Coronavirustory

Di fronte ad un’itera Nazione coinvolta nella lotta contro il “nemico invisibile”, non si può non avvertire il senso di silenzio attorno a noi.

Uffici vuoti, bar e ristoranti costretti alla chiusura, scuole deserte. Per le strade non si odono le risate dei bambini, dei loro rumorosi ma meravigliosi giochi, non ci sono gruppi di ragazzi nei locali, e i super market sono i soli ad aver subito l’assalto delle folli compere di quanti più alimenti in vista di un isolamento obbligato a data da destinare.

Forse con debito ritardo, forse dopo mille raccomandazioni, inizialmente andate a vuoto, l’italiano ha compreso non solo la gravità della situazione attuale ma che il nemico si debella lasciandolo da solo. Forse con qualche ingiustificato ritardo ma alla fine abbiamo compreso che la nostra Nazione ci chiama ad un invito comune e non possiamo fingerci sordi alla sua chiamata.

In mezzo a tutto il caos quotidiano c’è chi ancora si affanna a ricercare le cause di questo contagio, a puntare il dito contro la Cina, per aver omesso quello che da subito era tenuta a rivelare al modo, chi invece inveisce contro gli Stati Uniti, per essere quest’ultimi i soli responsabili di aver creato un virus studiato a tavolino (per ragioni comunque sconosciute visto che proprio in America si stanno registrando contagi ed anche decessi).

Sempre in mezzo a questo delicato momento c’è anche un altra categoria, forse la più dura da mettere a tacere, riguarda i mostri da tastiera, i tanti improvvisati tuttologi che costantemente accusano i capi del Governo, per non aver chiuso in tempo le frontiere, per non aver fatto abbastanza, per non essere in grado di far fronte a questa emergenza per non saper dire e nemmeno fare.

Costoro continuano il loro atto di accusa incessante restando comodamente nelle loro case a scrivere attraverso un pc non curandosi del coraggio che serve per annunciare ad un’intera Nazione l’obbligo di fermarsi, per comunicare alla nostra Italia che la situazione è grave ma che nonostante tutto, seppur piegata, troverà la forza per potersi rialzare con il nostro aiuto.

L’italiano ha compreso, ed ha reagito, lo ha fatto stando a casa, lanciando messaggi di speranza attraverso il web, attraverso le migliaia di foto di bambini con in mano gli ormai noti e sempre emozionanti striscioni riportante la frase: “andrà tutto bene”.

Tutto si è fermato, ma non la forza che contraddistingue la nostra Nazione, che barcolla in questo istante ma che non ha intenzione alcuna di mollare.

In questo isolamento tutto è cambiato, noi siamo cambiati, la nostra visione del mondo, degli affetti, del ritrovarsi e del proteggere chi amiamo.

L’eroe non è più soltanto un uomo che calcia una palla di fronte a milioni di spettatori, fra applausi e milioni di euro; nuovi eroi ci rappresentano ed indossano un camice, una divisa, svolgono il loro dovere fino in fondo, in silenzio, non firmano autografi, non finiscono nelle prime pagine; adesso in questa Nazione ferma eroi sono coloro i quali dall’inizio di questa emergenza mai hanno fatto un passo indietro ma hanno combattono in prima linea.

Smettiamola di improvvisarci immunologi, politici, nell’arduo e vano tentativo di additare un colpevole, di condividere consigli su cosa si poteva fare od ancora cosa sarebbe meglio attuare.

Lasciamo che ognuno abbia il suo ruolo, imparando a dire grazie a chi dall’alto delle vostre prediche nelle corsie lotta con i fatti, non solo con le parole.

Si poteva, si doveva ma adesso siamo qui, nolente e dolente, tutto questo ci riguarda ma la speranza resta e quando tutto questo sarà finito, quando tra tanti anni ci chiederanno di raccontare i tempi del covid-19, mi piace pensare che potremo rispondere: “ siamo rimasti tanto tempo a casa tra la paura e le preghiere.

Il mondo intero si era fermato.

Alla fine la gente si era responsabilizzata, non usciva più, aveva lasciato il nemico a marcire nella sua solitudine.

Quando si poté uscire di nuovo osservavamo il mondo con altri occhi, con quelli di un bambino; e il caffè che abbiamo bevuto nei bar, che per molto tempo furono chiusi, seppur fatto con lo stesso chicco era buonissimo.

Sapete perché? perché in quel momento aveva il gusto di libertà, il gusto di un paese che aveva vinto”.

 

 

 




Falcone e Borsellino sempre due di Noi.

Lu 23 di maggio lu cielu da Sicilia s’ oscurau

A Capaci a terra tutta trimau

Li petri di la strata sataru e si rumperu

Falcone, la mugghieri e la scorta mureru

È questa una strofa, scritta da un mio professore, che oggi 23 maggio 2019 a ventisette anni dalla strage di Capaci io, Santi Di Leonardo, studente di anni 14, devo raccontare davanti ad una folla di gente scesa in piazza per celebrarti.

Devo raccontare di te Giovanni, di tua moglie Francesca Morvillo e degli “angeli” della scorta che in un pomeriggio di primavera siete stati traditi da quella Palermo che tanto hai amato e in cui tanto hai creduto.

Ma purtroppo qualcuno ti tradì Giovanni, e mentre passavi da Capaci per raggiungere Palermo, quel maledetto ordigno vi tolse la vita. Sono cresciuto con la convinzione che quell’ immagine di te e del tuo amico Paolo Borsellino che appare su un palazzo di Palermo, fosse destinata a diventare il simbolo della lotta contro la mafia.

Conosco il tuo operato attraverso la testimonianza di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerti.

Tutti ti rimpiangono, dalle più alte autorità al più semplice dei cittadini.

Allora ancora oggi mi chiedo, chi ti ha tradito? Perché non si trovano ancora i nomi dei veri mandanti? Giovanni ti chiedo scusa se mi rivolgo a te dandoti del tu, considerando la tua personalità e il tuo ruolo di magistrato, ma mi sento molto vicino alle tue idee di giustizia, al tuo estremo coraggio e alla tua incontestabile onestà.

È questa la tua vittoria caro magistrato, che nessuna bomba potrà mai distruggere: le nuove generazioni ti ammirano, sei un esempio per tutti noi, lo dimostrano le partecipazioni dei giovani in ogni parte dell’Italia che in tutta Italia si radunano per celebrare te, tua moglie e tutta la scorta.

Parte da Genova alla volta di Palermo la nave della legalità per manifestare che noi tutti non ti dimentichiamo.

Noi giovani, oggi 23 maggio, urliamo a gran voce chi sono i nostri eroi: tu Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, il Generale Dalla Chiesa, Boris Giuliano e tutti gli altri che hanno dato la loro vita per riscattare la nostra amatissima Sicilia da coloro che per troppo tempo l’hanno tenuta in scacco, macchiando il nome della nostra splendida terra e di noi tutti che in essa viviamo.

Giovanni il cambiamento come dicevi tu deve iniziare dal modo di pensare, e quest’oggi io non posso che applaudire tutti gli agenti della scorta che con estremo coraggio a te sono rimasti fedeli fino alla fine: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, la tua fedele compagna di vita Francesca Morvillo che accanto a te quel giorno sedeva ignara della sorte a cui andavate in contro, o forse lo sapeva ma mail la sua mano ha smesso di stringere la tua. Io vi immagino così: mano nella mano oltre tutto, per l’eternità.

Santi Emiliano Karol Di Leonardo




Targa Florio: dal 1906 cuore di Sicilia

Sono infinite le relazioni che affioreranno in noi nell’esatto istante in cui viene citata la Targa Florio.

Non so per voi ma per me, nata e cresciuta in Sicilia, non è semplicemente una gara, è la gara per eccellenza quella che percorre i tortuosi tragitti delle Madonie, la stessa che ha regalato emozioni infinite, batticuori e fiato sospeso, che ha attirato a sé migliaia di amatori, la gara che sin dagli esordi era destinata a divenire leggenda.

Alla fine dell’ultima competizione da poco conclusa, ho scelto di intervistare colui che per noi Siciliani, e non solo, è il campione indiscusso: Salvatore Riolo o come dice lui semplicemente Totò.

Quella che vi mostrerò non è semplicemente un’intervista concessa ai nostri microfoni di Betapress è diventata qualcosa di più, perché sebbene lui sia il campione ed io la Cronista, con Totò si finisce per fare due chiacchiere e dopo pochi istanti vi accompagnerà ad amare il Rally un po’ come lo ama lui.

Non ho intervistato solo un fuoriclasse ma un amico, un uomo distinto ed umile che si vanta della sua sicilianità ma che nonostante gli innumerevoli successi è rimasto sempre con i piedi per terra.

 

Saia: Dopo aver partecipato a 360 gare in tutta Italia, in tutta Europa, dopo 180 vittorie assolute, dopo aver scritto delle splendide pagine di sport, io vorrei partire dal momento in cui tutto ebbe inizio, come e quando è nata in te la passione per il Rally?

Riolo: la mia passione nasce dal fatto che siamo nati e cresciuti in un territorio in cui insita è la targa Florio. Quando ero bambino davanti la mia abitazione transitavano queste macchine fantastiche, con colori strabilianti e rumori eccezionali, credo che ciò abbia contribuito a scatenare in me questa sconfinata passione per il mondo automobilistico. Sono nato nel 1965 e negli anni importanti della targa Florio ero solo un bambino, all’età di 12 anni ero il piccolino che rimaneva incollato al balcone per veder sfrecciare, una dietro l’altra, le auto da corsa. Questa passione la mettevo in pratica non appena patentato, all’età di 18 anni, con la mia prima vera gara; è lì che iniziavo a realizzare il mio sogno: quello di correre la targa Florio. La mia prima gara è stata da navigatore con accanto un grande e fraterno amico Pietro S., fu lui che mi condusse al debutto, perché debutto è stato! Da lì inizia una carriera fantastica, ed oggi dopo 30 anni di gare sono ancora qua ad emozionarmi rivivendo la mia prima gara, l’esatto momento in cui tutto ebbe inizio, l’istante in cui ho compreso che si accendeva in me una passione destinata a durare nel tempo.

Saia: Hai scritto delle straordinarie pagine dell’automobilismo, qual è l’emozione che provi ogni volta che gareggi in quelle strade che ti hanno visto crescere dal punto di vista professionale e che ti hanno regalato infinite emozioni?

Totò: Dopo 30 anni di gare, un po’ ci si abitua anche se correre in casa è sempre un emozione particolare, come si suol dire essere profeta in patria non è mai facile. Quest’anno per scelte del mio team legate agli sponsor abbiamo deciso di correre in pianta stabile nel campionato italiano Rally auto storiche, si tratta di un campionato molto seguito, una competizione con numeri importanti che si svolge in tutta Italia. La targa era la terza gara; siamo partiti con il Valli Aretine in Toscana competizione che mi ha condotto alla vittoria, la seconda è stata il Rally di Sanremo, in cui per un piccolo problema mi sono dovuto fermare e poi il targa che era la terza gara del campionato che ci ha permesso di portare a casa molti punti. In questo due cose si uniscono due cose importanti: passare in testa al campionato Rally auto storiche e vincere di nuovo la Targa. Devo ammettere che vincere la Targa Florio, gareggiando in casa, regala sempre emozioni uniche. Indescrivibile è l’orgoglio provato quando nel 2002 conquistavo la mia prima vittoria della Targa Florio: ero di fronte grandi nomi che hanno scritto pagine indimenticabili del Rally quali Andreucci, Basso e molti altri, quella vittoria ha rappresentato per me non un punto di arrivo ma di partenza perché comunque un siciliano che vinceva la Targa non accadeva dal 1975 quando il grande Vaccarella, trionfava nella targa Florio storica. Un siciliano dominava il podio della targa Florio, scusami il giro di parole: un siciliano, da privato che vinceva la Targa Florio, quel siciliano ero io e quella è stata una gioia indescrivibile.

Saia: Come è cambiato il mondo del Rally in questi anni?

Riolo: È cambiato tanto perché la Targa Florio di velocità non si può più praticare, per motivi di sicurezza la nostra federazione non concede più le autorizzazioni per attraversare i Paesi in gara. Oggi il mondo dell’automobilismo si è spostato dalla velocità ai rally che sono a tappe, prove speciali che vengono chiaramente chiusi al traffico e lì si corre mentre poi ci sono tutti i tratti di trasferimento dove devi chiaramente si devono rispettare i codici della strada. Come è strutturato oggi, il rally avvicina tantissima gente perché comunque nell’ideale collettivo il Motor Sport oltre la salita, oltre la pista è Rally; la targa si è aggiornata, si è dovuta aggiornare, per continuare ad essere la gara più famosa e più antica al mondo.

Saia: Noi di Betapress siamo molto vicini ai giovani e ad investire su di loro e su ciò che il nostro territorio può offrire, come volete investire voi facenti parte del mondo automobilistico nei confronti dei giovani.

Riolo: Il Motor Sport in generale è uno sport molto costoso, abbiamo moltissimi giovani che amano questo sport ma il problema di fondo sta nel fatto che non ci sono azienda che credono nel Motor Sport, o per lo meno ci sono ma sono molto poche, i giovani che si avvicinano allo sport hanno bisogno di sovvenzioni. Io come Totò Riolo ma soprattutto noi come Targa Racing Club che annovera 150 associati, prettamente piloti, nasce per promuovere il Motor sport nei ragazzi, attingiamo a loro dal mondo dei Kart e per poi condurli a debuttare nel mondo Rally. Il progetto che stiamo cercando di realizzare è quello di far nascere una scuola di pilotaggio, questo è un sogno che da tempo voglio realizzare. Sembra che finalmente i tempi siano maturi e se tutto andrà bene Targa Racing Club si occuperà innanzitutto della promozione del territorio, ed in questo volevo fare un piccolo appunto: ho corso in tutto il mondo ed ovunque mi sono trovato la gente mi chiedeva la mia provenienza, ho sempre risposto di essere Cerdese, bastava nominare Cerda per far scattare quasi automaticamente l’indiscusso connubio con la terra della Targa Florio. Quanto appena detto non può che riempire d’orgoglio un siciliano; sono stato il trade union di tutte le amministrazioni che si sono susseguite in questi ultimi 20 anni a Cerda, sono stato il beniamino della Regione Sicilia nel campionato europeo, dove avevo un contributo dalla Regione denominato “Sicilia tutto il resto in ombra”, per cui sono sempre stato punto di riferimento nella valorizzazione del territorio. Ritornando alla domanda iniziale, i giovani sono un mio progetto che stiamo cercando di realizzare, e poi parliamoci chiaramente non posso correre ancora per chissà quanti anni, sono ancora molto competitivo ma voglio dedicarmi anche ad altro e le nuove generazioni, tra cui mio figlio Ernesto, sono il mio obiettivo principale.

Saia: Le domande non in programma fanno parte del nostro lavoro e mi hai spianato la strada ad una domanda personale; hai menzionato Ernesto, tuo figlio, che segue le tue orme e dunque la mia domanda sorge spontanea, cosa si prova a gareggiare sapendo che il proprio figlio partecipa alla medesima gara?

Riolo: Abbiamo già fatto un paio di gare assieme, chiaramente il mio pensiero è sempre stato quello di chiedere a Gianfranco Rappa, il mio navigatore, notizie di Ernesto, diciamo che da padre non è facile, nonostante questo ciò Ernesto lo vedo abbastanza bene perché sta crescendo motoristicamente mettendo in ciò che fa impegno e dedizione, sono certo che farà la sua strada ed io lo seguirò ad ogni passo, augurandogli di poter ripercorrere i miei successi.

Saia: Cosa ti aspetti per il futuro?

Riolo: Mi aspetto che il nostro territorio e soprattutto noi siciliani potremo vantare ancora tanti successi, mi aspetto che i giovani abbiano il loro attimo di gloria così come a me è stato concesso e poi chiaramente voglio seguire Ernesto ad ogni suo passo. Devo aggiungere un grazie a delle persone speciali che fanno parte della mia vita, se oggi sono qui ed ho realizzato i miei sogni è grazie alla mia famiglia, a mia moglie e ai miei figli che mi hanno sostenuto e supportato in qualunque scelta e ad ogni gara, in particolare voglio dire grazie a mia moglie per essere stata al mio fianco e per avermi dato la possibilità di potermi muovere, senza lei sono certo che mai sarei arrivato dove sono.

 

Milena Saia

 

 

 

 

 

 




1937 1945: Buchenwald e la memoria.

Era l’11 aprile 1945 quando gli americani arrivarono nel campo di concentramento di Buchenwald.

Parecchi non sanno la storia di questa funesta distesa e dei drammi che si consumarono al suo interno, tra l’impassibilità di coloro che pur capendo si stringevano in un dedito silenzio.

Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio del 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.

Era il 16 luglio del 1937 quando un commando di circa 300 deportati, elevò, con attrezzi arcaici e limitati, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Goethe».

(Le SS lasciarono in piedi L’albero di Goethe sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Questo campo, eretto da mezzi primitivi, giunse a contenere un numero pari a 238.980 anime, esso fu uno tra i lager dove si eseguì principalmente lo sterminio tramite il lavoro.

Alcune fonti rimandano ad un numero complessivo di 43.045 vittime, secondo altre fonti furono invece 56.554 secondo altre, tra essi 11.000 erano ebrei. Poco importa oggi trovare l’esatta cifra da inserire negli annuali più tristi della storia, il massacro andava fermato non conteggiato.

Il campo fu dapprima istituito come luogo di prigione cautelativa e di punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi.  

Se nel luglio del 1937 al suo interno si contavano 149 persone, alla fine di quello stesso anno il numero crebbe in modo sproporzionato fino a raggiungere 2.651 vite limitate tra i fili spinati di quel campo. Per le cifre che doveva contenere non poteva che essere eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti.  

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali”, e ai testimoni di Geova, si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la Notte dei cristalli, Kristallnacht, altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale», e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Al momento della liberazione il 95% degli internati non erano tedeschi.

Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano, e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo. Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo.

Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti.

Era l’11 aprile del 1945 quando il campo veniva liberato al suo interno si contarono 16.000 internati, 4.000 erano ebrei e circa 1000 bambini.

Molte cifre numeriche sono state inserite in questo articolo e non è un caso, il mio intento era quello di dare attraverso quelle cifre un’idea dell’orrore che quotidianamente ed inarrestabilmente in quegli anni avveniva. 

L’olocausto è una delle pagine dell’Umanità da cui ma si deve togliere il segnalibro della memoria.

 




Aldo, una vita per 25 euro

Doniamo una voce a chi una non l’ha: Buon Natale a tutti gli  Aldo il Clochard!

 

Una Palermo rischiarata dagli addobbi di Natale, la gente che riempie i negozi in cerca di sorprese da mettere sotto l’albero per rendere felice i propri cari, folle che si radunano ai piedi di un teatro Massimo addobbato da una cascata di piante per immortalare l’attimo attraverso una foto; nessuno si ferma, è tutto un via vai alla costante ricerca di futili oggetti.

Accanto alle vetrine ai limiti della sussistenza c’è un’altra realtà, quella di chi per sopravvivere rovista nei cassonetti, quella di chi passa le notti al gelo con uno zaino contenete tutto il loro mondo, quella che noi non vediamo perché la nostra vita corre in fretta e non abbiamo tempo per volgere gli occhi verso chi accantonato in un angolo della strada sta lì con lo sguardo perso nel vuoto.

Uno dei tanti invisibili è Aid Abdellah, da tutti conosciuto come Aldo, il senzatetto di origini francesi trovato senza vita sotto i portici di piazzale Ungheria a Palermo.

Il suono della sua armonica allietava i passanti che a lui porgevano pochi spiccioli; nella sera di domenica il ricavato era di circa 25 Euro, questa è la somma che gli è costata la vita.

Aldo è stato ucciso perché un ragazzetto qualunque ha ben pensato di rubargli i suoi soldi.

Ai commercianti e alle signore che spesso si fermavano a parlare con lui, Aldo aveva confessato di temere le incursioni di bande di ragazzini che più volte avevano inveito contro gli invisibili della città, per questo motivo aveva scelto di dormire sotto l’occhio vigile di una telecamera, la stessa che ha ripreso i suoi ultimi istanti di vita e che ha portato alla cattura del suo assassino.

“L’ho colpito, ho preso i soldi. Erano solo 25 euro e sono andato via.

La spranga l’ho lasciata lì” queste le gelide parole utilizzate dal sedicenne per spiegare le motivazioni del suo folle gesto: solo 25 euro in cambio di una vita.

Accanto al clochard, fedele fino alla fine il suo gatto che ormai era diventato la sua sola famiglia, il suo dono più grande.

Probabilmente in molti si staranno domandando il perché di questo assurdo connubio tra lo Spirito natalizio e il clochard ucciso sotto i portici. Non sussiste alcuna corrispondenza se non un’esortazione.

Mentre la nostra vita continua in tutta fretta tra un pranzo di Natale, una cena di Capodanno e una miriade di regali (che forse mai adopereremo) volgiamo lo sguardo verso gli invisibili, anche solo un nostro gesto può cambiare le loro giornate: che sia una coperta usata che non vogliamo più, che sia del cibo od anche solo un sorriso.

In questo contesto non voglio riferirmi al sedicenne, alla sua nazionalità, oppure alle motivazioni per cui ha commesso questo inammissibile atto, non lo farò semplicemente perché chiunque esso sia e qualunque sia la sua scusa non potrà giustificare ciò che ha compiuto: alcuni la denominano “bravata di un ragazzino” io voglio menzionarla con il suo reale appellativo: omicidio.

In prossimità del giorno più felice dell’anno proviamo a guardare oltre, a sorridere di più, a tendere la mano a chi soffre, a fermarci per guardare chi ci sta intorno, perché sempre esisteranno i gesti efferati ma finché anche solo uno di coloro definiti “invisibili” sorriderà avremo portato con un piccolo gesto un po’ di luce nelle loro cupe giornate.

 




Europa: cronaca di una morte annunciata…

25 ANNI DOPO… LA NON EUROPA DI MAASTRICHT

Il primo novembre 1993 gli uffici della Commissione europea e delle altre istituzioni a Bruxelles erano quasi del tutto vuoti in occasione della rievocazione.

In quel giorno entrò in vigore il trattato di Maastricht e nacque l’Unione Europea così come oggi la conosciamo.

Il Trattato di Maastricht fu l’esposto che stabilì l’Unione Europea con il nome odierno e gran parte delle istituzioni comunitarie che conosciamo oggi.

Venticinque anni fa il mondo correva sull’onda dell’ottimismo dettato dalle promesse di una globalizzazione che sembrava voler spalancare agli europei le porte verso un futuro stabile e vigoroso.

Stando al flusso di questo rosea visione nulla avrebbe fatto presagire che in appena un ventennio l’euro sarebbe diventato il capo espiatorio del deterioramento economico della piccola e media borghesia che non può far altro se non imputare la classe dirigente di aver frantumato le promesse elargite negli anni ‘90.

Se il fuoco del Nazionalismo si alimenta sempre più gran parte delle accuse va mossa in prima istanza ai Governi, i quali in molte circostanze hanno dato dimostrazione di essere stati i primi a non aver creduto nel sogno comune di un’Europa unita, addossando a Bruxelles le responsabilità di qualsivoglia difficoltà interna.

Lungi dal pensiero odierno appare il vero obiettivo dei padri fondatori che senza dubbio tendevano ad aggregare e non certo a frantumare.

Unanime opinione popolare considera l’Europa che è nata a Maastricht legittimata sull’estromissione e suddivisa in un duplice schieramento che non ammette spettatori posti al centro tra le due fazioni mosse da reciproca avversione.

Da una parte i ricchi che non intendono perdere i loro privilegi e dall’altro capo i cittadini che quei privilegi li hanno solo ascoltati attraverso vane promesse e giammai sperimentati. Ambedue le fazioni mirano all’integrazione seppur dettata da dissimile giudizio: i ricchi guardano ad un’integrazione selettiva mentre i cittadini ad una di natura democratica.

Accentratore e devoto all’etica degli affari il pensiero dei ricchi europei, dinamica e strutturata su un’etica di responsabilità è l’Europa dei cittadini.

Mentre la prima corrente invoca il ricorso alle armi per difendere la sicurezza Nazionale e per la difesa dei loro interessi, la seconda fazione lotta contro il traffico di armi guardando la costruzione della pace europea fondata sulla riorganizzazione dell’industria bellica.

L’ Europa entusiasmata dall’ondata di ottimismo prevalsa nel 1993 prometteva al mondo prominenti livelli di occupazione, assicurava un miglioramento della qualità di vita, un considerevole grado di convergenza dei risultati economici, perfino un accordo tra gli stati membri.

Ciò che garantivano i padri fondatori oggi appare come un eco inciso negli annali, mai concretizzato e lascia spazio alla vera concezione di quell’Unione Europea che ha assunto connotati sempre più antidemocratici e si rivela più concentrata nelle trattative con Erdogan, un signore intento ad arrestare la libertà di stampa, che al confronto con chi in Europa ci vive e a giudicare dagli ultimi dati ci vive anche male.

Tra fazioni infervorate da differenti ideologie l’Europa di Maastricht è destinata a fallire miseramente a causa di problemi che la stessa non è in grado (o non vuole) di risolvere, lo scenario a cui oggi assistiamo ci prospetta un’Europa lontana dai pacifismi prospettati in epoca ormai remota, è un’Europa inanimata e gli euro-scettici già brandiscono voti in Europa proprio a sfavore dell’Europa.




Fuga per la vittoria … ?

Fuga dall’Italia, l’enigma del Nuovo Millennio: Restare o andar via…

 

Talmente tante parole sono state sprecate sulla disoccupazione da farla divenire un luogo comune, il male dei nostri giorni, l’incubo di migliaia di giovani, i quali ancor prima di aver concluso gli studi progettano il loro futuro fuori dalla Nazione di appartenenza, alla ricerca di una felicità che la loro terra non è in grado di garantire.

È interessante notare come la quota dei giovani accademici pronta a fare la valigie e andar via, oggi, sia pari al 49 per cento: era il 38 per cento nel 2006.

Un laureato su tre non ha problemi a trasferirsi in un altro continente, uno su quattro accetta spostamenti frequenti. Il 52 per cento si dice disponibile a trasferire anche la residenza.

Solo il 3 per cento dei laureati analizzati, quota di residuo si percepisce, è contrario a qualsiasi tipo di trasferimento.

Quasi fosse un rituale, non trascorre giorno in cui il politico di turno, poco importa se sia una faccia molto o poco conosciuta, deprechi espressioni relative l’alto tasso di disoccupazione in cui siamo intagliati, naturalmente la frase si conclude con la relativa promessa di un piano da attuare con estrema immediatezza per sconfiggerlo.

Tra una promessa e l’altra intanto le Università continuano inesorabilmente a sfornare due tipologie di laureati: di massa e d’ élite.

Mentre i laureati di massa sono destinati a diventare futuri concorrenti di concorsi pubblici, spinti ad accettare mansioni poco soddisfacenti e per di più insufficientemente ricompensati, i laureati d’ élite, per mezzo di astuti metodi imprenditoriali, verranno presi in prestito da chi realmente si intende di “fenomeni” per essere inseriti negli alti piani della ricerca e retribuiti come è giusto che sia.

Ci si domanda a questo punto, cosa sarebbe accaduto se gli alti vertici d’oltreoceano non avessero effettuato le loro pratiche manageriali, ma credo che la risposta sia implicita al quesito posto: si sarebbe annoverato un altro numero tra i molteplici già compresi nell’immenso registro dei disoccupati, perché in Italia non c’è spazio per i cervelli.

Diffusa sembra essere l’idea di come la disoccupazione sia inscindibilmente connessa al nuovo millennio; in realtà la storia smentisce questa popolare correlazione.

Da sempre sono esistiti i disoccupati, già dalla prima metà del secolo i poveri meridionali guardavano agli Stati Uniti come unica fonte di realizzazione dei loro sogni: “andiamo in America, facciamo fortuna”.

Che poi la fortuna sia concretamente giunta è un altro discorso.

È innegabile che, tanto nel passato quanto nel presente, di un male difficilmente sanabile si tratti, ma io continuo ad avere l’impressione che coloro i quali ne parlano non sempre sappiano di cosa stanno parlando, quasi come a voler dire: “è sulla bocca di tutti, allora ne parlo anch’io”.

Quasi come uno slogan viene sponsorizzato da chi ha un particolare interesse a farlo proprio, magari per un certo tempo assedia i dicasteri per poi tornare ad essere un male incurabile di cui puntualmente nessuno si assume gli errori.

Tra disastri, errori ed orrori qualcuno ha il coraggio di affermare che: “va via solo chi vuole andar via… in fin dei conti in Italia non lavora solo chi non vuole ma il lavoro c’è”.

Inutile cercare di rispondere ad impronunciabili blasfemie… e forse si, il tasso di chi decide di andar via sarà sempre maggiore ma imbattibile resterà l’indice di coloro i quali pur potendo cambiare le sorti continuano ad innalzare i loro slogan noncuranti del male che arrecano a chi costretto deve lasciar tutto, abbandonare la terra natia, gli affetti, le certezze imprimendo nel cuore la sofferente illusione che forse un giorno in patria ritornerà… perché forse un giorno qualcuno armato di voglia di fare non pronuncerà ma attuerà il tanto invocato cambiamento.

 




Frida: l’amore sopra tutto.

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderon, meglio conosciuta come Frida Kahlo è una delle pittrici più famose al mondo.
La vita tormentata, la sofferenza, il coraggio di non abbattersi di fronte alle ingiustizie, hanno fatto di Frida un modello di ispirazione che ancora ai nostri giorni desta un successo non indifferente.
La solitudine fu sua compagna e l’arte l’unica finestra sul mondo, fu in grado di non passare alla storia con l’etichetta dell’artista disabile quanto piuttosto della pittrice in grado di riprodurre attraverso i dipinti la sua interiorità; i suoi scritti rappresentano un inno alla vita, un messaggio di speranza, quasi fosse un grido che invoca a non mollare anche quando tutto attorno sembra perduto.
Migliaia di pagine sono state dedicate alla paradigmatica pittrice e all’osservazione di ogni fase della sua vita, ma spesso demarcata resta l’attenzione posta su Diego Rivera.
Ho avuto due grandi incidenti nella mia vita. Il primo fu quando un tram mi mise al tappeto, l’altro fu Diego”, così esordiva Frida Kahlo quando raccontava del suo più grande amore.
La loro storia è passata agli annali sia per l’intensità di questo rapporto che per le stravaganze.
Frida e Diego convolarono a nozze per due volte; pur consapevole di avere accanto un uomo che mai sarebbe stato completamente suo, nel 1929 decise di sposarlo.
Il loro rapporto fu vessato dai tradimenti a causa dei quali, appena dieci anni dopo la loro unione, la Kalho lo lasciò dopo aver scoperto l’ennesima infedeltà (Diego l’aveva tradita con la sorella Cristina).
Diego fece ritorno da Frida un anno dopo: disse che malgrado i tradimenti non aveva mai smesso di amarla, le fece una nuova proposta di matrimonio e lei accettò.
Senza dubbio il loro fu un’amore a prima vista, la stessa pittrice a lui dedicava gran parte delle sue poesie “È lecito inventare verbi nuovi? Voglio regalartene uno: «io ti cielo», così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini.”
È stata la storia più tormentata dell’arte caratterizzata da battaglie, liti che fanno scappare e ti amo che fanno ritornare laddove si è lasciata l’anima.
La vita di Frida è stata breve ma intensa e seppur crudele sotto tanti punti di vista la grandezza della sua arte, la capacità di amare senza limiti ha sovrastato qualsiasi pregiudizio e qualunque etichetta, riuscendo a trasformare la sua sofferenza in arte, il suo coraggio in esempio; come quando prese consapevolezza di dover andare e affidò il suo ultimo pensiero al suo diario:
“spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai più”.