SCOTT STAPP: The Space Between the Shadows

 

Non credo si possa coscientemente dire che oggi il Rock sia ancora del tutto vivo e vegeto, soprattutto quello degli anni ’90 legato a sonorità in netto contrasto con quelle del decennio precedente ma con una potenza di suono ed una lucidità di idee che ha portato band come BLACK STONE CHERRY (vedasi Betapress Music novembre 2018), NICKELBACK, ALTER BRIDGE e CREED a rivoluzionare la scena musicale alternative.

E non credo sia nemmeno possibile, facendo un breve tour tra le emittenti radiofoniche nazionali e locali, comprendere a fondo il motivo che spinge gli ascoltatori ad impantanarsi con (sedicenti) artisti che sono tra le cose più lontane dall’arte musicale.

L’Auto-Tune (Software per manipolazione audio che permette di correggere l’intonazione o mascherare errori ed imperfezioni della voce; n.d.a.) imperversa sovrano e la discografia non è in grado di proporre artisti giovani e creativi che possano “tenere viva la fiammella” del Blues, del Rock e del Pop, ma non voglio dilungarmi troppo in questioni oramai note.

Scott Stapp, ex leader dei CREED, è un esempio luminoso di come un artista possa continuare a ribadire come il Rock sia vivo, rifiutando di chinarsi ai dettami degli standard del mercato discografico.

The Space Between the Shadows è il terzo album solista di Stapp che si è rilanciato dopo due lavori opachi: The Great Divide e Proof of Life (quest’ultimo, a dire il vero, contiene un ottimo pezzo autobiografico: Slow Suicide; n.d.a.).

Ad aprire le danze World I Used To Know, che fa ben sperare i fans di Stapp (tra cui il sottoscrittto; n.d.a.), la successiva traccia Name e la traccia conclusiva Last Hallelujah sono due ballate potenti, due canzoni che si cantano a squarciagola con una buona dose di brividi. “I am a son without a father”è il refrain martellante di Name, quasi a richiamare l’attenzione sulla nuova vita artistica di Scott.

Immediatezza anche per il singolo Purpose For Pain con riff accattivanti, il groove incalzante rende assai difficile a questo punto dell’album non desiderare di poter vedere Stapp dal vivo.

La voce di Stapp rimane una sorpresa positiva, sembra non sia passato un giorno dai tempi di My Own Prison, Human Clay e Weathered (album dei CREED rispettivamente del 1997, 1999 e 2001; n.d.a.) ed il livello dei testi è assolutamente alto, degno di un grandissimo poeta.

Tornando a The Space Between the Shadows, le tracks Survivor, Red Clouds e Gone Too Soon sono pezzi assolutamente convincenti e qualora ci fossero ancora dei dubbi sulla qualità dell’album, Mary’s Crying li fuga tutti.

Le rimanenti song (Heaven In Me, Wake Up Call Inside, Face Of The Sun Side e Ready To Love) sono pienamente inserite nel lavoro di Stapp, con sonorità e melodie studiate a tavolino che ammiccano ai fans della “Post Grunge Generation”.

Concludendo vi posso dire che Stapp è finalmente tornato e con The Space Between the Shadows ha posto un solido paletto tra lui ed i suoi detrattori (quasi sempre adoratori di Myles Kennedy degli ALTER BRIDGE; n.d.a) e fa ben presagire per il futuro di questo artista, a cui tutto si può rimproverare ma non di aver trascurato l’amore per i fans ed il vero puro e glorioso Rock‘n’Roll!

 

Tracklist dell’album

  1. World I Used To Know
  2. Name
  3. Purpose For Pain
  4. Heaven In Me
  5. Survivor
  6. Wake Up Call Side
  7. Face Of The Sun Side
  8. Red Clouds
  9. Gone Too Soon
  10. Ready To Love
  11. Mary’s Crying
  12. Last Hallelujah

 

https://www.youtube.com/watch?v=wDRQXrRtE5M

 

Perth

 




UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 

Marghera (Venezia), mercoledì 31 luglio 2019 ore 18.30, Skardy mi indica il Bar accanto al palazzo del Municipio.

Ci sediamo in un tavolino nel dehor… “un the caldo, grassie” ordina alla cameriera.

Inizia così la lunga intervista con una delle leggende della musica italiana, anzi, venessiana.

L’ultima volta che ebbi la fortuna di bere un drink con Skardy era il lontano 1994 quando io, giovane universitario, mi dilettavo nell’organizzazione di concerti e di eventi live.

All’epoca la musica era veramente “da piazza” e quell’estate ricordo che Prato della Valle a Padova era gremita di persone.

Il lettore perdoni frasi e battute in dialetto veneto che indicano la genuinità di Skardy e che permettono una comunicazione più diretta.

PERTH: Ti ho richiesto questa intervista perché innanzitutto è un onore poterti rivedere dopo più di vent’anni e soprattutto perché, come pochi altri artisti, ti ritengo, un vero e proprio punto di riferimento nella scena musicale italiana, mi riferisco alla vera arte e libera creatività, oggi invece è come se la gente fosse drogata dalla falsità di proposte musicali costruite a tavolino, una grande mercificazione di talenti usa e getta. Puoi dire ai lettori di Betapress.it cosa ne pensi?

SKARDY: Fondamentalmente credo che il mondo dell’arte e dello spettacolo sia gestito in modo ignobile, la musica è degradata da una certa politica non solo a livello locale ma “dirìa a livèo mondial”, e non conoscendola fino in fondo l’arte, il potere riduce tutto a “fumo, lustrisini, pajette ma poca sostansa”, ecco, questo è quello che penso.

PERTH: Il Veneto è una Regione magnifica, ma a volte l’opinione pubblica, fomentata da una certa politica, mostra il popolo veneto come persone legate al denaro e ai propri interessi da difendere con la spada. Come la musica che tu hai proposto in tutta la tua carriera ha mostrato invece il vero spirito veneto?

SKARDY: Il genere umano sta dimenticando la propria umanità per correre dietro al mito della ricchezza e del lusso, perché di questo si tratta, non si tratta del benessere! Il Veneto, come l’Italia, è un Paese che ha conosciuto il benessere e l’ha gettato via nella speranza di ottenere qualcosa in più. Cosa si è ottenuto distruggendo un intero sistema sociale che, pur con tutti i suoi peccati e limiti era alla base dell’armonia tra le persone? Si è ottenuto un cambio di potere, si è insediato un sistema cannibale sia dal punto di vista economico che sociale: le categorie dei più ricchi si mangiano quelle dei più poveri e di conseguenza abbiamo un mondo che, anche senza essere in guerra fisica, però è in una sorta di guerra tra individui e tra popolazioni. Prova a pensare all’ostilità che c’è adesso non solo tra le Regioni del nostro Paese ma nei confronti di popolazioni di altre etnie, trent’anni fa questo discorso non stava in piedi, anzi chi veniva da altre parti del mondo veniva considerato come un’opportunità e una ricchezza da cui trarre vantaggio. La mia musica, declinata in dialetto veneto, ha sempre tentato di comunicare con ironia questa denuncia contro la diseguaglianza sociale. Sicuramente lo spirito veneziano mi è rimasto e cerco ancora di trasmetterlo perché vedo che sta perdendosi nella storia, quando io giro per Venezia sento la gente che non è più la stessa gente che io ho conosciuto quando ero ragazzino o bambino addirittura. Il veneziano che conoscevo io era un veneziano che nell’esprimersi era una barzelletta, era una persona che trasmetteva talmente tanti modi di dire e talmente tanto umorismo che ti segnava. Al giorno d’oggi la gente parla in maniera quasi “da ufficio”, le barzellette da bar sono morte da 20 anni, vuol dire che lo spirito umano, originario, non solo quello veneziano, ma proprio lo spirito umano ha avuto dei danni, come ha avuto dei danni questo pianeta per opera dell’uomo e l’opera dell’uomo ha prodotto dei danni anche all’uomo stesso.

PERTH: Incontri molti giovani, sia al lavoro (Skardy lavora come “bideo” in una scuola di Venezia; n.d.a.) che ai tuoi concerti, cosa chiedono alla musica i giovani? Solo divertirsi oppure c’è dell’altro, secondo te?

SKARDY: Il mondo dei giovani è molto variegato, ci sono figli di generazioni che hanno avuto educazioni musicali diverse, i figli dei rockettari hanno ancora una certa predisposizione ad ascoltare la musica prodotta da musicisti e strumenti “manuali”, chi è cresciuto senza una cultura musicale, una cultura alla “bellezza artistica”, con genitori interessati a discoteche o ambienti in cui la musica elettronica, ha sostituito il vero sound, è più ricettivo ai suoni sintetici e quindi a quella musica che io chiamo “musica chimica”, prodotta dal computer. La maggior parte dei ragazzi di oggi ascolta ed è più attratta dalla musica chimica che dalla musica suonata, questo è grave perché, per quanto sia prodotta bene e per quanto ci voglia bravura a produrla, la musica cosiddetta “chimica” non avrà mai lo stesso effetto di uno strumento naturale. (Rimango sempre impressionato da questo refrain che peraltro i lettori di Music conoscono molto bene. Tutti gli artisti veri e Skardy è uno di questi, hanno a cuore la musica vera, non il prodotto di un potere che annulla le coscienze propinando una musica “usa e getta”, una musica “chimica”; n.d.a.)

PERTH: La “musica chimica”, come la definisci tu, può essere definita arte?

SKARDY: Per quanto sia perfetta la musica chimica trasmetterà sempre freddo, non come la musica suonata, la musica che ha bisogno di musicisti capaci! Io cerco sempre di fare quest esempio: sappiamo tutti quanto è buona la pizza cotta nel forno a legna, se tu mangi la pizza preconfezionata è ugualmente buona, ma non come la pizza cotta nel forno a legna. E quindi la musica elettronica la musica “chimica” sta alla pizza surgelata, come la musica suonata sta alla pizza originale. Faccio un esempio sconcio: “el vibrator xè sempre duro, ma il casso xè de carne” (Qualche amico veneto direbbe: “pura poesia”; n.d.a.). Nel senso che la musica elettronica “gà el so spessor ma no gà el caòr che gà ea musica sonada”. Al giorno d’oggi ben pochi ragazzini recepiscono questa differenza, forse se ne renderanno conto quando avranno 40 anni e capiranno cosa può essere definita arte. Io verso i 40/50 anni ho iniziato a recepire questa differenza, molto pesante, tra la musica costruita negli ultimi vent’anni e quella che c‘era prima, che magari suonava peggio ma dava più calore. Una sera ero in auto di ritorno da un concerto con Elio, ascoltavo la radio e sento un brano di un trapper di oggi e mi dicevo: non mi piace ma senti che potenza di suono, cambia il brano e parte “Smells Like Teen Spirit” de Nirvana, che nemmeno mi piacciono tanto, eppure ho sentito subito che il sangue ribolliva… ho ripensato ancora una volta all’importanza della musica suonata.

PERTH: La tua storia artistica è molto lunga e piena zeppa di collaborazioni importanti con cui hai condiviso la tua musica “made in veneto”, ci racconti qualche aneddoto? Non so Elio e le Storie Tese, piuttosto che Paolo Belli

SKARDY: Con Elio e le Storie Tese ho fatto le ultime (e definitive, due anni fa; n.d.a.) quattro date. Penso che con la fine del loro gruppo sia finito l’ultimo dei veri grandi gruppi italiani, dei veri e propri “maestri”. Se li guardi tutti, uno per uno, sono grandissimi musicisti, gli ultimi, mi vien da dire, perché se si pensa ai musicisti di adesso per prima cosa non militano in band poi sono tutti cantanti con il DJ che sintetizza e masterizza dietro alla voce ed infine ci sono i musicisti che fanno i turnisti e che suonano di tutto e con tutti. E’ un disastro. Dal Rock &Roll agli anni ’90 c’è stato fermento, oggi la musica è un disastro. Elio inoltre ci ha insegnato soprattutto come si realizzano i dischi e come ci si rapporta con il mondo discografico, anche se gli aneddoti più curiosi risalgono ai tempi in cui i Pitura Freska neanche esistevano, perché andavo a “imbragarme zente che jera parechio in alto” nel senso ad esempio che siamo andati a battere sulla macchina di Jimmy Cliff (famoso cantante reggae giamaicano; n.d.a): c’era Jimmy seduto in auto che si allenava con i bonghi e noi siamo andati lì a battergli sulla macchina, a suonare con lui…a rompere i coglioni alla gente famosa. Inoltre mi piace ricordare personaggi che avevano una certa autorevolezza artistica e che per primi ci dicevano “guarda che quello che state facendo è bello, ha un valore!” Mentre il resto della “plebaglia” disprezzava quello che facevamo, c’erano persone tra cui pittori, scrittori, anche docenti universitari, professionisti del mondo dello spettacolo che ci dicevano: “Beo! Bravi! Continué!” anche se il resto del mondo, soprattutto la critica musicale, ci considerava sotto il livello… animale. Questa è una questione importante: quando cerchi di portare un gruppo o un cantante alla ribalta la prima cosa che ti arriva sono le bastonate, nessuno viene a domandarti: “Cossa ti xè drio fàr, fame scoltàr”, no, invece ti dice “sta roba ea fa schifo!” La gente all’inizio non accetta la novità.

PERTH: Però avete avuto parecchio successo!

SKARDY: Certo! Ma ce lo siamo conquistato sulla strada, non facendoci aiutare dalle Major o da grandi produttori, siamo stati attaccati anche dalla parte più povera della popolazione, che ci dava dei “venduti” pensando che fossimo oramai in mano alla discografia che conta. Invece no, siamo sempre rimasti indipendenti e siamo andati avanti per la nostra strada.

PERTH: Quale è stato il momento esatto in cui ti è stato chiaro che da Marghera avresti potuto calcare i palchi di tutta l’Italia?

SKARDY: A San Siro quando ho visto Bob Marley (the King of Reggae; n.d.a.), quando mi è venuta in mente questa equazione, che è stata semplicissima, fulminea e geniale. Mi ricordavo un po’ l’inglese, avendolo studiato alle scuole medie, avevo 20 anni, ero a San Siro a vedere un concerto di Bob Marley, quando mi sono reso conto che parlavano l’inglese allo stesso modo in cui noi veneziani parliamo italiano, ho pensato: questo genere musicale è perfetto se ci canto sopra in veneziano e lì è iniziato tutto. Chiaro che mi ci è voluto del tempo per imparare a scrivere, per modulare i testi a seconda della musica, però se ti piace ti viene automatico e quando sono riuscito a scrivere due, tre canzoni e le ho fatto ascoltare ad alcuni amici con cui suonavamo assieme, mi hanno detto “però… potrebbe funzionare!” Avevamo una sala in cui provavamo, con il bassista abbiamo iniziato a istruire un gruppetto, siamo riusciti ad esordire qui davanti in questa piazza (Piazza del Municipio di Marghera; n.d.a.) nella rassegna “Marghera estate” del 1985. E da lì è iniziato tutto, perché quando hanno visto che nelle piazze attiravamo un buon numero di ascoltatori, iniziavano a chiamarci in tutti i locali e dove andavamo facevamo il “pienone”. Nel 1987 siamo tornati qui in piazza a Marghera i bar quella sera hanno esaurito tutte le riserve alcoliche (ride).

PERTH: A Padova nel ’94 avete fatto 20.000 persone, ricordo che c’era il Comune molto preoccupato per la sicurezza. Mi hai già risposto per la gran parte, comunque cos’è la via di San siro nella quale sei stato illuminato un po’ come Joliet Jake Blues, alias John Belushi, nel glorioso film Blues Brothers? Forse quando ti sei imbattuto con il Re del Reggae?

SKARDY: Sì infatti, io avevo già preso una bella “spettenada” l’anno prima quando mi hanno invitato a vedere Peter Tosh (altra leggenda del Reggae giamaicano; n.d.a.) che non conoscevo. All’epoca il reggae non mi piaceva, ascoltavo Led Zeppelin, Deep Purple, Santana, Pink Floyd. Alcuni amici mi convinsero ad andare al concerto di Marley a Bologna, era il 1979. La Band si è presentata sul palco con 15 elementi, una mini orchestra. Mi è piaciuto! Era un misto tra un concerto di Santana, un concerto di Funky, un concerto di Rock, non capivo bene cosa fosse, però mi piaceva. La Band “pestava”, aveva un groove pazzesco, tremendo. Sono uscito contento e mi sono ricreduto sul Reggae, suonato così mi piaceva molto. Stessa cosa per il concerto di Bob Marley! Prima del concerto si esibirono dei gruppi che non ebbero grande successo (si beccarono “ortaggi” in faccia), la terza band fu quella di un tale di nome…Pino Daniele! Anche lui prese solamente qualche applauso ma quando uscì Bob Marley esplose lo stadio. Cos’è che mi ha fatto andare fuori di testa? Che rispetto ad altri concerti a cui ero stato qui la gente non era seduta al suo posto in posizione yoga a guardare un palco, qui la gente ballava, saltava, si muoveva, è diverso, capisci? Se io sono seduto qui e vedo a 20/30 metri una “fìa che me piase” difficilmente mi alzo e vado a sedermi vicino a lei, ma se sono in piedi e sto ballando, posso avvicinarmi e con una scusa fare conoscenza. Finito questo concerto uno di noi disse: “Fioi doman ghe xè i Led Zeppelin a Zurigo, nemo?!” Sono andato e tornando dal concerto dei Led Zeppelin ho pensato che se dovevo scegliere avrei scelto Bob Marley… notare che i Led Zeppelin mi piacevano molto!

PERTH: Volevo farti una domanda relativa ai Pitura Freska, da quello che so tu non hai mai avuto piacere di dire perché è finita, tranne quello che scrivi nel sito e nei vari blog, la verità è che era finita un’epoca con loro?

SKARDY: La realtà è che il gruppo aveva iniziato in una direzione e poi è stato portato in un’altra, perché essendo tanti musicisti, ognuno voleva dare al progetto una propria direzione, qual è il segreto, secondo me? Quando hai preso una direzione e sei su una linea, devi continuare a seguirla, perché i Rolling Stones sono ancora vivi? Perché a loro piace quel genere e continuano a proporlo.

PERTH: Grande Bidello a mio avviso è un vero capolavoro. Un’opera che, con la consueta ironia che ti contraddistingue annienta i reality, vedi Grande Fratello, farai un pezzo anche contro i Talent?

SKARDY: Ma non ci penso proprio, ormai considero la televisione come la preistoria dell’intelligenza umana. Quando accendo la televisione e vedo che vengono trasmessi film degli anni ’40 e ’50, mi sembra di tornare a quando ero piccolo negli anni ’60 e probabilmente la gente era più intelligente di adesso, di conseguenza non posso parlare male di una cosa che ormai per me è il male già in partenza, c’è ben poco che salvo della televisione. Una volta guardavo “BLOB”, ora nemmeno quello, perché una volta facevano vedere il meglio e il peggio, ora vedi solo il peggio e mi fa paura. Il meglio è nascosto.  Inoltre credo che non serva, perché ormai la gente è orientata a questa insulsa mentalità e se io vado a toccare questi idoli vuoti, sono un alieno.

PERTH: Nella canzone Firulì Firulà dici di sentirti di un altro pianeta, intendi questo essere un alieno?

SKARDY: Ritorno a quello che ho detto all’inizio, non trovo più l’umanità che trovavo 30/40 anni fa, perché ormai non contano più né le parole, né quello che trasmetti come persona, ma contano i like sul telefono, contano i social, internet e tutto il resto e di conseguenza uno si sente già estromesso dal mondo se non vive dentro questo schema, se ti faccio vedere il mio telefono costa 20 euro, è mezzo rotto e non me ne frega niente di social ecc…, ovviamente essendo artista ho chi lavora per me e li segue, perché devo essere presente altrimenti iniziano a pensare che io sia morto, ma queste cose non sono la mia priorità. Ritengo che internet non venga usato nella maniera corretta secondo lo scopo per cui era stato pensato, un po’ come per tutte le scoperte o le correnti filosofiche o di pensiero, nascono per un intento e poi ne viene modificato lo scopo, Cristo ha dato vita al Cristianesimo e poi ne hanno fatto un’arma di guerra, Marx ha pensato il comunismo e poi hanno dato vita invece a uno stato militare. E’ sempre così.. si parte da uno scopo buono, poi la corruzione dell’uomo distrugge tutto.

PERTH: so che stai pensando ad un nuovo disco e spero di poterlo recensire quanto prima ma parlando di uno dei tuoi ultimi lavori è stata la rivisitazione in chiave Raggae del famoso brano “Centro di Gravità Permanente” di Franco Battiato. Qual è per Skardy il “Centro di Gravità Permanente” che gli permette di stare di fronte alle situazioni che vediamo tutti i giorni e di cui hai appena accennato?

SKARDY: Speremo de inissiar el novo disco”… dovrebbero iniziare le registrazioni dopo l’estate. Per quanto riguarda il “Centro di Gravità Permanente”, è un bel problema perché mi sembra di essere diviso continuamente in due pianeti: c’è il pianeta in cui stai bene, fai quel che ti piace e il pianeta in cui sei costretto a fare cose che non vorresti fare; io ho 60 anni e sono ancora costretto a lavorare! A 60 anni hai oramai dato tutto quel che potevi! Questo è il pianeta che non mi piace. Qual è il mio pianeta, il mio “Centro di Gravità Permanente”? Stare a casa mia, ascoltare la mia musica, andare in giro a suonare, cucinare, mi piace cucinare e avendo la moglie straniera ho dovuto imparare se volevo mangiare come dalla mamma (ride).

PERTH: Rifarai “Menarosto” la rubrica di cucina?

SKARDY: No, preferisco dedicarmi alla musica, stimolare la gente ad avere ancora interesse per la musica “suonata”, perché ritengo che la musica faccia bene, sia salutare, anche se si dice che non dia beneficio immediato, io credo che permetta un beneficio psichico e credo che il motivo per cui la gente peggiora nei rapporti, nella vita, sia che manca il beneficio psichico che dà la musica. Forse oggi con te ho parlato un po’ da matto, perché salto da Mercurio a Plutone… il mio difetto principale è di non essermi mai adeguato ai tempi odierni, parlo ancora come fossi negli anni ’70, perché il mondo doveva migliorare, se è peggiorato non è colpa mia e non vado certo a peggiorarmi per adeguarmi al mondo. Siamo in una società che ha l’obiettivo del beneficio immediato e questo vale anche per la musica, la vera ricchezza si crea nel tempo, nell’immediato puoi solo far contento qualcuno… “desso vago casa che gò da cusinàr, ciao”.

PERTH: Skardy, ti ringrazio, ciao.

 

PERTH

Perth

https://www.youtube.com/watch?v=KsCdxXtgN9o




Pinguini Tattici Nucleari: Noi, “Fuori dall’Hype” per vocazione.

Carissimi lettori, inizia oggi, venerdì 17 maggio 2019, la collaborazione esecutiva con Rockography, come già comunicato le scorse settimane. E’ un passo in avanti, è una storia tutta nuova fatta di musica, di informazione e innanzitutto di “amicizia operativa” con la redazione di Rockography e nello specifico con uno dei giovani giornalisti più promettenti: Sacha Tellini.

Recensioni, interviste approfondimenti e rivelazioni di tutto quel mondo musicale italiano ed estero che può definirsi ancora “ARTE”! Abbiamo abituato i lettori di MUSIC a dettagliati reportage e linee editoriali chiare con l’obiettivo di farvi conoscere il pensiero e la musica di molti Artisti (con la “A” maiuscola) lontani da tutta quella finzione commerciale che domina i social ed i media (la televisione in primis).

Abbiamo intervistato Riccardo Zanotti, leader e cantante dei Pinguini Tattici Nucleari prima del loro concerto all’Auditorium Flog di Firenze, una delle band più promettenti del panorama pop/indie italiano. Buona lettura.

PERTH

Pinguini Tattici Nucleari: Noi, “Fuori dall’Hype” per vocazione.

Allora, partiamo dalle origini: come nascono i Pinguini Tattici Nucleari ?

“Beh, probabilmente come sono nate tante altre band. Eravamo un gruppo di amici, che un giorno ha deciso di provare a fare questa esperienza. All’inizio dunque, tutto è partito per gioco, per divertimento: salivamo sul palco senza neanche sapere le canzoni che avremmo suonato davanti al pubblico, questo per darti l’idea di quanto fosse per noi, appunto, solo un gioco. Con il tempo, è diventata una cosa sempre più seria, anche se non eravamo minimamente preparati a questo: infatti, eccetto me, tutti gli altri componenti avevano fatto studi diversi rispetto alla musica, ed è così quindi, un po’ per caso direi, che sono nati i Pinguini Tattici Nucleari.”

A cosa si deve, invece, il nome della band ?

“Il perché di questo nome è un segreto che non posso dire, perché altrimenti il nostro manager Gianrico me la fa pagare cara!” (Nel frattempo abbiamo scoperto da nostra fonte la genesi del nome, ma per rispetto al nostro ospite non lo riveleremo; n.d.r.)

Non puoi darci neanche un indizio ?

“Neanche questo purtroppo, mi dispiace. Posso solo dirti che il pinguino è il nostro animale guida, e infatti è un elemento molto ricorrente anche nei nostri live: dal pupazzo che sale ad un certo punto dei nostri concerti sul palco ai visual, è una presenza davvero costante. Scusami davvero, ma è un segreto che proprio non posso rivelare.”

Dal vostro album di esordio “Il re è nudo” (2014), passando per “Gioventù bruciata” (2017), fino ad arrivare ad oggi, con il vostro ultimo lavoro, “Fuori dall’Hype”, come sono cambiati i Pinguini Tattici Nucleari ?

“Guarda, come ti dicevo prima, giorno dopo giorno ci siamo resi conto che stava diventando un lavoro vero e chiaramente la vita ti cambia, si sconvolge. Gli equilibri e le relazioni che hai con un “lavoro normale” vengono completamente stravolti. Con un lavoro come questo, non riesci più ad avere un orario normale in cui mangi e in cui vai a letto, e di conseguenza anche il tuo rapporto con ciò che hai muta, inevitabilmente. Io sono diventato una persona molto più paziente: ad esempio mi sono molto abituato ai viaggi lunghi, rispetto ai quali prima non lo ero affatto. Mi ricordo che quando abbiamo iniziato ad andare a Torino da Bergamo, mi sembrava che ci volesse tantissimo tempo; poi ho iniziato a vedere il tempo con una prospettiva diversa, proprio grazie a questo lavoro, e quella distanza, rispetto ad altre tratte che percorriamo oggi, mi sembra davvero molto breve. Nel nostro caso però, devo precisare che se tante cose sono cambiate, altre non sono cambiate affatto. Per esempio, lo spirito con cui ci approciamo ai concerti è ancora quello dell’inizio: suoniamo semplicemente per il gusto di farlo e per divertirsi, cercando ogni volta di dare il meglio di sé.”

Qual è stato il punto di svolta della vostra carriera ?

“Direi che ce ne sono stati tanti, come spesso succede se una carriera può essere definita sana. Ci sono infatti tanti steps, è difficile che ce ne sia uno soltanto: pensa che, in inglese, esiste un termine coniato appositamente per definire tutte quelle band che dopo aver fatto una sola canzone spariscono dalla circolazione: le band in questione vengono definite one hit wonder, ed è in questo caso che si può parlare di un solo punto di svolta. Le cose nel nostro caso fortunatamente sono diverse: abbiamo macinato palco dopo palco, abbiamo scritto tante canzoni, segno di un lavoro graduale, costante e progressivo. Posso forse identificarti un punto di svolta che sia stato più forte degli altri: questo coincide con la scrittura di una nostra canzone, ossia Irene, che per prima ci ha fatto rendere conto di quella che sarebbe stata la nostra nuova vita di musicisti.”

Veniamo dunque al vostro ultimo album, “Fuori dall’Hype”: come nasce questo lavoro e che cosa rappresenta per voi ?

“Nasce tra una data e un ritorno a casa in furgone, nel senso che è nato on the road, mentre eravamo in giro per fare concerti. Abbiamo pensato molto al nome dell’album, e penso che ne abbiamo trovato uno davvero appropiato per noi. Volevamo dargli un titolo che ci permettesse di collocarci fuori da un certo modo di intendere la musica, che è appunto quello dell’Hype, nel senso che il percorso di carriera che vogliamo per noi stessi non è qualcosa che finisce senza nemmeno aver avuto il tempo di cominciare: vogliamo qualcosa che sia più graduale, proprio come ti ho accennato prima. Non vogliamo essere una one hit wonder per intendersi.”

Avete all’attivo 20 milioni di streaming e oltre 7 milioni di visualizzazioni su Youtube, e “Fuori dall’Hype” ha già superato il milione di ascolti su Spotify: quanto ha influito sul vostro successo la possibilità di fruire attraverso queste piattaforme della musica ?

“Tanto, tantissimo, come succede per quasi tutte le band di oggi! Non dimenticherei, oltre agli strumenti a cui hai accennato tu, i social media, che a mio avviso rivestono un ruolo molto importante. Se Spotify e Youtube permettono di fruire come mai prima di un prodotto finito, che è appunto la canzone, i social media, indipendentemente da quali essi siano, permettono di dare visibilità e fare luce su tutto quello che è il processo che porta alla scrittura di una canzone piuttosto che di un album: dalla sala prove alle ore di registrazione in studio, passando per altri grandi piccoli aneddoti legati alle fasi pre pubblicazione, si ha modo di costrutire una narrazione, di raccontare la storia che sta dietro un particolare processo creativo. Tutto questo, ha la forza di far avvicinare, e magari appassionare, le persone al tuo lavoro: ci piace l’idea di dare visibilità a tutti gli sforzi che sottendono ai nostri lavori.”

Quali saranno, dopo la fine del tour, i vostri progetti ?

“Sicuramente ci riposeremo molto. Personalmente mi dedicherò molto alla mia famiglia e al mio cane, e magari nel tempo libero perché no, cominciare a lavorare al prossimo album.”

 

PERTH & SACHA TELLINI




BLACK STONE CHERRY

Il 28 giugno del 2012 un caro amico musicista mi diede un cd masterizzato dal titolo “Folklore and Superstition”. Eravamo entrambi a Verona al concerto dell’unico, inimitabile ed immenso Chris Cornell che di fronte a circa 2.000 persone eseguiva in acustico canzoni del suo repertorio e di quello dei Soundgarden di cui è stato il leader fino a circa un anno e mezzo fa (data del decesso 18 maggio 2017, vedasi BetaPress.it del 23 maggio 2017 “La Disperazione del Grunge”; n.d.a.).

Non sapevamo della presenza l’uno dell’altro e all’uscita dal Teatro Romano, splendido monumento archeologico veronese del I secolo a.C. in cui aveva appena terminato l’esibizione Chris, incrociai l’amico Walter, mi salutò e trascinandomi di corsa verso la sua auto (un Pick-up in puro stile “Dixieland”), volle regalarmi un cd di “Post-Southern” come lui lo definì.

I suoi gusti in fatto di musica non hanno mai incontrato i miei, Walter è infatti un super cultore di “Southern Rock”, una miscela di Blues, Country e Rock che attinge dall’orgoglio delle radici proprie del Sud degli Stati Uniti, narrando la vita dei pronipoti dei “Redneck” (contadini che furono i soldati degli Stati Confederati durante la guerra civile statunitense; n.d.a.).

Al netto di qualche brano (chi non conosce “Sweet Home Alabama”?) dei Lynyrd Skynyrd, storica band di Jacksonville in Florida e forse quella più “hard” del circuito “confederato”, io non sono mai riuscito ad entusiasmarmi del genere “Rock Sudista”, ma accettai comunque il cd e lo ringraziai salutandolo.

Per dovere di cronaca devo dire che la passione per il Southern Rock, fa dell’amico Walter Gatti uno dei massimi esperti del genere ed è suo il primato in Italia per ciò che concerne la ricca collezione di produzioni discografiche di band che vanno dall’Arizona alla Georgia passando per Arkansas, Alabama, Louisiana, Florida e Kentucky.

Proprio del Kentucky era la band che voleva assolutamente che io ascoltassi: i Black Stone Cherry (il nome è stato preso da una marca di sigarette americane; n.d.a.). Come sarebbe scortesia non leggere un libro che ti viene regalato, così vale anche per la musica, e quindi “vai di casse”! Prima Song…Brividi!

Inutile dire che ho consumato il cd ed ovunque andassi erano con me i brani di Folklore and Superstition. Dopo pochi giorni ho iniziato a divorare gli album precedenti: l’omonimo Black Stone Cherry del 2006, Between the Devil and the Deep Blue Sea del 2010, e poi quelli successivi: Magic Mountain del 2013, Kentucky del 2015 e l’ultimo lavoro di quest anno che ritengo essere il più maturo della Band di Edmonton: Family Tree.

I BSC sono riusciti a mixare stili differenti che a tratti ricordano le Big Band come Led Zeppelin, AC/DC, ZZ Top ma hanno creato una loro personale linea musicale riconoscibile ed originale.

Il batterista John Fred Young è figlio d’arte: Richard Young (padre) e Fred Young (zio), rispettivamente chitarra e batteria dei Kentucky Headhunters (famosa band South Rock che ha vinto anche un Grammy; n.d.a.) e ritengo che, dopo Stewart Copeland (The Police), Matt Cameron (Soundgarden e Pearl Jam) e Alberto “Alba” Pertile (Uemmepi… ok sono un po’ di parte!), John Fred sia il miglior batterista in circolazione.

La line-up dei BSC e cioè batteria, basso (Jon Lawhon) e chitarre (Ben Wells e lo stesso Chris Robertson) sostengono la voce graffiante e piena di Robertson consegnando all’ascoltatore tutta la potenza del sound targato BSC lasciandolo molte volte senza fiato. Ma è con i “live” che i BSC danno il meglio di se!

A tal proposito una curiosità: i Black Stone Cherry hanno aperto migliaia di show a Band molto più blasonate e famose, ma moltissimi sono gli spettatori (anche io tra questi) che, notando una netta superiorità di esecuzione, hanno lasciato i concerti poco dopo la fine delle performances dei nostri “Special Guest”.

Per i lettori che vogliono approcciare la musica dei Black Stone Cherry consiglio sicuramente l’album di cui ho parlato all’inizio e cioè Folklore and Superstition… anzi, per incuriosirvi vi lascio con la First Track dell’album che mi ha fatto innamorare di Robertson & Co. : Blind Man.

Ciao e Rock’n’Roll!

https://www.youtube.com/watch?v=zO1_cpIIzXI

Perth

 




“Blue Lou” Marini

Rimini, venerdì 24 agosto 2018 ore 16.30, abbraccio nuovamente dopo alcuni anni “Blue Lou” Marini in un angolo incasinatissimo dell’area “Piscine Est” della Fiera dove si sta predisponendo il palco per il concerto delle 22.30 dove suonerà la BLUES4PEOPLE (vedi art. maggio 2017 su MUSIC – BetaPress.it) with “Blue Lou”.

Avendo ahimè perso le due uniche date italiane del 2018 del Tour mondiale di promozione dell’ultimo disco dal titolo “The Last Shade of Blue before Black” della ORIGINAL BLUES BROTHERS BAND (Francavilla al Mare il 01 agosto e Grado il 03 agosto), non mi sono fatto sfuggire l’opportunità, grazie all’amico Carlo “Joliet Jake” Fumagalli, di incontrare Lou e di porgli qualche domanda. E’ passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui assieme a “Blue Lou” ci siamo bevuti un paio di birre (forse più di un paio!) ma sembra passato solamente un giorno. Ho sempre ammirato la sua cordialità e disponibilità che ha palesato anche in quest’occasione, si pensi che terminata l’intervista ha preso il suo inseparabile sax ed ha fatto un pezzo per pochi intimi… grande!

Si è parlato di amicizia, di bellezza, di musica, quella con la “M” maiuscola e si è parlato anche di Alan “Mr. Fabuolus” Rubin, di Aretha Franklin e di Matt “Guitar” Murphy, suoi amici cari che non ci sono più. Infine una nota: in calce all’intervista ho voluto elencare i membri della ORIGINAL BLUES BROTHERS BAND ed ho voluto proporre ai lettori di MUSIC il video delle “session” di registrazione dell’album “The Last Shade of Blue before Black”.

PERTH: Ciao Lou, innanzitutto ti ringrazio del tempo che mi hai voluto dedicare. Parto da una curiosità: mi colpisce l’amicizia che hai con Carlo e la B4P, che ci ha regalato esibizioni fantastiche come il concerto all’interno del carcere di massima sicurezza di Padova circa 10 anni or sono. (Idea fantastica che mi piacerebbe organizzare di nuovo… stay tuned! N.d.a.).

LOU: Carlo e i ragazzi sono stati per me una vera scoperta. Attorno alla musica e ad un progetto musicale è nata la nostra amicizia e quando posso rispondo sempre agli inviti dei loro concerti… evidentemente condividendo il palco con loro (ride).

PERTH: In “The Last Shade of Blue before Black”, l’ultimo album della ORIGINAL BLUES BROTHERS BAND, hai voluto fare le cose in grande con i tuoi amici di sempre, ho visto che ci sono Steve (Cropper), Tom (Malone), Eric (Udel), John (Tropea)…

LOU: La band è molto armoniosa, ci intendiamo alla grande (“The Last Shade of Blue before Black” è un disco interamente suonato dal vivo in studio, impensabile oggi per la maggior parte degli odierni musicisti e sedicenti artisti! N.d.a.), quel che abbiamo voluto fare è stato onorare la nostra eredità e ritovare le persone che hanno amato la storia dei BLUES BROTHERS per cui assieme a Steve, a Matt e a Tom abbiamo coinvolto molti musicisti che sono stati entusiasti del progetto. Abbiamo suonato il disco live una prima volta e poi una seconda volta… è stata così perfetta la prima che abbiamo deciso di tenerla e di mandarla subito al mixaggio e masterizzazione.

PERTH: Ho visto che Matt ha suonato nel disco, ora non c’è più (Matt “Guitar” Murphy, mancato all’età di 88 anni il 15 giugno scorso; n.d.a.) chi era Matt per te?

LOU: Unico! Due cose amo e ho amato di lui: non ha mai smesso di suonare, di allenarsi, ad esempio in aeroporto mentre aspettavamo i voli, lui, che aveva sempre con sè la chitarra, la estraeva dalla custodia e tranquillo iniziava a suonare… provava di continuo! La seconda cosa che amo di lui è che è sempre stato “open minded”, di larghissime vedute sia per quanto riguarda la musica sia umanamente. Mi proponeva spesso diversi tipi di musica, ad esempio mi ha fatto conoscere ed apprezzare la musica scozzese. Io sono molto molto aperto a conoscere e sperimentare, ma lui cento volte di più! Era anche una persona difficile a volte, ma unico!

PERTH: Dai Social vedo che siete molto impegnati a livello globale con la turnèe di promozione del disco, avete suoato negli Stati Uniti, in Europa, negli ex paesi sovietici, in Russia etc… Carlo si era offerto di portarmi al Sun&Sounds Festival di Grado a vedervi in una delle due date italiane ma purtroppo non ce l’ho fatta a venire. So che avete un grande seguito qui da noi, come reagisce il pubblico italiano ai vostri show?

LOU: Gli italiani e gli spagnoli sono grandi fans della BBBand abbiamo avuto sempre grande consenso e grandi ovazioni in tutte le città che abbiamo toccato nei 30 anni di attività. Il tour di promozione dell’album “The Last Shade of Blue before Black” ha toccato paesi come Lituania e Moldavia dove non eravamo mai stati prima e anche lì c’è stata una reazione molto importante da parte del pubblico.

PERTH: Nel disco ci sono delle sonorità che rimandano a mio avviso agli arrangiamenti di “O Soul Mio” (progetto musicale della B4P interamente arrangiato da “Blue Lou”, una miscela di rhythm & blues, swing e rock’n’roll che incontra classici motivi della tradizione italiana come “O’ sole mio”, “Ciuri ciuri”, “O mia bela Madunina”, “Tanto pe’ canta”, “Tammuriata nera” ed altre ancora. N.d.a.), ci parli di quell’esperienza?

LOU: Sì è vero, alcune sonorità richiamano il “progetto italiano”. Quel disco è un gran disco classico ed ha il potere di suscitare in me forti emozioni ancor oggi. All’interno della scaletta di stasera ho voluto che ci fossero cinque pezzi di “O Soul mio”. Quando registrammo il disco, oramai più di 10 anni fa, ricordo che John (Tropea, chitarra in tutto il disco; n.d.a.) mi propose un assolo in “O mia bela madunina” e mi chiese se poteva andare e cosa ne pensassi, non riuscivo a rispondergli perché ero commosso ed avevo un groppo alla gola. Gran disco.

PERTH: Conosco Carlo e la B4P da più di vent’anni e sono ancora tra i pochissimi in Italia a portare in giro il “verbo” del Soul&Blues. Ricordo la famosa frase di Elwood nel film “Blues Brothers 2000”: “Mollate se volete, ma ricordatevi una cosa: mollare ora significa fuggire dal vostro talento, dalla vostra arte, dalla vostra vocazione e lasciare alle generazioni che verranno il vuoto di una musica tecno rimanipolata al computer, ritmi ormai sintetizzati, canzoni che inneggiano alla violenza e gangsta-rap, pop, spazzatura sdolcinata, slavata e smancerosa”, cosa ne pensi oggi a distanza di quasi vent’anni? Cosa pensi dell’attuale produzione musicale?

LOU: (Ridendo) …devo riguardarmi il film perché questo passaggio lo ricordo poco, quel che posso dire è sì, penso che la musica oggi non riesca più ad aprire il cuore, soprattutto dei più giovani, alla bellezza. Oggi in Hotel ero in piscina con mia moglie ed ascoltavo la musica che suonavano: una cosa orribile! Le canzoni di oggi sembrano tutte uguali, non riesci a distinguere un cantante da un altro. Quando ascolto i testi di queste canzoni sento solo parolacce e distruttività ed il massimo espressivo di questi finti artisti sarebbe parlare di “shit”? La musica ti deve elevare! Per questo scelgo accuratamente ciò che desidero ascoltare! Quando vado nei rari negozi di dischi rimasti (a NYC; n.d.a.) sono bombardato da molta musica che viene prodotta in quantità industriale ed ha come unico scopo quello di manipolarti. Non siamo più abituati ad accompagnare i giovani nell’ascolto dell’arte vera che apre la mente ed il cuore al bello! Se un giovane sapesse con quale violenza la macchina pubblicitaria delle “discografiche” manipola le coscienze… tornerebbe al Blues!

PERTH: Grazie Lou, ci vediamo al Concerto questa sera!

 

THE ORIGINAL BLUES BROTHERS BAND ARE:

Steve “The Colonel” Cropper – guitar

John “Smokin’ John” Tropea – guitar

Eric “The Red” Udel – bass

Lee “Funkytime” Finkelstein – drums

Leon “The Lion” Pendarvis – organ

Rusty “Cloudmeister” Cloud – clavinet, Wurlitzer, piano and organ

Steve “Catfish” Howard – trumpet

Larry “Trombonious” Farrell – trombone

Lou “Blue Lou” Marini – saxophones

Bobby “Sweet Soul” Harden – vocals

Tommy “Pipes” McDonnell – vocals and harmonica

Rob “The Honeydripper” Paparozz – vocals and harmonica

Eddie Floyd

Joe Louis Walker

Matt “Guitar” Murphy

Paul “The Shiv” Shaffer

Dr. John “The Nite” Tripper

Tom “Bones Malone” Malone

 

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=jScaYR_RmYs&w=640&h=360]

 

Perth




KARMA – INTERVISTA AD ANDREA “CONTE” BACCHINI

A metà degli anni ’90 ero un musicista prestato all’Università e passavo il tempo libero con gli amici in sala prove, a vedere concerti e ad organizzarne pure.

Voglio oggi ricordare una delle band che per molte ragioni ha rivoluzionato la musica underground ed influenzato me ed altri centinaia di musicisti nel ventennio successivo allo stop (non allo scioglimento! N.d.a).

E’ un onore per me intervistare il mitico Andrea “Conte” Bacchini, eclettico chitarrista dei KARMA.

Ritrovarlo è come vivere di nuovo un momento magico degli anni in cui la musica era diretta e non drogata dai falsi miti proposti dagli odierni Talent, ma soprattutto alla portata di tutti.

Milano, 13 aprile 2018, ci vediamo a mangiare un boccone al Ristorante “Il Tronco” ed il “Conte” mi racconta di sé a partire dalla sua vita e dalla sua grande passione per la musica ma anche del rapporto divenuto da alcuni anni controverso con la chitarra, strumento a cui ha dedicato la vita e che forse non gli ha “ritornato” a pieno quel che erano le attese dell’inizio.

Non vi nascondo che è stato come ritrovare un amico con cui non ci si vedeva da molto tempo e nel dialogo con lui è emersa tutta la forza di una vita a tratti difficile, ma sempre vissuta con coraggio. Il giudizio sul mondo della musica è di una lucidità disarmante, il futuro? Pieno di desideri!

 

PERTH: Ci racconti come è iniziata l’avventura del “CERCHIO DEL KARMA”? Dopo più di 20 anni cos’è rimasto di quel mitico combo divenuto semplicemente “KARMA”?

ANDREA: Ti faccio una premessa: se tu facessi questa domanda ad ognuno di noi 5 (David Moretti – voce, Andrea Viti – basso, Diego Besozzi – batteria, Alessandro “Pacho” Rossi – percussioni e Andrea “Conte” Bacchini chitarra) ti risponderemmo tutti in modo diverso. Con alcuni eravamo amici ben da prima dei KARMA, ad esempio con David. Ci siamo visti un mese fa e con lui è un’amicizia vera, non ti vedi per un anno e basta una sola sera ed è come se non ci vedessimo da un giorno. Tornando alla domanda io sono un po’ l’archivista del gruppo, perché sono molto preciso e metodico (da questo nasce il soprannome “il Conte”; n.d.a.) e potrei dirti per filo e per segno ogni singolo passo fatto con i KARMA. Il gruppo nasce da una telefonata di Andrea (Viti) che conoscevo bene perché abitavamo nella stessa zona, Andrea aveva bisogno di un chitarrista per un concerto in una scuola di Milano. Con Diego (Besozzi) e con Andrea (Viti) abbiamo iniziato quindi a provare sin da subito, e suonavamo anche 5/6 ore al giorno tutti i pomeriggi. Il repertorio non era omogeneo, era molto scompaginato e andava da HENDRIX (di cui il Conte è grandissimo estimatore; n.d.a.), a BILLY COBHAM e i CULT, dando grande spazio all’improvvisazione. David (Moretti) venne a sentirci e ci chiese di cantare con noi. Per un certo periodo suonavamo anche pezzi dei DEEP PURPLE ed avevamo pure due cantanti: David e Gianluca Galeazzi (famoso per essere stato campione mondiale di subbuteo; n.d.a.). Un bel giorno poi ci siamo trovati in sala prove con Pacho, invitato da Diego, e dopo il primo pezzo suonato assieme affascinati dal suo assoluto talento, era infatti il miglior musicista di tutti noi, gli abbiamo chiesto di restare. Così è nato “IL CERCHIO DEL KARMA”. Dopo non molto abbiamo cominciato ad inserire qualche pezzo nostro, all’inizio composti quasi solo da David, che ha un istinto pazzesco nella composizione. Essendo lui un estro “fuori controllo”, che scriveva pezzi molto bizzarri, aveva bisogno di Andrea (Viti) e del sottoscritto per “sistemare” il tutto in modo quasi certosino… da qui nascevano i nostri brani, il resto è… KARMA!

PERTH: I giovani di oggi, in questo Paese dilaniato dalla crisi e da uno stato di disagio socio-politico hanno pochissimi sogni da vivere. Ci racconti cosa sentivate e cosa volevate cambiare in quegli anni?

ANDREA: Milano in quel periodo era una città molto frammentata, che potrebbe sembrare una cosa negativa ma non lo è. Molte pulsioni anche distanti tra loro, tanti stili ed un fermento quasi epocale, molti musicisti hanno tenuto a valorizzare aspetti sociali e politici attraverso le loro canzoni. Noi eravamo un gruppo che poneva la musica al primo posto… la musica doveva parlare per noi e doveva tentare di dare uno spunto per il cambiamento. Le nostre aspirazioni erano quelle di avere una carriera musicale che potesse far crescere quel che eravamo attraverso la nostra musica.

PERTH: Nel cuore delle nuove generazioni ci sarebbe ancora spazio per i Karma?

ANDREA: Secondo me sì. Certo non sicuramente ripetendo una formula tipo “come eravamo belli e giovani… ecco siamo tornati!”… dovrebbe essere un progetto NUOVO! Una naturale evoluzione di quel che erano i KARMA!

PERTH: David Moretti e Andrea Viti hanno continuato con il progetto JUAN MORDECAI ed ora, il primo (“la punta di diamante del cerchio” come lo definisce Diego Besozzi, il drummer della band; n.d.a.) ha fatto carriera ed è Direttore Creativo presso la Apple a Cupertino in California. Per il secondo faccio veramente fatica a dire tutti i progetti musicali, cito solo gli AFTERHOURS di cui è stato bassista per 10 anni – tra l’altro ha suonato con Agnelli&Co. per i 30 anni della band al Forum di Assago il 10 aprile u.s. –  ed il progetto YELLOW MOOR, che mi ha colpito particolarmente (https://vimeo.com/87995454). Diego vive nelle Marche e si occupa di emergenza sociale con il trip della pittura, Pacho ha collaborato con il Clan di MORGAN ed ora insegna percussioni. Raccontaci un po’ del rapporto con i tuoi colleghi ieri ed oggi.

ANDREA: Tutte persone con cui i rapporti sono rimasti ottimi. Erano la mia band, il mio progetto artistico e di vita! Ormai siamo molto lontani dal punto di vista kilometrico, hai detto bene, David ha fatto una gran carrierona ed ora è negli States, Diego si occupa di sociale e lo sento spesso, Pacho è un grandissimo “casalingo” (ride) e Andrea veramente non lo sento da un pò.

PERTH: …e tu cosa fai oggi? Ti occupi ancora di musica? Hai mai pensato ad una carriera solista?

ANDREA: Ultimamente ho una certa avversione per la chitarra. Un po’ devo dire che mi sento tradito. Le ho dedicato fin da giovane praticamente tutto! Dal punto di vista lavorativo ho insegnato chitarra per alcuni anni, ma alla fine è risultato frustrante. Ti arrivano genitori che questionano per le tariffe, ragazzi che iniziano di buona lena ma si stufano dopo poco tempo e alcuni che vogliono solo saper tenere in mano la chitarra per far casino… non è più come un tempo, ci sono sempre meno giovani che hanno voglia di suonare impegnandosi e sputando sangue come ho fatto io da giovane. Ho lavorato in alcuni negozi di dischi di Milano ed ho fatto altri lavoretti cercando di stare molto vicino a quel che volevo fare nella vita: il musicista. Mi hanno chiesto in molti di suonare in Band Tribute o Cover e, capiamoci, ho rispetto per quelli che lo fanno di mestiere, ma l’idea di finire in un pub a guadagnare 50 euro per suonare cover di altri è una cosa che…, è più forte di me, non ce la faccio! La musica è per me passione e la passione la puoi mettere in una cosa che hai scritto e che ti rappresenta, una sfera artistica e creativa che è un investimento emotivo per cui vale la pena suonare. Per quanto riguarda un progetto solista, io purtroppo non canto! Sono stato spronato da molta gente che mi diceva di provare a cantare e mi piace pure, ma non ho mai sviluppato l’indipendenza tra voce e strumento… non riuscirei neanche a fare “il Gatto e la Volpe” (famoso brano di EDOARDO BENNATO, struttura molto semplice in Fa, Rem, Solm e Do7; n.d.a.) suonando e cantando. Ma mi piacerebbe! Chissà…

PERTH: JUAN MORDECAI voleva perpetuare la fiammella iniziale di un Rock-Grunge, quello dei KARMA, che si sarebbe comunque evoluto in qualcosa di diverso. Cosa ti è piaciuto di quel progetto targato “Moretti-Viti”?

ANDREA: Il suo respiro internazionale come sono stati i KARMA, è stato la naturale evoluzione dei KARMA. Il Rock deve “suonare” anglosassone, non italiano!

PERTH: Molti sostengono che la scena italiana, legata al Rock “duro e puro” di fatto, non esista; troppe tribute band, pochi locali per la musica indipendente e l’underground portato solo da finti alternativi. Cosa ne pensi di tutti questi aspetti che negli ultimi dieci/vent’anni hanno portato ad un impoverimento dei talenti veri?

ANDREA: Urca! Questa è una domanda complicata… c’è mai stato qualcuno che in Italia ha fatto del Rock “duro e puro”? Ci sarà mai? (Ride). Ci hanno sempre detto che noi KARMA cavalcavamo l’onda Grunge… no! Avremmo fatto sicuramente parte dell’onda di Seattle fossimo nati in America, ma cosa vuol dire “cavalcare”? Noi in quegli anni ci siamo ritrovati in “qualcosa”! Ci siamo trovati dentro a quel “qualcosa” che emergeva nuovamente come movimento Rock! Semplicemente eravamo stufi della “plastica” degli anni ’80. E come noi altre centinaia di band. Da allora è aumentata esponenzialmente la possibilità di creare musica, anche con i Social, e qualche talento vero c’è, ma oggi il circo dell’industria musicale cerca bravi esecutori quindi non emergerà mai nessun talento che non sia disposto ad assoggettarsi alle logiche del potere discografico e mediatico… connubio diabolico! Oggi è sempre più difficile per le band promuovere la propria musica. Si fanno a tavolino album per lanciare dei bravissimi interpreti e non c’è più la seria passione per la costruzione di un disco che possa essere solo alla fine promosso con la tournèe. La vera questione è che la discografia è morta e non c’entra più nulla con il Rock. Una volta era illuminata ora assolutamente mercantile, interessata a tenere in vita i 4/5 artisti che fanno milioni di copie in tutto il mondo, ma interessata a scoprire nuovi talenti proprio no!

PERTH: I nomi di spicco della scena musicale alla fine degli anni ’90 erano RITMO TRIBALE, CASINO ROYALE, AFTERHOURS, LA CRUS, SCISMA, EXTREMA, TIROMANCINO, MOVIDA, ALMAMEGRETTA, MARLENE KUNTZ ne dimentico sicuramente molti ma voglio però aggiungere anche i TIMORIA dell’amico Omar, con chi ti piacerebbe oggi collaborare?

ANDREA: Che domandona! Sono amicizie storiche e alcuni che hai citato sono proprio amici cari come Mario Riso dei MOVIDA e REZOPHONIC. Qualche progetto con alcuni membri dei RITMO TRIBALE l’ho fatto pure… sicuramente se ci fosse un’idea artistica che esula da un imbarazzante amarcord ti direi che mi piacerebbe collaborare con molti nomi che hai elencato ma, per quel che ti ho detto prima, è comunque difficile rispondere oggi!

PERTH: Ho ascoltato fino allo  sfinimento il groove di Karma ed Astronotus, noto che la tua chitarra ha un posto di primo piano e, da chitarrista, ti chiedo quali set up hai usato per un suono che ancor oggi risulta modernissimo?

ANDREA: Io sono fondamentalmente per un suono meno “orpelloso” possibile a patto che la fonte sia eccellente e poco “lavorata” successivamente (la “fonte” sta per chitarra+amplificatore; n.d.a.). Dopo anni sono diventato estimatore MESA BOOGIE, dal vivo ho usato sempre Rectifier 50/100 o Trem o Verb, in studio sempre quelli, ma con dei finali di potenza, sempre MESA tipo Strategy 400 per spingere ancora di più. Distorsione dell’ampli e pochissimi effetti, pedale del volume con cui controllo anche la distorsione, delay e il cry baby (wha wha), ma sono molto “dry”, molto basic. Chitarre? Essendo io pro pickup “single coil” (dispositivo elettrico, in grado di trasformare le vibrazioni delle corde di uno strumento musicale cordofono in suono, il single coil è ad una singola bobina mentre l’humbucker è a doppia bobina; n.d.a.), la mia chitarra preferita è sempre stata la Fender Stratocaster, una chitarra “che non perdona”, come la Fender Telecaster d’altronde. Sono chitarre che più di altre riescono a portare il chitarrista a trovare il suo suono, più delle chitarre a doppia bobina (humbucker). In tutto ho 15 chitarre, in studio uso anche la Gibson Les Paul e oltre all’amore viscerale per la Fender Stratocaster amo anche la Paul Reed Smith McCarty.

PERTH: Personalmente sono legatissimo a “Lo Stato delle Cose”, “Terra” ed “Atomi”, hanno fatto da sottofondo a centinaia di giornate. Qual è invece la canzone dei KARMA di cui vai più fiero?

ANDREA: Ce la potremmo giocare tra Avorio e Samsara… le mie preferite!

PERTH: A risentirli due decenni dopo, i dischi rock anni ‘90 suonano ancora bene, ricordo come ci fosse la sensazione di poter veramente cambiare i clichè della musica contemporanea. Poi c’è stato il fenomeno dei Social che ha portato artisti (e non!) ad autoprodursi e a chiedere “like” agli amici e sostenitori, che solo nella minoranza dei casi ha portato successo ai pezzi proposti. Non trovi che ci debbano essere delle regole per poter definirsi artisti? Mi riferisco alla gavetta, ai live in locali semisconosciuti e alle case discografiche che dovrebbero passare il loro tempo a scovare talenti anziché farsi “passare” giovinastri da Maria De Filippi & Co. che ne pensi?

ANDREA: Qui mi provochi… potrei iniziare e non fermarmi più. Sono assolutamente d’accordo con te. Ciò che fa grande un gruppo è suonare tutto il giorno, massacrarsi di concerti, provare allo sfinimento fino a raggiungere una specie di telepatia dove tu fai una cosa e gli altri membri rispondono. Questa cosa succede solo con l’interazione continua, desiderata e fortemente voluta tra i membri del gruppo. Se non c’è questo allora ci si trova di fronte ad un prodotto costruito. Questo è il demonio! Il prodotto preconfezionato! Prodotto pilotato… creazione di un fenomeno momentaneo che viene spremuto e poi nella maggior parte dei casi gettato via. Una volta ci si costruiva una carriera componendo e portando nei live le proprie song. Ora la logica della carriera di una band è difficilissima. Manca una discografia illuminata e manager che credano nella band. Domandiamoci perché la figura del produttore stia scomparendo! Anche noi KARMA non abbiamo avuto un vero e proprio produttore che si è imposto, eravamo 5 musicisti litigiosissimi, delle teste calde e di cazzo (ride) e volevamo ognuno imporre le nostre idee. Fabri (Fabrizio Rioda; n.d.a.) è stato il nostro produttore ma, pur riuscendo ad indicarci una strada, non riusciva a fare molto di più con noi, spesso Fabri diceva che i KARMA sono stati il gruppo che più gli ha fatto venire il mal di testa… grandissimo! La scomparsa di queste figure sono segnali che dimostrano come vi è una frammentazione totale della musica. Per la discografia è più importante avere interpreti che autori. I gruppi scrivono! Forse bisogna fare i conti con il nuovo corso della discografia dei nostri tempi, ma io ho il dente avvelenato con il fenomeno dei Talent… è la morte!

PERTH: Un’ultima domanda è d’obbligo. Nel 2010 avete organizzato una reunion e, sinceramente, noi tutti pensavamo ad un nuovo album, poi nulla. Non avremo la fortuna di assistere ad un nuovo lavoro?

ANDREA: Noi ufficialmente non ci siamo mai sciolti: L’idea di fare “Karma III” non l’abbiamo mai abbandonata. Materiale ce n’è tanto anche se la vedo complessa da organizzare a breve, perché siamo tanto distanti… David è negli States, Diego in centro Italia… ma mai dire mai! L’unica cosa che non voglio è “reunion-effetto-nostalgia”, un greatest hits di noi stessi. No! Il mio desiderio sarebbe quello di un progetto creativo di cui andare fiero, un’opera che, guardando avanti e non indietro, possa essere accolta da un pubblico anche differente da quello dei KARMA. Io non voglio prendere per il culo chi ci ha amati!

PERTH: Grazie Conte!

 

youtube

 

 

Perth




FISH

Chi non ricorda Torch Song o Keyleigh enormi successi degli ultimi anni ’80 firmati Marillion? Gruppi immortali come Pink Floyd, Genesis, Jethro Tull, Yes e tutti i pionieri del Prog Rock hanno “lanciato” circa un decennio più tardi una band inglese capitanata dal mastodontico Fish (quasi due metri d’altezza ed un peso che si aggira sui 140 kg; n.d.a.): i Marillion.

Una voce particolare, molto calda che a tratti ricorda Peter Gabriel, Fish ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica Prog fin dai tempi dei primi quattro capolavori: Script for a Jester’s Tear, Fugazi (acronimo di “Fucked Up, Got Ambushed, Zipped In”, “fottuto, preso in imboscata, bloccato”, espressione slang dei soldati statunitensi durante la guerra del Vietnam; n.d.a.), Misplaced Childhood e Clutching at Straws.

Compositore e Songwriter raffinato che ha tratto spunto dalla realtà personale cantando l’infanzia difficile, gli insuccessi amari e gli amori impossibili, con accurata introspezione ha rifiutato sin dagli albori della carriera i clichè da Rockstar e le imposizioni metriche delle etichette discografiche.

Durante un’intervista una decina di anni fa, durante la promozione di 13th Star, nono album da solista di Fish, alla domanda: «…da trent’anni lei scrive, produce e canta, come si è evoluta la scena rock in tutto questo tempo? » la risposta, una perla: «E’ evoluta, si, ma in negativo…c’è così tanta merda musicale (testuali parole “Shit Music”; n.d.a.) che passa per radio, musica fatta di plastica senza che batta un cuore all’interno di essa. Io continuo ad amare la musica degli anni 70, quella con la quale sono cresciuto».

Fish ha prodotto da solista 10 album di uno spessore compositivo eccezionale.

La sofferenza per le alterne vicende sentimentali e per la salute cagionevole mostrano una sensibilità fuori dal comune che nel corso degli anni ha portato ad una maturazione evidente nei lavori in studio, album unici ed irripetibili pieni di poesia e supportati dall’ugola inconfondibile e dal carisma di un’autentica leggenda del progressive rock.

Mi permetto di consigliare ai lettori di BetaPress.it due album in particolare: Vigil in a Wilderness of Mirrors del 1990, forse l’unico di matrice Marillion e Fellini Days del 2001, tributo al famoso regista ed alla sua Roma.

Per quanto riguarda l’antica band di Fish, i Marillion, dal 1990 hanno continuato a suonare dal vivo ed a produrre album con Steve Hogarth alla voce ed il resto della formazione originale (il chitarrista – e leader della band – Steve Rothery, Pete Trewavas al basso, Mark Kelly alle tastiere e Ian Mosley alla batteria) ed hanno recentemente  pubblicato il loro diciottesimo album in studio “Fuck Everyone and Run (F E A R)”.

Ho seguito “a singhiozzo” l’attività degli ultimi decenni della band forse anche a causa della simpatia e della stima che ho avuto e nutro tuttora per Fish e… per l’antipatia provata in più occasioni per Steve Rothery!

Un esempio? Due recenti interviste a Fish e a Rothery!

Steve (Rothery), cosa accadde quando vi separaste da Fish? «Non so perché, ma non ci preoccupammo per nulla quando Fish se ne andò, anzi! ».

Fish, che rapporto hai oggi con Steve Rothery e gli altri tuoi ex compagni dei Marillion? «Preferisco solitamente non rispondere perchè vengo spesso frainteso. Scherzi a parte sono in buoni rapporti con Steve e i ragazzi! »

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=2zfdqII73fQ&w=640&h=480]

 

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Malcolm Young

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Perth

 




GIZMODROME

Stewart Copeland? Mark King? Adrian Belew? Vittorio Cosma?

No, eh? E se dicessi: THE POLICE? LEVEL 42? KING  KRIMSON? PREMIATA FORNERIA MARCONI?

Questi sono i GIZMODROME.

Copeland alla batteria e voce, King al basso, Belew alle chitarre e Cosma alle tastiere e piano.

Disco divertente il primo lavoro omonimo della Super Band voluta da Cosma&Copeland, dove gli assoluti ottimi musicisti che arrivano da esperienze e generi diversissimi tra loro hanno potuto sperimentare in assoluta naturalezza ed istintività.

Ascoltando i pezzi del disco si nota innanzitutto l’amicizia che aleggia tra i quattro big e già dalle prime tracce è evidente in ogni passaggio come le performance nascano innanzitutto dal desiderio di intrattenere ed allietare.

Registrato a Milano nello studio “Officine Meccaniche” di Mauro Pagani (ex P.F.M. e produttore di molti big della musica italiana dalla Nannini, a Ligabue, ai Timoria etc…) GIZMODROME è un prodotto riuscito, un prodotto volutamente senza fronzoli dove emergono in modo evidente le assolute qualità dei singoli.

Gli appassionati di Mark King troveranno un unico vero pezzo dove è evidente la tecnica slap del bassista dei LEVEL 42: “Spin this”, pezzo molto intrigante. L’ascoltatore poi non deve spaventarsi per la voce che nel disco è quella dell’ex POLICE Stewart Copeland, anche questo fa parte del gioco  GIZMODROME.

Una vera chicca è la presenza di Elio (ELIO E LE STORIE TESE) nell’ultima track “Zubatta Cheve” che definisce bene lo spirito goliardico del disco. Cosma in una recente intervista afferma: “la mancanza di committenza ci ha reso liberi, è una situazione da amici, non da supergruppo col fiato dei manager sul collo.

GIZMODROME è un parco giochi per musicisti che suonano in libertà”.

TRACKLIST
01. Zombies in the Mall – (03:59)
02. Stay Ready – (04:01)
03. Man in the Mountain – (03:43)
04. Summer’s Coming – (03:30)
05. Sweet Angels (Rule the World) – (02:56)
06. Amaka Pipa – (03:39)
07. Strange Things Happen – (02:55)
08. Ride Your Life – (03:43)
09. Zubatta Cheve – (04:01)
10. Spin This – (06:09)
11. I Know Too Much – (03:47)
12. Stark Naked – (04:03)

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Perth




PERGOLESI & CARAVAGGIO: LA PROVOCAZIONE DELLA BELLEZZA

I miei studi classici di pianoforte non hanno fatto di me un bravo interprete e un bravo esecutore, soprattutto per due motivi: il primo è che dopo anni passati a suonare Bach, Wagner, Beethooven ho avuto la repulsione per lo strumento a corde più famoso al mondo ed il secondo è che sin da piccolo ho sempre desiderato fondare una Hard Rock Band, scrivere musica originale e passare finalmente alla mia passione: la chitarra elettrica, passione che coltivo tuttora.

Ad onor del vero devo ringraziare i miei genitori perché solo dopo anni ho capito quanto importante sia stato il sudore versato tra solfeggi e tasti bianchi e neri che ha suscitato una passione forte per la musica in genere e, a piccole dosi, anche per la musica classica.

Oggi apprezzo molto, oltre ai classici succitati, compositori straordinari come Stravinskji, Ravel, Debussy, Bartók e attuali come Ludovico Einaudi e l’amico Remo Anzovino (è fresco di stampa il suo nuovo album “Nocturne” che consiglio vivamente ai lettori di BetaPress.it; n.d.a.).

L’incontro più bello e commovente l’ho avuto però con Giovanni Battista Draghi detto “Pergolesi” (Jesi, 4 gennaio 1710 – Pozzuoli, 16 marzo 1736) ad una presentazione di un quadro del più grande pittore di tutti i tempi: Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio” (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610).

Il quadro in questione era “La morte della Vergine” e la musica di sottofondo l’ultima opera di Pergolesi, lo “Stabat Mater” (Pergolesi morì a soli 26 anni di tubercolosi; n.d.a.).

L’affinità e la simpatia provata durante l’esposizione del quadro per il binomio Caravaggio-Pergolesi mi ha spinto a conoscere più a fondo i due artisti e le loro opere.

Di Caravaggio potrei scrivere per ore (pur non essendo un critico d’arte; n.d.a.), ma mi limiterò a parlare del quadro in questione e dell’ultima opera di Pergolesi e di quella strana corrispondenza tra una delle più grandi meraviglie del pittore lombardo e dell’immensa melodia gregoriana del compositore campano.

Non posso negare che “La vocazione di San Matteo”, che ho contemplato più volte nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, è il quadro che preferisco in assoluto del Caravaggio ma “La morte della Vergine” a mio avviso è qualcosa di sublime!

I capolavori di Pergolesi e di Caravaggio furono commissionati da ordini e confraternite religiose.

Ne “La morte della Vergine” si narra che Caravaggio abbia utilizzato il cadavere di una prostituta annegata nel Tevere qualche anno prima come modello per Maria.

Ci fu grande scandalo per il presunto squallore dell’opera che pareva non richiamare alla santità della Vergine, Caravaggio al contrario volle pensare ad un quadro in perfetto equilibrio tra religiosità, quotidianità e… provocazione!

Quella di Maria è una delle immagini morte più rivoluzionarie di tutta la storia dell’arte.

Diversamente da altre opere infatti, nella scena è assente ogni riferimento al sacro, e non c’è alcun indizio che possa suggerire il riconoscimento della Vergine.

Anche gli apostoli e gli altri protagonisti del quadro sono ritratti come dei semplici popolani, privi di aureola o di qualche particolare che li renda identificabili! Spettacolo!

Un tributo alla povertà non compreso dai Committenti (votati tra l’altro alla povertà; n.d.a.) ma soprattutto un messaggio fortissimo: la Madonna, secondo le testimonianze dei Vangeli morì anziana, guardando invece la donna ritratta di Caravaggio, sembra essere il contrario; una donna molto giovane simbolo della Chiesa immortale e con il ventre gonfio per simboleggiare la Grazia Divina che riempie la Vergine…un vero genio!!! Ma passiamo a Pergolesi, destino simile.

L’accusa maggiore, che fu mossa a Pergolesi dai suoi detrattori circa lo Stabat Mater, fu quella di aver musicato un testo sacro con una musica di carattere lirico e profaneggiante.

Per il compositore ci furono polemiche sia in patria che all’estero da parte di chi contestava che lo stile non fosse appropriato per una opera religiosa.

La provocazione di Pergolesi è di una bellezza e di una profondità uniche! Ogni strofa musicata della preghiera di Jacopone da Todi (la sequenza “Stabat Mater” è attribuita al religioso e poeta italiano Jacopone da Todi – III Secolo, venerato come beato della Chiesa Cattolica; n.d.a.) è affrontata con autenticità, schiettezza e profonda pregnanza, altro che profanazione! Stupore assoluto!

C’è una strana e piena sintonia tra i due capolavori del Caravaggio e del Pergolesi, una sintonia che mi ha colpito sin dal primo istante e che mi ha portato a riflettere sulla genialità dei due personaggi.

Vorrei invitare il lettore ad immedesimarsi con ciò che sto dicendo e, di fronte alle immagini del quadro del Caravaggio, con il sottofondo del componimento del giovanissimo Giovan Battista Pergolesi, verificare di persona quanto sia realmente palpabile la provocante Bellezza espressa dai due tra i più grandi talenti cui il nostro Paese ha dato i natali.

 

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