

Renzo De Felice, sul suo “Storia degli ebrei italiani”, scrive che gli ebrei furono fondatori, per esempio, dei fasci di combattimento di Milano, ebbero parte attiva nelle squadre di Italo Balbo e furono fra i protagonisti della “marcia su Roma”.

E’ noto che i provvedimenti a favore degli ebrei nel 1930, perfezionati nel 1931, risultarono tanto graditi alla comunità ebraica italiana che i rabbini innalzarono preghiere di ringraziamento nelle sinagoghe. E’ anche noto l’attacco lanciato dal Duce, contro le teorie nazionalsocialiste.

Riguardo alla natura del suo potere, il suo carattere dittatoriale è indubitabile ed è chiaro a partire dalla soppressione delle libertà nel 1925.

Il fascismo però non fu, nella fase del largo consenso (cioè almeno fino alla guerra di Etiopia e all’emanazione delle leggi razziali) un totalitarismo, come giustamente individuato da Hannah Arendt.

Ciò sia per motivi interni, avendo il fascismo nel suo seno anime diverse e differenti che trovavano nel Duce solo un’unità simbolica; sia per motivi esterni, cioè la forza temperante comunque esercitata dalla Chiesa Cattolica e dalla stessa Monarchia.

Quindi, lungi dal voler disconoscere la gravità di ciò che portò alle leggi razziali ed all’evento bellico, insisto nel riconoscere il valore di tutto ciò che di buono è stato all’epoca realizzato.

 Giusto per non dimenticare, le principali opere sociali e sanitarie realizzate durante il fascismo sono l’assicurazione sull’invalidità e vecchiaia, R.D. 30 dicembre 1923, n. 3184, quella contro la disoccupazione, R.D. 30 dicembre 1926 e l’assistenza ospedaliera ai poveri R.D. 30 dicembre 1923 n. 2841.

Con Mussolini nasce la tutela del lavoratore e la difesa dei diritti di donne e fanciulli R.D 26 aprile 1923 n. 653, l’Opera nazionale maternità ed infanzia (O.N.M.I.) R.D. 10 dicembre 1925 n. 2277, l’esenzione tributaria per le famiglie numerose R.D. 14 maggio 1928 n. 1312 e l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali, R.D. 13 maggio 1928 n. 928.

Nasce l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), R.D. 4 ottobre 1935 n. 182713 mentre l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), è già in vita da più di due anni…R.D. 23 marzo 1933, n. 264.

La settimana lavorativa diventa di 40 ore, R.D. 29 maggio 1937 n.1768, e nasce il sindacalismo integrale con l’unione delle rappresentanze sindacali dei datori di lavoro (Confindustria e Confagricoltura); 1923.

Sempre sotto il fascismo, vengono istituiti gli Assegni familiari, R.D. 17 giugno 1937, n. 1048, nascono le Case Popolari e si attua la Riforma della scuola “Gentile” del maggio 1923 (l’ultima era del 1859)!!!

Fiorisce l’Opera Nazionale Dopolavoro (nel 1935  essa dispone di 771 cinema, 1227 teatri, 2066 filodrammatiche, 2130 orchestre, 3787 bande, 1032 associazioni professionali e culturali, 6427 biblioteche, 994 scuole corali, 11159 sezioni sportive, 4427 di sport agonistico.)

Ma forse è la lotta contro l’analfabetismo uno dei migliori interventi del Duce: eravamo tra i primi in Europa, per il numero di analfabeti, ma dal 1923 al 1936 siamo passati dai 3.981.000 a 5.187.000 alunni – studenti medi da 326.604 a 674.546 – universitari da 43.235 a 71.512.

Come se non bastasse, Mussolini fonda il doposcuola per il completamento degli alunni ed istituisce l’educazione fisica obbligatoria nelle scuole, inaugura la refezione scolastica ed innalza l’obbligo scolastico fino ai 14 anni, inventa le Scuole professionali e la Magistratura del Lavoro.

Se poi vogliamo ricordare le opere architettoniche e infrastrutture, basti pensare alle Bonifiche delle paludi Pontine, ma anche in Emilia, Sardegna, Bassa Padana, Coltano, Maremma Toscana, alla nascita dei Parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, dell’Abruzzo e del Circeo, al potenziamento delle Centrali Idroelettriche, all’elettrificazione delle linee Ferroviarie, agli Impianti di illuminazione elettrica nelle città ed alla fondazione di 16 nuove Province.

Con Mussolini si ha Viale della Conciliazione, lo Stadio dei Marmi ed il quartiere dell’EUR a Roma.

Il Duce fonda l’istituto delle ricerche, con a capo Marconi, inventore della radio e dei primi esperimenti del radar, non finiti a causa della sua morte.

Sempre nel ventennio fascista, si ha la costruzione di molte università tra cui la Città università di ROMA, l’inaugurazione della Stazione Centrale di Milano nel 1931 e della Stazione di Santa Maria Novella di Firenze, nonché la costruzione del palazzo della Farnesina di Roma, sede del Ministero degli Affari Esteri.

In ambito politico e diplomatico, Il governo fascista emana il codice penale (1930), il codice di procedura penale (1933, sostituito nel 1989), il codice di procedura civile (1940), il codice della navigazione (1940), il codice civile (1942) e numerose altre disposizioni vigenti ancora oggi (il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il Codice della Strada, le disposizioni relative a: polizia urbana, rurale, annonaria, edilizia, sanitaria, veterinaria, mortuaria, tributaria, demaniale e metrica).

Ma giusto per non tediare il lettore con quest’overdose di riforme sociali e di conquiste civili, mi voglio soffermare su un particolare emblematico: la gestione della crisi economica conseguente al crollo della Borsa del 1929, in un periodo di crisi finanziaria mondiale.

Nel momento in cui Il mondo del capitalismo è nel caos, il Duce risponde con 37 miliardi di lavori pubblici e in 10 anni vengono costruite 11.000 nuove aule in 277 comuni, 6.000 case popolari che ospitano 215.000 persone, 3131 fabbricati economici popolari, 1.700 alloggi, 94 edifici pubblici, ricostruzione dei paesi terremotati, 6.400 case riparate, acquedotti, ospedali, 10 milioni di abitanti in 2493 comuni hanno avuto l’acqua assicurata, 4.500 km di sistemazione idrauliche e arginature, canale Navicelli; nel 1922 i bacini montani artificiali erano 54, nel 1932 erano arrivati a 184, aumentati 6 milioni e 663 mila k.w. e 17.000 km di linee elettriche; nel 1932 c’erano 2.048 km di ferrovie elettriche per un risparmio di 600.000 tonnellate di carbone; costruiti 6.000 km di strade statali, provinciali e comunali, 436 km di autostrade.

Le prime autostrade in Italia furono la Milano-Laghi e la Serravalle-Genova (al casello di Serravalle Scrivia si trova una scultura commemorativa con scritto ancora “Anno di inizio lavori 1930, ultimato lavori 1933”).

Infine, sempre nello stesso periodo si ha la Riforma bancaria: tra il 1936 e il 1938 la Banca d’Italia passò completamente in mano pubblica (non come oggi che è in mano delle banche che deve controllare N.d.R.) e il suo Governatore assunse il ruolo di Ispettore sull’esercizio del credito e la difesa del risparmio.

Fondazione di Cinecittà, primi esperimenti televisivi nel 1929, Istituzione della Mostra del Cinema di Venezia, prima manifestazione del genere al mondo, nata nel 1932, creazione dell’albo dei giornalisti, della guardia forestale, dell’archivio statale, anno 1928, nonché del Corpo dei Vigili del Fuoco, completano l’opera…

Allora, Egregio Signor Presidente, prima di parlare, non facciamo di tutta un’erba un fascio… per favore.

Antonella Ferrari

http://betapress.it/index.php/2017/12/25/litalia-e-lultradestra/

 




Gli Sdraiati: incomunicabilità tra generazioni.

L’ultimo film di Francesca Archibugi è liberamente tratto dall’omonimo romanzo” Gli sdraiati “di Michele Serra, libro pubblicato nel 2013 e subito diventato un best-seller.

Ricordo di averlo letto con voracità, forse perché madre di un adolescente ribelle e svogliato, sperando di capire qualcosa di più di quell’estraneo, che girava per casa, solo per spostarsi dal letto al divano, dal frigo al bagno…112 pagine, divorate, fino alla fine, con la consapevolezza che il libro non mi avrebbe dato delle risposte, ma, piuttosto, posto delle domande ( a cui non avrei voluto rispondere…) 

“Gli sdraiati” non parla infatti dei figli, dei giovani di oggi, non è un atto d’accusa verso il loro nichilismo abulico: parla dei padri, di quegli adulti che non sanno più bene che ruolo ricoprire all’interno della famiglia.

Di quei genitori disorientati, eternamente alla ricerca di una soluzione per sanare una frattura generazionale che la storia, i tempi, la rete, la trasformazione della società fa percepire oggi come profondissima, misteriosa, carica di elettrica conflittualità, disposta a tutto, pur di sopravvivere.

Mi sono allora chiesta quale poteva essere la chiave scelta da Francesca Archibugi (e dal suo co-sceneggiatore Francesco Piccolo) per raccontare, con il linguaggio cinematografico, quello che, nel romanzo è un lungo, ironico, metaforico monologo interiore di Serra che parla al lettore, a sé stesso, ed al figlio, senza mai ottenere una risposta, che riflette sulla sua condizione esistenziale di padre e di uomo non più nel fiore degli anni.

La visione del film non ha disatteso le mie speranze e, forse, mi ha suggerito delle risposte. 

Francesca Archibugi e lo sceneggiatore Francesco Piccolo hanno allargato con coraggio e consapevolezza lo sguardo e la storia: non più solo il racconto auto ironico e disperato di un uomo alle prese con le difficoltà del ruolo di padre e con la paura d’invecchiare in un mondo sempre più diviso generazionalmente, ma anche quello della sua controparte, di un figlio che deve crescere e cavarsela in un mondo e una società talmente liquidi da aver liquefatto anche il ruolo genitoriale. Giorgio (Claudio Bisio) è il padre.

Di professione fa il giornalista, è amato dal pubblico e stimato dai colleghi, eppure sembra essere un analfabeta della comunicazione quando tenta di parlare con il figlio Tito (Gaddo Bacchini).

Insieme alla ex-moglie Livia (Sandra Ceccarelli) Giorgio tenta di educare un adolescente pigro che ama trascorrere le giornate con gli amici, il più possibile lontano dalle attenzioni del padre.

I due parlano lingue diverse, ma ciò nonostante Giorgio fa di tutto per comunicare con il figlio.

Tito ha una banda di amici, tutti maschi, troppo lunghi, troppo grassi, troppo magri…

Adolescenti goffi, impacciati, in piena tempesta ormonale che spaccano, rovesciano, inzaccherano, mentono, fuggono, puzzano…

Stanno sempre appiccicati, da scuola al divano, dal divano a scuola  incapaci di accettare la sfida di crescere, anche perché l’ultimo loro desiderio è diventare come quei padri pedanti, ripetitivi, ossessivi…

Poi, nella vita di Tito, irrompe Alice (Ilaria Brusadelli), la nuova compagna di classe che gli fa scoprire l’amore e stravolge la routine con gli amici, e finalmente anche il rapporto con il genitore sembra migliorare.

Ma l’entusiasmo non durerà a lungo perché il passato di Alice è in qualche modo legato a quello di Giorgio … 

Insomma, un film apparentemente leggero, che sembra essere una favola a lieto fine, ma che in realtà porta lo spettatore a riflettere sulla sfida di crescere un figlio in un mondo fluido e fluttuante dove i ruoli si stemperano e le parti si confondono, dove lo scarto generazionale si dissolve in nome di un’attenzione verso l’altro, affinché, in un’inversione esistenziale, il figlio Tito, possa farsi carico del padre Giorgio e, nuovo Enea del 21° secolo, possa caricarsi sulle spalle Anchise …

 

Antonella Ferrari