Loving Vincent

Dopo lo straordinario successo raggiunto nei tre giorni di proiezione di ottobre (16, 17 e 18) “Loving Vincent” è tornato nelle sale cinematografiche italiane il 20 novembre.

Il film, primo lungometraggio interamente dipinto su tela, racconta la vita e le opere di Vincent Van Gogh ed ha totalizzato 130 mila spettatori, diventando il film evento più visto di sempre in Italia.

 Sono 283 le sale, di cui tantissime in sold out, che hanno decretato un successo oltre le aspettative di “Loving Vincent”.

Il film, scritto e diretto da Dorota Kobiela & Hugh Welchman , già vincitore del Premio del Pubblico all’ultimo Festival d’Annecy, è un lungometraggio poetico.

In esso, arte, tecnologia e pittura si fondono, proponendo allo spettatore un viaggio, di sola andata, nel mistero della vita e della morte, di un folle genio incompreso.

94 i quadri di van Gogh riprodotti in una forma simile a quella originale e più di 31 i dipinti rappresentati parzialmente.

Un team di 125 artisti ha lavorato anni per arrivare ad un risultato originale e di enorme impatto visivo.

Di fronte allo schermo, lo spettatore diviene detective e svolge una sorta di indagine poliziesca alla ricerca della verità, per scoprire chi era il vero Van Gogh.

Così, il vero Vincent, viene improvvisamente svelato dalle sue lettere. Ispirandosi al suo ultimo scritto, quello in cui annotava “Non possiamo che parlare con i nostri dipinti”, gli autori hanno scelto di partire dalle parole dell’artista, lasciando che fossero proprio i suoi quadri a raccontare la storia e l’opera del pittore olandese esposto nei più importanti musei del mondo.

La narrazione, che riporta in vita opere come Caffè di notte, Campo di grano con volo di corvi, Notte stellata, ma anche ritratti ed autoritratti, si apre in Francia, nell’estate del 1891.

Armand Roulin, un giovane inconcludente e privo di aspirazioni, riceve da suo padre, il postino Joseph Roulin, una lettera da consegnare a mano a Parigi. Il destinatario è Théo van Gogh, fratello del pittore che si è da poco tolto la vita.

Armand non è per nulla felice della missione affidatagli: è imbarazzato dall’amicizia che legava suo padre e Vincent, un pittore straniero che si è tagliato l’orecchio ed è stato internato in un manicomio locale.

Ma, a Parigi, non c’è alcuna traccia di Théo.

La ricerca condurrà allora Armand da Père Tanguy, commerciante di colori, e quindi nel tranquillo villaggio di Auvers-sur-Oise, a un’ora da Parigi, dal medico che si occupò di Vincent nelle sue ultime settimane di vita, il dottor Paul Gachet.

Lo spettatore conoscerà così la locanda dei Ravoux, dove Vincent soggiornò per le ultime dieci settimane e dove il 29 luglio 1890 morì.

Nella sua ricerca, Armand, incontrerà la figlia del proprietario, Adeline Ravoux, ma anche la governante e la figlia del dottore, nonchè il barcaiolo del fiume, dove Van Gogh era solito dipingere en plein-air.

Ciascuno di loro darà un indizio, racconterà la sua verità, avvolgendo lo spettatore in un vortice di possibilità, fino all’ultima, la più inquietante, a proposito della morte dell’artista.

Un colpo di pistola nello stomaco, tentativo mal riuscito di suicidio o colpo accidentale di un balordo locale?!?

Quello che sconvolge è l’ineluttabilità di una morte liberatoria, quella di un genio incompreso, disposto a coprire il vero colpevole, per tutte le 29 ore di agonia, perché, finalmente, poteva liberarsi della fatica di vivere e di “non essere come loro”…

 

Antonella Ferrari




Gli Italiani incapaci di andare all’estero.

Meglio disoccupato che lontano da casa…

L’Italia ha un grandissimo problema di “fuga di cervelli”, che secondo la Confindustria è il vero “spreco del Paese” capace di costare 14 miliardi l’anno.

Ma, non solo, l’Italia deve fare anche i conti con l’altra faccia della medaglia, il problema esatto contrario: gli italiani che, interrogati sul tema, dicono di non voler lavorare lontani da casa, anche a costo di restare disoccupati e di rinunciare alla carriera.

Secondo un sondaggio realizzato dall’Osservatorio mensile Findomestic con Doxa, infatti, quasi un lavoratore su due (46%) preferisce non allontanarsi da casa, anche a patto di restare disoccupato o non fare una progressione di carriera significativa. La comodità e la vicinanza agli affetti hanno la meglio sull’ambizione professionale.

E, come se non bastasse, solo due italiani su dieci rinuncerebbero all’Italia, ed andrebbero a vivere all’estero, pur di fare il lavoro dei propri sogni.

Fortunatamente, almeno,” tre italiani su quattro sono soddisfatti della vicinanza al proprio posto di lavoro”, dice l’Osservatorio.

Ma c’è di più: la Sicilia è al top tra oltre 200 regioni europee per l’alto tasso di giovani fra i 18 e i 24 anni che non studiano e non cercano lavoro, i cosiddetti Neet.

Il dato negativo dell’isola (41,4%) è inferiore solamente a quelli registrati per la Guyana francese (44,7%) e la regione bulgara di Severozapaden (46,5%).

Questo è quanto emerge dal Regional Yearbook 2017 pubblicato il 14 settembre da Eurostat.

Dunque, c’è un problema, nel problema…

Accanto ai giovani siciliani che non riescono a trovare una strada lavorativa nella propria terra, quelli per cui partire sembra l’unico modo, doloroso e drammatico, per costruirsi un futuro dignitoso, ci sono quelli che non fanno niente!!!

Se in Italia un giovane su quattro non lavora e non studia, e il dato è già di per sé desolante, in Sicilia la percentuale sale addirittura al 39,5 per cento: poco meno della metà della popolazione tra i 15 e i 29 anni non lavora e non studia.

Pessimi i dati in generale per tutto il Mezzogiorno. Al secondo posto la Campania con il 36,2 per cento, seguita dalla Calabria con il 35,8, ancora, la Puglia, la Sardegna, la Basilicata e il Molise, tutte al di sopra del 30 per cento.

Un baratro nero, se si pensa che in Europa ci sono regioni come i Paesi Bassi dove lo stesso tasso scende di quasi 20 punti!!!

Niente di nuovo sotto il sole, diremmo noi…

Ma, per quelli che lavorano, ritornando all’indagine Doxa, scopriamo anche altri aspetti del rapporto tra gli italiani ed il loro lavoro.

A cominciare da quello economico: in base ai dati raccolti da Findomestic, oltre un lavoratore su due (54%) si aspetterebbe di guadagnare di più.

La maggior parte giudica invece positivamente il clima lavorativo (76%) e la sicurezza del posto (66%). Si torna al 54% di quelli che non sono soddisfatti della coerenza dell’occupazione con il proprio percorso di studio.

Non stupisce, dunque, che la maggior parte dei lavoratori italiani (60%) abbia pensato almeno una volta di cambiare lavoro, soprattutto nella fascia fra i 35 e i 44 anni.

Inoltre, anche i dati sul rapporto tra l’impegno professionale e la qualità della vita, sono significativi: il 61% dei lavoratori italiani è soddisfatto dell’equilibrio che è riuscito a raggiungere tra lavoro e vita privata, ma i “molto soddisfatti” sono solo 1 su 10.

Come al solito, se potessero avere più tempo libero gli italiani lo utilizzerebbero per stare con la famiglia (50%), poi, per dedicarsi agli hobby (43%), per viaggiare (42%) ed infine, solo uno su quattro, per fare sport (28%).

Dal capitolo ‘benefit’ dell’Osservatorio Findomestic risulta, inoltre, che i lavoratori chiedono soprattutto buoni spesa per carburante, alimentari ed elettronica (40%), oltre a una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (38%) e forme di assistenza sanitaria (35%), queste ultime desiderate soprattutto dalle donne.

E qui, altra anomalia italiana…

Se, stipendio e stabilità restano le voci principali (il primo è la variabile più importante per il 64% dei rispondenti, la seconda per il 42%) di tutti i lavoratori, maschi o femmine che siano, alcune differenze di genere sorgono tra uomini e donne, frutto probabilmente di un carico diverso che ancora separa le due categorie, una volta che si rientra nelle mura domestiche.

La flessibilità dell’orario di lavoro è più rilevante per queste ultime (35% contro il 26% degli uomini), mentre gli uomini dimostrano di dare più peso all’autonomia decisionale (31% contro 27% delle donne) e all’opportunità di fare carriera (17% contro 9% delle donne).

Come al solito, per le donne italiane, il lavoro c’è sempre e comunque, a casa!!!

 

Antonella Ferrari




Femminicidio parola sbagliata: omicidio di una Donna quella giusta!!

Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini alimenta il delirio di un’opinione pubblica che da settimane si intrattiene sugli stupri, “indigeni” e “stranieri”.

Un popolo di lettori e di telespettatori che, come una platea voyeur davanti a un film pornografico, si esalta a conoscere, nei minimi particolari, l’ennesima violenza.

Ci ricorda, quel corpo, che la violenza più violenta, e spesso definitiva, arriva sulle donne molto più frequentemente da uomini prossimi, per primi quelli che dicono di amarle, che da uomini lontani per razza, religione o cultura. Un fatto, che emerge in tutte le statistiche di femminicidio, nonché verificabile nell’esperienza quotidiana di centinaia di centri antiviolenza sparsi per il paese. Ma si sa che i numeri, nonché l’esperienza, nulla possono sulle psicosi.

E dunque, il femminicidio di Lecce non placa il delirio dei giornali e degli onniscienti ospiti dei talk. In un carosello mediatico, c’è chi piange Noemi e chi urla contro l’invasione di interi popoli stupratori…

I conti, del resto, non tornano mai.

Ancor più sullo stupro e sul femminicidio

Inutile elencare, razionalizzare, sezionare un fenomeno che sempre più si manifesta come il risvolto osceno e indicibile non di uno scontro fra civiltà, ma di una crisi di civiltà che travalica qualsiasi confine, etnico o politico, culturale o geopolitico che sia.

La violenza sulla donna è un reato universale, che avvenga tra le mura domestiche, su una spiaggia, dietro un autobus o in un campo profughi.

La violenza sulle donne è di un mondo che sa concepire solo l’universalismo della femmina-merce ed ha seppellito i diritti fondamentali della donna-persona.

Reati sessuali, in un mondo che fa della parità di genere una bandiera progressista e dove, la differenza fra i sessi, è stata in apparenza rimossa, come principio di apertura all’altro. Ma poi, come ogni rimosso ritorna, nella forma barbara della sopraffazione di un sesso sull’altro.

Per questo, lo stupro od il femminicidio, a qualunque latitudine, con qualunque colore della pelle, in qualunque alfabeto, o analfabeto, vengano perpetrati, sono VIOLENZA, punto e basta.

La platea voyeur, sedotta dai media, fa il contrario, invece.

Seziona, conta, particolarizza; derubrica o enfatizza, secondo i casi. E caso vuole che oggi, in Italia, sotto i colpi di una “emergenza immigrazione”, la violenza appartenga alla razza. Esistono ormai stupratori di serie A, stranieri rifugiati e clandestini, e stupratori di serie B, indigeni.

Stupratori efferati, i primi, come a Rimini, e stupratori loro malgrado, “trascinati”, come a Firenze.

Popoli stupratori, che fanno la regola, e mele marce, che fanno l’eccezione.

Stupri da raccontare nei più squallidi dettagli, tipo come funziona la sabbia nella “doppia penetrazione” illustrata da Libero sul caso Rimini, ed amplessi accondiscendenti di due turiste ubriache con due uomini in divisa (su cui stendere la copertina pietosa del decoro dell’Arma e dello stato!!!) come nel caso di Firenze.

Vittime da trattare con qualche riguardo, se bianche, occidentali, perbene, e vittime da violentare una seconda volta, sui giornali, sfregiandone la privacy, se polacche o di chissà dove, precarie, o magari prostitute non per scelta ma per forza.

In gergo sociologico si chiama razzializzazione della violenza sessuale.

Più crudamente significa due cose:

La prima: che i maschi italiani scaricano sui maschi “stranieri” quello con cui non riescono a fare i conti in se stessi, o nel loro vicino di casa, o perfino – come a Lecce – nei loro figli.

La seconda: che quella che è in corso non è solo una guerra fra i sessi, in cui le donne pagano un prezzo implacabile per la loro libertà.

È anche, ed in primo luogo, una guerra fra uomini, per la conquista della donna (che si immagina) d’altri, o per la difesa della donna (che si vorrebbe) propria.

Alla fine di un’estate vissuta solo e soltanto all’insegna della sicurezza, di una sicurezza “esternalizzata” nei campi libici, per difendere i confini nazionali dall’invasione migrante; di una sicurezza esercitata all’interno, con sgomberi, per difendere il decoro urbano da occupanti migranti e indigeni; due uomini della sicurezza, due uomini delle forze dell’ordine si approfittano della vulnerabilità di due studentesse che non sono pienamente in sé, e poi fanno finta di niente.

E per l’opinione pubblica sono” due mele marce”. NO!!! Sono il sintomo parlante di uno stato che la sicurezza non sa cosa sia né dove stia, e che – di nuovo – proietta il problema altrove e su altri, gridando all’emergenza.

Di uno stato che non sa o non vuole garantire i termini minimi della sicurezza quotidiana.

Di un paese in cui i taxi di notte non rispondono alle chiamate, le strade sono buie e se denunci un fidanzato violento di tua figlia nessuno ti sta a sentire. Una sovranità lesionata ed impotente, che eleva muri e confini per nascondere le proprie crepe, nel silenzio assordante di un’intera classe dirigente che delega il caso “per competenza” alla sola ministra Pinotti, e nel rumore altrettanto assordante di un giornalismo sempre peggio ridotto.

Smettiamo di parlare di Femminicidio come se fosse una moda qui si parla di omicidio di una Donna!

Perché, in fondo, per tutti, il coro è lo stesso:” Una donna è solo una femmina…”

http://betapress.it/index.php/2017/09/25/nicolina-pacini-altro-caso-di-rumoroso-silenzio-delle-istituzioni/

 

Antonella Ferrari

 




Social, luogo di incontrollata pazzia.

Catania, una donna sposata, con un regolare lavoro in un esercizio commerciale, ha pubblicato la foto di un’ecografia e messo all’asta online il suo bambino. Un “vero affare”, con un’asta che partiva dai 10mila euro. ( Ma vale davvero così poco una vita?!?)

Qualcuno, sulla rete, ha notato l’annuncio e ha denunciato la donna alla Procura di Catania, che ha avviato un’indagine con l’aiuto della polizia postale.

A pubblicare l’annuncio una donna di Milano di 28 anni e soprattutto non incinta che ha detto di aver agito solo per gioco come un “troll”, coloro che si divertono sui social network a scatenare polemiche e discussioni con provocazioni varie.

Intanto, però, la donna è stata indagata in stato di libertà.

Questo assurdo gioco che varca ogni divieto legale ed ogni limite morale, inizia quando la giovane  donna di Milano pubblica la foto di un’ecografia del feto, sostenendo di essere al quinto mese di gravidanza e promettendo di vendere il bambino dopo il parto, al miglior offerente.

Un vero affare in un mondo virtuale, dove il valore della vita si converte in speculazione… Non sono emerse proposte di acquisto, (per fortuna, diciamo noi !!!) però è scattata un’indagine della polizia postale dopo la segnalazione di un utente dalla pagina Compro e vendo tutto su Facebook.

La donna è stata identificata e sottoposta a perquisizione domiciliare ed informatica, su disposizione dei Pm di Catania, eseguita dalla Polizia Postale di Milano.

L’indagata ha ammesso di essere stata l’autrice dell’annuncio, spiegando che la sua era una provocazione, un ‘troll’, per creare disturbo e fomentare gli utenti.

Per renderla credibile aveva pubblicato anche l’immagine di un’ecografia prelevata da un gruppo web di mamme.

A questo punto, però, sorge spontanea la domanda: “Ma a che punto siamo arrivati se l’avanguardia tecnologica informatica, con l’ausilio dei social, diventa sempre più il terreno fertile per semi di aberrazione mentale di questo tipo?!?”

La Polizia Postale consiglia di non rispondere ai troll, ignorando le provocazioni e segnalando, comunque, i contenuti che potrebbero configurare reati procedibili d’ufficio o imminenti pericoli al fine, in ogni caso, di verificarne la fondatezza.

Ma, al di là di ogni perquisizione e punizione, resta il disgusto per chi osa giocare online con le leggi della vita e della morte e l’invito a dissociarsi da simili assurdi giochi che, prima ancora di essere illegali, sono decisamente immorali!!!

 

Antonella Ferrari




Didattica capovolta, quando la scuola si raddrizza

Visto che la scuola sta andando con le gambe all’aria… parliamo pure della classe capovolta (flipped classroom), una rivoluzione copernicana della didattica, che, magari, è una strategia per rimetterla in piedi…

Ho seguito un corso di aggiornamento di Daniela Lucangeli che ha una cattedra di Psicologia dello sviluppo all’università di Padova ed ha lavorato in mezza Europa.

I bambini di sei anni ridono 300 volte al giorno, ha esordito.

Gli adulti lo fanno da zero a 11 volte.

Vuol dire che tutti noi, crescendo, perdiamo funzioni che sono vantaggiose: ridere attiva il sistema dopaminergico e migliora il sistema immunitario.

È un meccanismo salutare per il cervello, e per l’intero organismo.

Allora, come mai, evolvendo, regrediamo?!?.

L’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un allarme: una delle grandi pandemie da fermare è la depressione infantile, che può prendere avvio da cattive condizioni di apprendimento e da relazioni umane insoddisfacenti.

Questa situazione critica non riguarda solo la complessità della vita familiare, ma si sviluppa anche a scuola.

Vuol dire che l’ambiente che determina lo sviluppo del potenziale umano è in realtà, nell’ottanta per cento dei casi, un ambiente dello star male.

Per capire come e perché a scuola succede questo, ha proseguito Lucangeli, dobbiamo considerare le variabili cognitive messe in gioco dai metodi d’insegnamento tradizionali.

Oggi gli studenti vengono sommersi da un’enorme quantità di informazioni che dovrebbero “imparare”, come se fossero anatre all’ingozzo…

Ma, mentre pretende che gli studenti “imparino”, la scuola di norma non fornisce loro nessuno strumento e nessun sostegno per “imparare”, cioè per gestire in modo sano e produttivo le informazioni che elargisce in maniera intensiva e incessante.

Dunque, chi insegna non può limitarsi a trasmettere informazioni, deve cambiare la mente dei suoi allievi, migliorando il loro modo di ragionare e di confrontarsi con la realtà.

Facile a dirsi, ma come si può fare?

Ecco, allora che Lucangeli ci ha parlato del cervello come di un bollitore chimico che riceve stimoli dall’intero ambiente: percepisce non solo le cose dette, ma anche il modo in cui vengono dette, e l’intenzione che governa e determina quel modo.

E poi percepisce il luogo fisico.

E, a scuola, percepisce la relazione con l’insegnante, la relazione con gli altri studenti…

Bisogna sapere che, quando sperimentiamo emozioni, nel nostro cervello si registrano due tipi di picchi.

C’è un picco collegato a emozioni positive come la gioia: il picco è altissimo e ha una brevissima durata.

Il picco tipico delle emozioni gravi – come la tristezza, l’ansia, l’angoscia e la paura – è più basso e molto più permanente nel tempo.

È questo il motivo per cui le emozioni negative e prolungate possono determinare patologie.

Allora, tornando alla scuola: se un bambino, mentre impara, prova paura, il circuito della memoria registrerà, collegandole, sia l’informazione trasmessa sia l’emozione. Se un bambino si sente impotente o inadeguato nei confronti di quanto impara, l’apprendere resterà connesso con il senso di inadeguatezza.

E se un bambino è terrorizzato dalla scuola, fuggirà della scuola.

L’intelligenza sociale nasce con il sorriso, già quando abbiamo pochi mesi, e un sorriso d’incoraggiamento è, in termini di cambiamento, molto più potente di decine di rimproveri.

Un altro grande nemico dell’apprendimento è il senso di colpa connesso con un giudizio negativo: per questo gli insegnanti dovrebbero imparare a guardare i loro allievi negli occhi e a sorridere. E dovrebbero saper incoraggiarli a sbagliare.

In classe, il cervello degli studenti porta “dentro” quel che c’è “fuori”. Il cervello dell’insegnante che fa una lezione frontale, invece, porta “fuori” quello che c’è “dentro”.

Nessuno di questi due atti è propriamente creativo: il potere creativo del cervello si esprime nella sua massima potenza nel momento in cui le informazioni che ci sono “dentro” vengono selezionate, connesse tra loro, riconfigurate in nuovo sapere, più ricco ed autoprodotto.

Anche la parola “intelligenza” viene dal latino (intusligere, cioè leggere dentro). E intelligenza sociale vuol dire portar dentro, riconfigurare, e solo, dopo, portar fuori, in una nuova forma. Questo è vero apprendimento. Ed è permanente.

Eppure quel che si fa a scuola non è altro che apprendimento passivo a breve termine. Il nostro cervello non è stato creato per questo. Non è fatto per portar dentro una massa enorme di informazioni che dovrebbe poi sputar fuori tali e quali. Se si trova in questa condizione, il cervello prova malessere.

Dunque, se l’obiettivo è attivare i cervelli, la classe capovolta sembra essere una soluzione possibile, efficace e naturale.

L’intelligenza è tanto più potente quanto più conosce e modifica le informazioni, facendole così davvero proprie. Ma più il cervello è sovraccaricato, meno ha risorse per elaborare informazione intelligente. È come se diventasse pigro ed obeso.

Dunque, se l’obiettivo è attivare i cervelli, la classe capovolta appare una soluzione possibile, efficace e naturale. L’idea di base è semplice: nella classe capovolta viene ribaltato lo schema tradizionale di insegnamento e apprendimento.

In aula si discute, si lavora e si impara insieme sotto la guida dell’insegnante.

A casa, da soli o insieme, ci si documenta grazie a materiali didattici multimediali.

Nella flipped classroom si pratica, insomma, il learning by doing. Se tutto ciò ci sembra molto americano è solo perché ci siamo dimenticati di Maria Montessori, che agli inizi del secolo scorso già parlava di apprendimento attraverso l’attività, o di don Milani.

Dal primo convegno sulla flipped classroom sono passati solo due anni.

Un numero crescente di insegnanti ci crede, ci prova, ottiene risultati, coinvolge altri insegnanti.

Date un’occhiata, se insegnate.

E, perché no?, provate…

 

 

Antonella Ferrari




Da grande vorrei fare … il ricco!

I primi giorni di scuola, nell’ambito dei progetti di accoglienza, mi piace chiedere ai miei nuovi alunni: “Cosa vorresti fare da grande?”

Risposta: “Il calciatore”, oppure, “La velina”…

Spesso ricevo queste risposte dai ragazzi delle medie.

Naturalmente, ce ne sono tante altre, alcuni di loro, già consapevoli e, non a caso buoni lettori, dicono invece di volere fare il giornalista, il medico, lo scienziato, il ricercatore…

Ma il mito del successo e del guadagno facile è diffuso.

Molti di loro ritengono che sapere dare un calcio al pallone sia già la garanzia di un futuro di popolarità, di esibizioni internazionali e di compensi favolosi.

Ancora più adulatoria e fasulla l’illusione delle ragazze che sognano di superare una selezione televisiva che le introdurrà rapidamente nel mondo del cinema e della pubblicità.

Hanno imparato che il talento conta poco, lo studio, la disciplina, la competenza portano solo povertà e frustrazione.

La bellezza, invece, può essere un buon strumento per ottenere qualcosa che il mondo del mercato offre con apparente facilità: soldi e successo, un binomio perverso e ingannevole.

Ma chi mette loro in testa questi miti fasulli? I vari schermi che infestano la nostra vita: quel rettangolo magico in cui tutto sembra facile e alla portata di mano, in cui i corpi contano più dei pensieri e delle parole, in cui il feticcio del successo appare come un premio facilmente raggiungibile, basta saper dribblare o sculettare…

Come se non bastasse, alla mia domanda “Ma, nessuno di voi vorrebbe fare l’insegnante?”, c’è sempre qualcuno che mi dice: “Ma non sono mica matto!?!”.

” Quanto prende lei Prof ?”. E mentre temporeggio nel rispondere, c’è chi aggiunge “Tanta fatica per fare il martire “…

Ed allora, capisci che, una volta di più, dovrai lottare per rivendicare il ruolo della scuola in questa landa selvaggia di propagazione di falsi miti.

Dovrai mettercela tutta per convincerli, con il tuo esempio che non sei  né un santo, né un masochista, che, ogni giorno entri in classe entusiasta e motivato, con il privilegio di essere un nuovo demiurgo che può e deve fare la sua parte nel formare e modellare le nuove generazioni.

Certo, se penso alle sparate ministeriali di chi ci governa, la mia impressione è che l’Istituzione scuola si stia disgregando: che nelle varie campagne elettorali, la scuola sia uno specchietto per allodole per attirare consensi dimenticando il suo vero ruolo, quello, cioè, di formare il bravo cittadino.

Dietro e dentro ogni nuovo decreto ministeriale, vedo e vivo una scuola impaurita dalle novità, sempre più chiusa tristemente in se stessa.

Per fortuna, però, per chi la scuola la vive dal basso, esiste una fitta rete di insegnanti responsabili e generosi che credono nel carattere missionario del loro lavoro, dedicano quotidianamente le loro energie ad insegnare la consapevolezza e la responsabilità, due qualità carenti nel nostro Paese.

Per mia esperienza, lì dove gli insegnanti danno il buon esempio, mettendosi in dialogo con gli studenti, aiutandoli a diventare protagonisti della difficile arte dell’apprendimento, i ragazzi rispondono più che bene.

Per questo, quando nelle risposte provocatorie dei miei alunni, capisco che manca un progetto condiviso del futuro comune, punto tutto sul costruire un pezzetto di vita con loro.

Quando mi accorgo che la scuola è privata del suo prestigio e della sua libertà, cerco, come insegnante, di inventarmi una scuola migliore, che non sarà la buona scuola ministeriale, ma non sarà neanche la scuola del Grande fratello o dell’Isola dei famosi…

So che, molti miei colleghi, magari scoraggiati, si sono già arresi e chiudono ogni comunicazione.

Altri, fanno il conto alla rovescia ed aspettano la pensione come soluzione ad ogni male.

C’è chi mi compatisce e mi definisce una povera illusa…

Ma, so di non essere sola.

A tutti gli altri, quelli che resistono e si spendono con generosità, dico grazie perché è merito loro se la scuola sopravvive ed offre ancora altri miti reali e civili.

 

Antonella Ferrari




Noemi uccisa per amore

“Non è amore se ti fa male…”

Ha confessato il fidanzato di Noemi Durini, la sedicenne scomparsa domenica 3 settembre in provincia di Lecce: è stato lui ad ucciderla.

Gli inquirenti hanno trovato il corpo della giovane.

Al padre quarantunenne del fidanzatino diciassettenne  di Noemi Durini è stato notificato un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere.

La svolta nelle indagini è arrivata ieri, mercoledì 13 settembre, 10 giorni dopo la denuncia di scomparsa della ragazza: il fidanzato diciassettenne di Noemi è ora indagato per omicidio volontario.

Le telecamere di sicurezza di un’abitazione di Specchia certificano che il ragazzo e Noemi erano insieme all’alba del 3 settembre, a bordo di una Fiat 500 di proprietà della famiglia del ragazzo.

Messo sotto pressione dagli inquirenti, il giovane ha confessato l’omicidio di Noemi: è stato lui stesso ad indicare agli inquirenti il luogo in cui si trovava il cadavere della sua fidanzatina, a Castignano di Leuca.

Il corpo della ragazza era nascosto in una campagna adiacente alla strada provinciale per Santa Maria di Leuca, parzialmente sepolto da alcuni massi: ad un primo esame sarebbero stati riscontrati segni di ferite, forse dovuti alle pietre.

Dal momento della scomparsa, i genitori di Noemi avevano continuato a lanciare appelli nella speranza di trovarla viva.

Del resto, l’iscrizione del nome del ragazzo nel registro degli inquirenti era stata subito disposta dalla Procura per i minorenni di Lecce per permettere l’esecuzione di accertamenti utili alle indagini.

Ma tanti, ora possiamo dire troppi, sono stati i lati oscuri della vicenda che hanno rallentato il lavoro degli inquirenti.

Il fidanzato ha raccontato, in una prima versione dei fatti, di aver lasciato Noemi nei pressi del campo sportivo, ma le sue dichiarazioni presentavano delle contraddizioni che hanno insospettito gli inquirenti.

Sospetti alimentati anche da un filmato che ritraeva il ragazzo diciassettenne mentre rompeva, a colpi di sedia, i vetri di un’autovettura parcheggiata nei pressi di un bar ad Alessano, città in cui il giovane vive.

L’auto, una vecchia Nissan Micra, era di una persona con la quale il giovane aveva avuto un acceso litigio proprio sulla sorte della fidanzatina.

Poco prima – a quanto si è appreso – il diciassettenne e suo padre avevano avuto un diverbio con il papà di Noemi che si era recato nella vicina Alessano per chiedere notizie della figlia.

E, adesso, si scopre che la sorte di Noemi era “CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA”.

I familiari di Noemi avevano un rapporto conflittuale con il diciassettenne e non volevano che la ragazza lo frequentasse.

Il fidanzato «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava», ha raccontato Davide, cugino della vittima.

Qualche tempo fa la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento.

La donna aveva chiesto ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e allontanarlo dalla figlia, che frequentava con qualche difficoltà l’istituto professionale «Don Tonino Bello» di Alessano.

Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata; l’altro civile, per verificare il contesto familiare in cui viveva il giovane.

Ma nessuna denuncia aveva portato a provvedimenti cautelari.

Per questo motivo erano sorti accesi contrasti tra le due famiglie.

A 17 anni, il ragazzo era già in cura al Sert, per uso di droghe leggere.

Inoltre, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva avuto qualche guaio con la giustizia.

Pur non avendo la patente, guidava regolarmente la Fiat 500 della mamma, fatto di cui si vantava con gli amici.

Non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava perché geloso e possessivo.

È questo il ritratto che gli investigatori fanno ora del fidanzato di Noemi.

Forse a causa delle violenze subite la ragazzina, il 23 agosto, aveva condiviso su Facebook il post di «Amor De Lejos, Amor De Pendejos« in cui si vede il volto emaciato di una ragazza alla quale la mano di un giovane imbavaglia la bocca.

Sul polso del ragazzo c’è un tatuaggio con la scritta «Love?».

«Non è amore se ti fa male. Non è amore – è scritto – se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (…). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C’è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!».

Ma, a nulla sono valse queste parole profetiche… Noemi, cassandra del proprio destino, non si è fidata di se stessa, ha voluto rischiare.

All’alba del 3 settembre è uscita di casa per incontrare il fidanzato, forse dopo una telefonata, ed è stata uccisa.

E pensare che un mese fa, il 12 agosto, i due avevano festeggiato il loro primo anno di fidanzamento e Noemi aveva scritto sul social: «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà!».

 

 

Antonella Ferrari

 




Compiti a casa addio!

Chi di noi, dopo una giornata di lavoro non ha avuto l’incubo di controllare che i propri figli avessero fatto i compiti di scuola?!?

Non dico bene, ma almeno tutti.” Basta compiti !!!”  era il mantra domestico di ogni figlio che continuava ad implorare la fine della tortura, fino a che, il povero genitore, capitolava, e si metteva a farli lui, i compiti, pur di chiudere quella tragicommedia quotidiana e di andare tutti a dormire…

Stavolta, il sogno di ogni figlio alunno diventa realtà.

E si concretizza in un progetto sperimentale che coinvolge la scuola primaria e la scuola media di cinque province italiane (Biella, Verbania, Milano, Torino e Trapani), 166 le classi campione coinvolte.

In passato, ci sono state diverse iniziative, più che altro petizioni ed appelli, per trasformare il metodo di apprendimento eliminando i compiti a casa.

Ora, si passa ai fatti, con un movimento su scala nazionale che ha deciso di percorrere la strada della sperimentazione.

L’idea è verificare il valore di una diversa organizzazione del tempo-scuola, per sollevare gli alunni dal peso dei compiti a casa, spesso svolti con il coinvolgimento dei genitori (se non con il ricorso a lezioni private).

Così, dopo le iniziative sui social del preside ligure Maurizio Parodi, autore della pagina Facebook “Basta compiti!” e di una petizione online che nei mesi scorsi ha raccolto quasi 25mila consensi, in Italia, cominciano a prendere forma esperienze concrete.

E, per la prima volta, parte un progetto che coinvolge le scuole di tre regioni: Piemonte, Lombardia e Sicilia.

Ad esordire nella sperimentazione, sono state 13 classi dell’istituto comprensivo Biella II, dell’omonima città piemontese, in cui, il fatto di non assegnare compiti a casa, è la conseguenza di una diversa organizzazione della settimana scolastica.

Nella primaria, il tempo scolastico è stato strutturato in modo da far studiare ai bambini, per due settimane, lo stesso macro-argomento, trattato dalle diverse colleghe in un’ottica interdisciplinare.

Le insegnanti della classe, infatti, svolgono le normali attività di mattina e consolidano le conoscenze di pomeriggio, con attività di diverso tipo, anche pratiche. Questo consente ai bambini di acquisire i contenuti con un ritmo bisettimanale, senza essere appesantiti da compiti a casa. Le lezioni, alla scuola elementare, prevedono per una settimana intera lo studio dell’italiano e, per l’altra settimana, della matematica, affrontando l’argomento con il contributo di tutte le discipline.

Al Biella II, dice la preside Vineis,” si sta pensando di estendere la sperimentazione anche ad alcune classi della scuola media. I primi risultati del progetto sono soddisfacenti, perché si tratta di una metodologia inclusiva che non lascia indietro nessuno e che evita la stratificazione delle conoscenze.

In altre parole, l’argomento che gli alunni studiano viene affrontato e concluso in tempi brevi e le conoscenze vengono consolidate”.

Il progetto, che prende le mosse da un manuale sulle difficoltà di apprendimento stilato in collaborazione con la Asl di Biella, ha coinvolto, nello scorso anno scolastico, 36 classi del biellese.

Quest’anno, coinvolgerà 90 classi della provincia di Milano e 40 di quella di Trapani.

Il progetto, però, sta per essere “esportato” anche in altre tre regioni: Toscana, Umbria e Lazio, con monitoraggio dei risultati da parte dell’università di Milano.

Questa nuova realtà potrebbe nei prossimi anni suggerire anche qualche tipo di riforma.

Riforma che, di sicuro, otterrà il consenso di genitori spesso esasperati per la quantità di compiti a casa assegnati.

E perché, senza la necessità di assegnarli, gli alunni meno fortunati, o addirittura quelli disabili, svolgono comunque l’intero lavoro scolastico a scuola.(  Non fa niente se contenuti, metodi ed obiettivi sono diversi a seconda delle potenzialità di ogni bambino… Non ci metteremo mica ad insegnare anche ai genitori ?!? )

Il sogno è imitare la Finlandia, il paese con le performance dei propri quindicenni al top in Europa, dove il grosso del lavoro si svolge a scuola e con meno ore di lezione.

Peccato, che il sistema scolastico finlandese non assomigli per niente a quello italiano, ma, di questo, ne parleremo nella prossima puntata…Giusto per lasciare dormire tranquilli, figli e genitori…

 

Antonella Ferrari




Pensione, mettiamo la data a dopo la morte del cittadino, così facciamo prima…

Dal 1° gennaio del 2018, le donne non godranno più di un trattamento di favore rispetto agli uomini per quel che riguarda la data del pensionamento.

Tutti i lavoratori, maschi e femmine, potranno mettersi a riposo una volta superati i 66 anni e 7 mesi di età, purché abbiano alle spalle almeno 20 anni di contributi (o almeno 5 anni se assunti dopo il 1996).

A stabilirlo è la Legge Fornero, la riforma previdenziale approvata in Italia nel 2012 dal governo Monti, che ha introdotto la graduale parificazione tra uomini e donne entro il 2018.

Fino a 6-7 anni fa, infatti, le lavoratrici potevano contare su una finestra di uscita privilegiata, congedandosi dal lavoro 5 anni prima degli uomini (60 anni anziché 65).

Poi è arrivata appunto la Legge Fornero che ha cambiato tutte le regole, rendendo l’accesso al pensionamento molto più gravoso.

A partire dal 2019, sia per gli uomini che per le donne, la soglia di accesso alla pensione di vecchiaia salirà ancora di 3 mesi, fino a raggiungere i 67 anni. Per legge, infatti, l’età pensionabile verrà adeguata ogni 3 o 4 anni alle aspettative di vita della popolazione, che per fortuna sono in crescita grazie ai progressi della medicina. Sempre che, però, qualcuno non schiatti prima, direttamente sul posto di lavoro!!!

Questi sono i requisiti per la pensione di vecchiaia, che matura principalmente in base all’età.

Esiste però anche un altro trattamento che si chiama pensione anticipata, che matura invece una volta raggiunta una determinata quantità di contributi versati, indipendentemente dall’età.

Per la pensione anticipata, le donne hanno conservato un piccolissimo trattamento di favore poiché possono congedarsi dal lavoro con 41 anni e 10 mesi di contributi, 12 mesi prima degli uomini che devono invece raggiungere i 42 anni e 10 mesi di carriera. Infine, sia per gli uomini che per le donne esiste anche la possibilità di ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape (anticipo pensionistico).

Le donne che vogliono ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape Social (l’anticipo pensionistico senza penalizzazioni) avranno un piccolo trattamento di favore, uno sconto sui requisiti contributivi pari a 6 mesi per ogni figlio che hanno dovuto crescere nel corso della loro vita e che spesso ha comportato per loro un sacrificio in termini di carriera.

Il bonus contributivo potrà essere al massimo di due anni.

Dunque, mentre i lavoratori maschi che vanno in pensione con l’Ape Social devono avere 63 anni di età e almeno 30 anni di contributi, le donne con figli potranno mettersi a riposo anche con 28 o 29 anni di carriera alle spalle.

L’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha voluto così accontentare le richieste dei sindacati, che sottolineano da tempo come l’età della pensione di vecchiaia italiana sia ormai la più alta d’Europa, anche per le donne che tradizionalmente hanno goduto in passato delle finestre di uscita dal lavoro anticipate.

Ma è giusto o sbagliato che le donne vadano in pensione prima degli uomini?

Attorno a questo interrogativo si è dibattuto molto negli anni scorsi, anche prendendo spunto da quel che avviene all’estero. In gran parte degli altri paesi europei, infatti, donne e uomini vanno in pensione alla stessa età.

Ci sono poche nazioni che fanno eccezione.

E’ il caso della Gran Bretagna dove le lavoratrici femmine possono ritirarsi a circa 62 anni e mezzo contro i 65 anni degli uomini. Stesso discorso per l’Austria dove le donne si ritirano a 60 anni anziché a 65.

Non ci sono invece trattamenti di favore in altri paesi dove tuttavia – sottolineano i sindacati- l’età pensionabile è più bassa rispetto ai 66 anni e 7 mesi fissati in Italia.

In Spagna e Germania c’è ancora il requisito dei 65 anni per uomini e donne (che salirà gradualmente soltanto nell’arco di un decennio) mentre in Francia la soglia anagrafica resta inchiodata a 62 anni.

A ben guardare, però, la parificazione dell’età pensionabile è un destino ineluttabile per tutti i Paesi. A stabilirlo è infatti una sentenza delle Corte di Giustizia Europea del 2008, che ha vietato ai singoli Stati di fare disparità di trattamento a seconda dei sessi.

Giusto! Peccato che, in Italia, più che privilegiare le donne che vanno in pensione, bisognerebbe riconoscere i loro diritti prima, quando, in sede di selezione per un posto di lavoro, a parità di requisiti con candidati maschi, le donne pagano la colpa di voler fare un figlio.

Quando, al rientro dopo una gravidanza, le donne verificano che il loro diritto alla maternità è incompatibile con l’avanzamento di carriera.

Quando, in caso di contrazione del personale, le prime ad essere messe in mobilità, sono proprio le lavoratrici con figli piccoli…

Quando, se mantengono il loro posto di lavoro, le donne, a parità di prestazioni, percepiscono uno stipendio inferiore rispetto ai loro colleghi maschi… E questo, lo dicono le statistiche!!!

Secondo le statistiche, infatti, in Italia, le donne, non solo hanno di solito stipendi mediamente più bassi, ma hanno anche maggiori difficoltà a fare carriera rispetto agli uomini.

Questo, non tanto per pregiudizi culturali, quanto piuttosto perché sono di solito penalizzate dal punto di vista professionale durante le gravidanze e non riescono a conciliare la vita lavorativa e quella familiare, al punto di essere costrette a licenziarsi.

Dunque, se vogliamo fare le cose giuste, iniziamo prima e non dopo, come al solito in Italia.

E poi, già che ci siamo, ricordiamoci del privilegio, tutto femminile, delle pensionate di curare i genitori ultraottantenni, perché, come non c’erano asili nido quando le donne lavoratrici avevano i figli piccoli, così non ci sono ricoveri adeguati all’allungamento dell’età media della popolazione, adesso che, le stesse donne hanno i genitori anziani….

Antonella Ferrari




Noi stiamo con Milena…

Milena Gabanelli, 63 anni, è una nota conduttrice e giornalista italiana che lavora da 30 anni per la Rai.

La carriera della donna ha sempre girato attorno a programmi tv di inchiesta.

Il suo debutto è arrivato nel 1982 circa e da lì ha ricevuto sempre più consensi da parte del pubblico.

Nel 1989 ha preso parte a Special Mixer, dove ha avuto la possibilità di viaggiare e realizzare vari servizi, tra cui uno in Cina e uno in Vietnam.  Subito dopo l’esperienza a Special Mixer, Milena è divenuta inviata di guerra, recandosi così in numerose regioni colpite da svariati conflitti armati.

Nel 1994 è arrivata la prima esperienza da conduttrice con il programma Professione Reporter su Rai 2.

Il nome della Gabanelli è però conosciuto, ai telespettatori italiani, soprattutto per la sua presenza a Report in onda su Rai 3.

Milena è stata infatti protagonista e conduttrice del programma dal 1997 al 2016.

Nel 2013, inoltre, è arrivata un’altra grande soddisfazione per la giornalista:  Milena è infatti stata la più votata per la candidatura a Presidente della Repubblica dal Movimento 5 Stelle.

Nonostante la gratitudine nei confronti dei suoi colleghi, la donna ha però deciso di rinunciare alla carriera politica e di continuare con quella giornalistica.

Così, dopo innumerevoli premi per la sua professionalità e responsabilità, proprio dopo 20 anni di video giornalismo d’inchiesta, le è stato affidato il portale digitale di informazione Rai.

Anche qui, la Gabanelli si è dedicata con passione e professionalità al suo ruolo giornalistico.

Ma quel progetto è rimasto sulla carta, per le incomprensibili (o forse fin troppo comprensibili) resistenze dell’azienda pagata con i nostri soldi, ma teleguidata dai partiti.

Per non dover ammettere di aver cacciato anche lei, ultima di una lunga lista di proscrizione che va dall’era Berlusconi all’era Renzi, i vertici Rai le hanno fatto una proposta che, per dignità, la giornalista doveva rifiutare: la con-direzione di Rainews24, testata e sito semi-clandestini con un pugno di collaboratori scelti da altri.

E la Gabanelli, sempre per dignità, si è posta in aspettativa non retribuita: cioè – checché ne dicano i minimizzatori dei partiti e della stampa al seguito – fuori dalla Rai.

Noi pensiamo che qualunque emittente del mondo libero sarebbe orgogliosa di avere la Gabanelli tra i suoi giornalisti, soprattutto per le ragioni del suo rifiuto alla proposta del dg Mario Orfeo di fare la condirettrice di Rai News.

In un’intervista al Corriere della Sera, la giornalista Milena Gabanelli ha spiegato così il suo no alla con-direzione di RaiNews 24: “Ho chiesto l’aspettativa non retribuita.

Se vareranno una nuova testata e vorranno affidarmi la direzione, darò la mia disponibilità”.

Il piano prevedeva un nuovo sito, integrato con tutti i dipendenti dell’azienda pubblica: “La Rai, al contrario di tutte le tv del mondo, ha molti telegiornali, ma non ha un portale di news online organizzato” Mi sono tolta lo stipendio.

Non produrre e guadagnare lo troverei umiliante” “Il mio non è un capriccio, ma la certezza che non ci sono le condizioni per produrre risultati. E di cui poi devo rispondere. Il mio incarico è far funzionare l’informazione online, che la Rai non ha, malgrado i suoi 1.600 giornalisti. La proposta è quella di stare dentro un sito che non ha i presupposti per funzionare”

All’intervistatrice che le ha chiesto perché non le basta la promozione e uno staff di 40 giornalisti scelti da lei, Gabanelli ha risposto:

“Non ne ho mai fatto una questione di carica. E lavorare con Di Bella, che stimo, è pure divertente. Ma buona parte dei giornalisti che io ho incontrato, in un assestment interno, sono disponibili a trasferirsi al portale unico Rai, ma non al sito di una testata. Così quelli di tg nazionali e regionali, corrispondenti: tutti felici di contribuire. Ma non a Rainews.it, perché è percepito come il sito di una testata concorrente”.

Se il suo progetto originario non si realizzasse, la giornalista ha sottolineato:

“Sarebbe un peccato per la Rai che non può permettersi un ulteriore ritardo sull’online. Se invece il problema sono io, non ho difficoltà a farmi da parte, il lavoro fin qui fatto non andrà sprecato. Non ho paura del futuro e non sono legata alle poltrone, ho delle idee e una reputazione che vorrei continuare a mettere a disposizione del servizio pubblico. Ma non inventandomi un nuovo programma, altrimenti sarei restata dov’ero.”

Averne di giornalisti così…

Semplicemente, grazie di esistere, Milena…

 

Antonella Ferrari