Perché l’integrazione è ancora solo un riempitivo nelle bocche dei politici

E’ inutile girarci intorno: la scuola italiana non è preparata ad accogliere i ragazzi stranieri.

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Ormai da diverso tempo numerosi ragazzi , provenienti da vari paesi, vengono gettati nelle classi in base alla propria età anagrafica, senza nemmeno tentare di capire chi sono, cosa hanno fatto fino a quel momento.

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Abbandonati al buon cuore degli insegnanti, dei dirigenti, di chi tenta di occuparsi di loro, sfruttando le poche risorse che il ministero concede.

E allora che si fa? Immaginatevi per un attimo nei panni di uno di questi ragazzi, diciamo un africano, magari senegalese, che magari non ha frequentato altro che la scuola coranica, dove si impara a scrivere e leggere l’arabo e poco altro.

Immaginatevi di arrivare in una città che non è la vostra, dove si parla una lingua che non è la vostra, in mezzo a ragazzi che non vi capiscono e che non capite.

Immaginatevi di dover stare seduti ad ascoltare una lingua che non comprendete, materie che non capite per 5/6 ore ogni mattina dal lunedì al sabato.

Immaginate che il docente vi rivolga la parola, vi chieda di scrivere e voi non ne siete capaci, immaginate che vi trattino con disprezzo perché non capite quello che vi viene detto, oppure che vi diano pagine da leggere, ma voi non sapete leggere quei segni grafici così diversi da quelli che siete abituati a decodificare. 

Immaginatevi tutto questo e chiedetevi: è giusto?

No non lo è, per loro, per noi.

Solo il governo Letta si è occupato un po’ di questo aspetto, che però è un fenomeno in crescita, verso il quale dobbiamo focalizzare il nostro sguardo.

Non possiamo affidarci al buon cuore di qualche insegnante che, nelle ore buche, nelle ore di sostegno, aiuta questi ragazzi a progredire, neppure possiamo aspettarci che , dirigenti illuminati, mettano a disposizione le risorse scarse che hanno per colmare le lacune di un ministero che guarda oltre e mai in profondità.

Dobbiamo seriamente riflettere sulle opportunità da offrire a questi ragazzi, che hanno bisogno in primis di apprendere la nostra lingua per poter socializzare con gli altri e imparare qualcosa della nostra civiltà.

Invece per il nostro ministero essi sono pari a studenti italiofoni e come tali devono affrontare ad esempio le prove invalsi, il tema di italiano, lo scritto di matematica.

E’ giusto? No non lo è.

Arrivano in fondo alle medie?

Di solito si perché i docenti si spendono perché possano conseguire il titolo. 

Che fine fanno dopo?

Dato che l’obbligo scolastico è sino ai 16 anni, bivaccano abbandonati in qualche scuola professionale, fino al compimento dei 16 anni, poi non so, ma temo che spendano male la loro vita.

Certo non sono tutti così, qualcuno, dotato di grande e pronta intelligenza, con molta voglia di fare, con genitori che comprendono la necessità dell’istruzione, riesce, nonostante l’oblio del ministero, a farsi strada a recuperare almeno in parte i fondamenti dell’istruzione, ma sono pochi e rari.

La maggior parte si trova a disagio, un disagio che viene alimentato talvolta purtroppo anche dalla scuola, dai compagni, dai docenti, e poi si perde…

E’ chiaro che questi ragazzi di 12, 13 anni non possono essere inseriti in una classe di prima elementare, dove potrebbero apprendere la scrittura, l’aritmetica, ma si dovrebbe cominciare a pensare a un tempo scuola articolato in modo diverso, fatto di molte ore di lingua italiana e matematica e qualche ora di socializzazione in classe  magari durante materie più pratiche, come scienze motorie o musica.

Si dovrebbe pensare ad accogliere questi ragazzi e dare loro una vera opportunità di integrazione, perché non possiamo continuare a girarci dall’altra parte e sperare che qualcosa arrivi, che qualcosa cambi.

 

Paola Delibra

Cronista Freelance




Sos ….tegno cercasi

Primo giorno di scuola: mancano i docenti di sostegno, mancano a dire il vero anche altri docenti, ma di questi si sente maggiormente la mancanza, perché i casi sono tanti e i docenti curricolari sono costretti, loro malgrado, ad occuparsi personalmente dei propri allievi 104.

Ma cosa è successo? Perché non ci sono docenti di sostegno? La risposta sta nelle priorità che il ministero si da, infatti da qualche anno le cattedre di sostegno sono convocate in coda a tutti, cioè per chi non è dentro la scuola, prima vengono convocate dalle graduatorie del provveditorato tutte le materie ( italiano, matematica…) per ultimo il sostegno.

Ciò è a dimostrazione che il sostegno è  considerato, almeno da qualche tempo a questa parte, quasi superfluo e comunque ininfluente. Peccato però che quando il docente di sostegno non c’è tutti si lamentano, corrono a cercare bidelli, colleghi e quant’altro per occuparsi di questo o quel bambino un po’ vivace, un po’ 104.

E i bambini 104 si moltiplicano, ce ne sono molti, ormai quasi due per classe, spesso con problemi gravi di comportamento, con disturbi dell’attenzione, con ritardi mentali e autismo.

Allora perché lo stato non è così lungimirante da capire che il sostegno oggi sarebbe necessario per tutto il tempo scolastico e non per qualche ora della settimana?

Nelle scuole secondarie di primo grado è indubbiamente diventato una necessità imprescindibile, perché oltre ai nostri bambini 104 ci sono tanti ragazzi con difficoltà di comportamento e di attenzione non certificati, per i quali non c’è niente e nessuno, che spesso sono abbandonati e concludono malamente il proprio percorso scolastico.

Questo è lo specchio dei tempi moderni, nei quali la scuola è un’azienda e chi non è perfettamente funzionante come una macchina della catena di montaggio, viene scartato e lasciato indietro.

In questo modo però si sta sottovalutando il problema che esploderà con tutta la sua forza; presto o tardi ci si accorgerà che non è mai bene disinvestire nella scuola perché è lì che si forma la società e da lì partirà il nostro futuro.. vogliamo veramente che sia questo?




Il docente invisibile

Leggo sui siti dedicata alla scuola che vi è una proposta del Ministero della Pubblica Istruzione per limitare i passaggi a cattedra dei docenti di sostegno, che sono pochi e tendono, dopo i 5 anni di obbligatorietà, a  ritornare su cattedra e per questo sono disposti a lasciare sedi “comode” e conosciute per sedi magari lontane o in montagna con conseguente disagio.

Il Ministero, come sempre, risponde con divieti e norme volte a penalizzare i docenti, invece di chiedersi come risolvere il problema alla fonte.

Perché i docenti di sostegno decidono di tornare in cattedra?

La risposta è abbastanza semplice: perché non sono considerati docenti, né dai colleghi, che li vedono come degli scansafatiche, privilegiati, perché” non hanno le classi”, “non fanno niente”, “ hanno pochi alunni” , “ non sarebbero in grado di insegnare”, e dai genitori degli alunni della classe come “quelli incapaci di insegnare, perciò puniti  con questo ruolo”.

IL docente di sostegno è in realtà docente pluri specializzato, poiché ha almeno due specializzazioni, talvolta anche più di due; è un docente della classe che deve favorire l’integrazione dell’alunno disabile, ma non è un precettore privato per un solo ragazzino; il docente di sostegno è una risorsa, poiché è chiamato a provare e trovare altre strategie per insegnare contenuti complessi.

Tutto questo è un docente di sostegno, ma molto spesso non si sente così, sente di aver perso qualcosa, di non avere un ruolo definito e si trova a fronteggiare da solo situazioni complesse, che non sono prese in carico dagli altri docenti, ma solo da lui, perché non viene consultato talvolta neppure per quanto riguarda il “suo alunno”, perché sente di non avere un ruolo definito, di non godere della stima degli altri professori, di essere in altre parole invisibile, se non addirittura il capro espiatorio del gruppo docente.

Quale potrebbe dunque essere la soluzione? Poiché no ho fiducia che cambi la percezione sociale del ruolo docente, tanto meno di quello di sostegno, ritengo che sarebbe utile intanto , come alcuni dirigenti illuminati hanno già pensato e fanno, fare in modo che i docenti di sostegno siano chiamati a tenere lezioni su argomenti , ovviamente della propria materia, alla classe nella quale esercitano, in modo che i ragazzi possano percepire il docente di sostegno come un docente effettivo e i colleghi possano confrontarsi nel proprio modo di insegnare con altre strategie  e metodi; ovviamente ciò dovrebbe essere imposto dall’alto, poiché i docenti sono spesso gelosi della propria classe e refrattari a ogni confronto costruttivo ( generalizzando, si intende, poiché esistono molti insegnanti disposti al cambiamento e alla autocritica).

Ne lungo periodo suggerirei al Ministero di operare in modo che ogni docente debba fornire una parte di orario da dedicare al sostegno, in altre parole, che, per ogni insegnante curricolare, almeno una porzione di orario ( 4 /5 ore settimanali) sia dedicata ai ragazzi diversamente abili, in modo che imparino a conoscerli, a comprenderne le difficoltà e a capire quali strategie utilizzare.

Ovviamente ciò non sarà e quindi diaspora sia !!

 

Paola Delibra

 




PROFESSIONE DOCENTE: MISSION IMPOSSIBLE!

La professione del docente non è cosa da tutti, ma è percepita come se lo fosse.

L’altro giorno una mia collega giovanissima mi ha detto che non intendeva partecipare ai consigli di classe perché ha un altro lavoro ed è a scuola per una supplenza, che spera comunque breve, ma intanto qualcosa si guadagna.

Il professore è quindi un mestiere ricettacolo, nel quale ognuno, proveniente da esperienze diversissime, ma in possesso di una laurea in una qualche materia, si sente capace di cimentarsi.

Nessuno però dice che il mestiere dell’insegnante è faticoso, forse perché la vulgata è che i professori non facciano niente, scaldino i banchi, siano insoddisfatti e rancorosi e godano di ferie infinite, insomma che non guadagnino la pagnotta.

Eppure ai colloqui raccogliamo genitori in lacrime, che chiedono consulenze sulla gestione dei figli, perché questi ultimi trovano nella scuola, nei docenti e nei compagni un punto di riferimento, ascoltiamo lamentele, pettegolezzi, reprimende, perché il genitore ha necessità di comunicarti tutto ciò che concerne il figlio, fin nei minimi particolari.

Quindi dobbiamo essere un po’ psicologi? Si anche.

Ma non è finita, perché al varco ci aspetta la burocrazia, con quantità enormi di documenti da compilare, PDP, PEI, Programmazioni per competenze, programmazioni di classe e infine la vera parte didattica che comprende il saper veicolare la materia nel modo più comprensibile possibile, perché in classe abbiamo mediamente due o più stranieri appena arrivati, qualche ragazzo con disturbi dell’apprendimento, qualche ragazzo che non riesce proprio a concentrarsi e allora ci dobbiamo anche improvvisare attori.

Le verifiche? Devono essere oggettive , inattaccabili con punteggio chiaro e definito, scritte e stampate con carattere leggibile, ma soprattutto diverse, per i ragazzi stranieri, per quelli con difficoltà di apprendimento, che sono diverse tra loro, insomma da una verifica ne spuntano magicamente 8 o 9 diverse.

Estenuanti collegi docenti nei quali si deve decidere tutto perché tutto deve essere rintracciabile e sancito dal collegio: progetti, iniziative, attività; poi il lavoro che riguarda l’organizzazione delle uscite didattiche, delle gite scolastiche, le riunioni per materia, la correzione delle verifiche e qui mi fermo per pietà.

Una però è la cosa tra tutte che rende questo mestiere non accessibile a tutti indiscriminatamente: il cuore, perché ci vuole cuore per capire che questi ragazzi hanno bisogno di noi per crescere e imparare, ci vuole cuore per avere pazienza e passione e equilibrio.

 

Paola Delibra