Bagnoregio e la scrittura creativa

Dall’11 al 13 aprile 2018, presso l’Istituto Omnicomprensivo “F.lli Agosti” di Bagnoregio (VT), si è svolto un corso di scrittura creativa intensivo rivolto agli alunni delle classi terze dell’Istituto Tecnico Agrario, con la collaborazione della casa editrice Currenti Calamo.

I ragazzi sono stati introdotti nell’affascinante mondo della scrittura creativa dagli editor della casa editrice lombarda, che hanno condiviso con il loro giovane uditorio i trucchi del mestiere, svelando procedimenti e curiosità utili a realizzare un testo ben scritto e a incanalare la propria creatività nella maniera più proficua. Con una stimolante commistione di teoria e pratica, i ragazzi hanno appreso alcune delle procedure più diffuse per condurre una precisa e puntuale correzione di bozze, rispolverando e rafforzando le conoscenze pregresse sulle regole di ortografia, grammatica e sintassi; hanno preso parte, con grande entusiasmo, a una serie di esercizi di scrittura creativa atti a consentir loro di acquisire dimestichezza con l’arte della scrittura, con la capacità di riportare nero su bianco, in modo creativo e originale, i propri pensieri e le proprie emozioni, rivelando notevoli capacità non solo inventive, ma anche tecniche.

Alcuni ragazzi e ragazze hanno condiviso con i compagni di classe la lettura dei propri componimenti, tra cui si annoverano poesie, monologhi teatrali, testi musicali, racconti e romanzi. La timidezza iniziale è stata ben presto sostituita dalla partecipazione appassionata con cui i ragazzi si sono cimentati in tutte le attività condotte dagli editor, dimostrando, nonostante la giovane età, una proprietà di linguaggio degna degli scrittori più navigati e una profondità d’animo, una delicatezza, che noi adulti possiamo solo invidiare.

Guidati dagli editor i ragazzi hanno dato libero sfogo alla dolcezza dei loro cuori, all’ardore delle loro idee giovanili di uguaglianza, giustizia e libertà, alla purezza dei loro sentimenti; per qualche ora sono stati completamente liberi di esprimersi nella maniera più congeniale: attraverso la letteratura, la poesia, il teatro e la musica, condividendo con i compagni di classe e con i docenti i loro talenti.

Le lezioni degli editor, poi, si sono allargate sino a comprendere nozioni di Scienze della comunicazione e di prossemica. Non sono mancati momenti di confronto sulle tematiche più discusse e calde concernenti il mondo della comunicazione massmediatica: la massificazione, la perdita dell’identità individuale, l’impoverimento lessicale, i pro e i contro dei social network. Tutti i ragazzi sono intervenuti nel dibattito per esprimere le proprie idee e conoscere il parere dei compagni; l’esperienza si è rivelata profondamente costruttiva e benefica per una generazione di giovani che hanno un assoluto bisogno di imparare a pensare in modo critico e, soprattutto, ad ascoltare.

 




Sulle ALI dell’autoironia: Io mi libro di Alessandro Pagani

Per il suo nuovo libro, Alessandro Pagani non avrebbe potuto scegliere un titolo più emblematico: Io mi libro (96, rue de-La-Fontaine, Torino 2017, pp. 78) è una raccolta di 500 freddure, battute umoristiche, modi di dire, doppi sensi e giochi di parole che, con delicata ironia, scherniscono la nostra piccola epica quotidiana, insistendo sulle situazioni più comiche e grottesche in cui spesso capita di imbattersi.

Alessandro Pagani, con un procedimento formale che ricorda il fulmen in clausulam  degli epigrammi di Marziale, adopera la scrittura aforismatica come strumento attraverso cui condurre il lettore a un’autoironica riflessione su se stesso, sui propri limiti e sui lati più bizzarri e tragicomici della propria esistenza, al fine di esorcizzarli e superarli con la leggerezza tipica del riso, necessaria e vitale per non lasciarsi sopraffare dalla tristezza, per svincolarsi temporaneamente da quell’eccessiva serietà con cui l’uomo ha condizionato se stesso e la propria natura, soffocandone il lato più vivace, spensierato e frizzante.

Io mi libro è una critica originale e pungente alla tendenza che tutti noi abbiamo a prenderci troppo sul serio, a lasciarci travolgere dal pessimismo e dalla negatività e, soprattutto, a ingigantire ogni singolo problema, anche il più minuscolo, perché incapaci di riderci su, di pensarlo con la leggerezza dell’autoironia e di perdonare i nostri errori.

L’approccio di Pagani al riso si condensa in una profonda e rispettosa consapevolezza dello straordinario potere insito in questo sentimento, e si inserisce nel solco tracciato dai grandi maestri della filosofia e della letteratura moderna e contemporanea, come Leopardi, Bergson e Pirandello, tutti e tre accomunati dalla convinzione che non vi sia «nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano» e che il riso sia una prerogativa esclusiva dell’essere umano, perché il solo dotato di ragione tra gli esseri viventi.

Il riso, infatti, si concretizza come il risultato di una riflessione, talvolta amara, sulla propria condizione e su quella altrui e la grandezza del suo potere consiste nell’ottenimento, a seguito di questa riflessione, di una maggiore consapevolezza della vanità dell’esistenza e delle cose, dei limiti della natura umana, della sua perfettibilità e imperfezione, della sua delicatezza, con la conseguente sensazione di sentirsi parte di una grande famiglia di individui che sbagliano, inciampano in situazioni imbarazzanti, vengono travolti dai problemi, ma trovano sempre il coraggio di sdrammatizzare, di ridere delle proprie fragilità, di superare ogni situazione tragica o comica che sia, con leggerezza e autoironia.

Gli strumenti adottati da Alessandro Pagani per far luce sui paradossi della nostra vita sono i paradossi della nostra lingua: ossimori, giochi di parole, doppi sensi, casi di omografia, omofonia e omonimia linguistiche, vengono adoperati dall’autore per schernire la modernità e le sue peculiari passioni, come quella per i programmi di cucina e per i cuochi, rappresentanti di una nuova generazione di artisti nell’epoca del divismo minore di massa, in cui in tutto il mondo la filosofia, la pittura e la letteratura stanno cedendo il posto alla gastronomia («Decine e decine di aspiranti chef in tv: il pressa-cuochismo»); oppure quella per i talent show e per i reality, sempre più trash e volgari, in una società che ha un’insaziabile ‘fame di fama’, direbbe Pagani, ossessionata dalla voglia di farsi notare e accaparrarsi i celeberrimi quindici minuti di celebrità, anche solo virtualmente sui social network, anche se l’unico talento che si possiede è quello di essere figlio di una personaggio talentuoso («Nuovo contest in arrivo che vedrà sfidarsi figli d’arte. Talent padre, talent figlio»; CHIESA SOCIAL: Scambiatevi un segno: ? mi piace).

Ci sono, poi, frasi che giocano con le parole e frasi che giocano con proverbi e modi di dire tipici della nostra lingua.

Tra le pagine di Io mi libro, l’autore sperimenta l’infinita produttività del linguaggio verbale umano, combinando le parole con la stessa creatività di un musicista che combina le note musicali per ottenere le più svariate e originali melodie o di un pittore che miscela i colori per creare nuove sfumature.

Giocando con grande maestria con il significato letterale e quello metaforico delle parole, Pagani allestisce un carosello linguistico attraverso cui esplorare l’enorme complessità della lingua italiana e le diverse sfaccettature dei suoi lemmi, sfruttando i paradossi linguistici come gli ossimori e gli omonimi per fare il verso ai paradossi quotidiani.

Come a chiudere il cerchio, Alessandro Pagani decide di collocare alla fine di un lavoro intitolato Io mi libro, un breve testo di kafkiana memoria, dal titolo Piccolo racconto onirico, in cui racconta di aver sognato di librarsi in volo, sfruttando il candido e folto piumaggio delle ali di cui, a seguito di una metamorfosi notturna, si ritrova dotato.

Volteggiando tra le nuvole sui tetti di Firenze e sui luoghi della sua giovinezza, Pagani s’interroga sul perché, da sempre, l’uomo sogna di volare: forse per osservare il mondo dall’alto, per alleggerire la propria esistenza osservando le cose da un altro punto di vista e dimenticarsi per un attimo di essere così prevedibili e attaccati alle cose terrene, così pesanti e seriosi.

Pagani accompagna il lettore sino all’uscio del racconto, disseminando tra le pagine del libro una serie di curiosi e accattivanti indizi linguistici, sotto forma di allitterazioni e anafore dello stesso gruppo sillabico, “ALI”, segnalato graficamente in tondo maiuscolo (ad es. ‘reALI’, verbALI’, ‘ALIbi’ e così via).

Una volta varcata la soglia, il lettore si sentirà in grado di continuare da solo la restante parte del viaggio, per approdare all’ultima pagina del racconto con la consapevolezza di aver trovato in quel gruppo sillabico in maiuscolo che volteggia come un uccello tra le pagine del libro, l’ultimo elemento necessario a completare il significato del lavoro di Alessandro Pagani: Io mi libro è un omaggio delicato e brillante allo straordinario potere della lettura che consente all’uomo che sogna di volare, di librarsi in volo anche senza ali.

 




ISRAELE e GERUSALEMME: gradiente di separazione

Trump riconosce Gerusalemme capitale d’Israele: «scelta necessaria per la pace», ma è subito violenza

Mercoledì 6 dicembre il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha rilasciato pubblicamente delle dichiarazioni molto forti su un argomento molto delicato, ovvero lo storico conflitto fra Israele e Palestina.

Dal lontano 1967, quando le forze armate israeliane si appropriarono dell’intera parte orientale di Gerusalemme scacciando i palestinesi che l’abitavano e costringendoli a rifugiarsi nei campi profughi, la questione mediorientale rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la comunità internazionale, avendo ormai assunto le fattezze di una bomba a orologeria pronta a esplodere per l’ennesima volta.

A seguito dell’annessione israeliana di Gerusalemme, l’Onu e la politica internazionale hanno scelto di non riconoscere la città santa come «unificata capitale» dello Stato ebraico, prediligendo piuttosto il mantenimento di un atteggiamento neutro e prudente; anzi, la carta del riconoscimento della capitale è sempre stata utilizzata, soprattutto dagli Stati Uniti, per ottenere da parte di Israele concessioni a favore dei palestinesi.

In seguito, con lo scoppio della Prima Intifada nel 1987, la situazione si è inasprita a tal punto da spingere la politica internazionale a scegliere, in occasione dei negoziati di pace di Oslo nel 1992-93, di affrontare la questione Gerusalemme in un momento successivo e specificamente dedicato.

Tuttavia, gli innumerevoli sforzi compiuti dalla politica internazionale in direzione di una mediazione ponderata tra le due parti, sono stati completamente vanificati nella giornata di mercoledì 6 dicembre, quando, con la nonchalance di un cameriere che comunica il piatto del giorno ai suoi clienti, Donald Trump ha dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti d’America riconoscono Gerusalemme «capitale di Israele» e che sono già state approntate le misure per trasferire l’Ambasciata americana da Tel Aviv alla città santa.

Ovviamente Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, ha accolto la notizia con l’entusiasmo di un attaccante che segna al novantesimo: «è una svolta storica. Spero che altri governi seguano presto l’esempio americano. Ogni trattato di pace deve includere Gerusalemme come la nostra capitale».

D’altronde Donald Trump non ha fatto altro che prestar fede alle promesse elettorali, presentando quest’ennesima gaffe come una decisione atta a realizzare una rottura rispetto alle amministrazioni del passato: «antiche sfide domandano nuove soluzioni», dice il tycoon, sostenendo che «il riconoscimento di Gerusalemme aprirà a nuove prospettive di pace».

In realtà, gli effetti funesti di questa dichiarazione non hanno tardato a manifestarsi e, di certo, non preannunciano l’avvento di «nuove prospettive di pace».

L’annuncio del presidente americano, infatti, ha acceso la rabbia e l’indignazione in molti paesi del mondo, suscitando un’ondata di critiche da parte della comunità internazionale a cui sono ovviamente cadute le braccia.

Forte la reazione di Ismail Haniya, leader degli estremisti palestinesi di Hamas, che ha definito le parole di Trump una «dichiarazione di guerra contro i palestinesi» e ha richiesto una nuova intifada per sconfiggere il nemico sionista.

A Gaza alcuni palestinesi hanno dato in pasto alle fiamme le bandiere di Israele e degli USA e, solo due giorni dopo le dichiarazioni di Trump, la violenza si è riaccesa in prossimità dell’omonima Striscia, laddove a Ramallah, in Cisgiordania, e in altri luoghi, si sono verificati una serie di scontri armati tra manifestanti palestinesi e soldati israeliani.

Ai margini della città palestinese di Ramallah, le forze israeliane hanno sparato dozzine di proiettili di gas lacrimogeni e granate stordenti a centinaia di manifestanti palestinesi riuniti per dar sfogo alla propria rabbia per le dichiarazioni di Trump.

Scontri sono scoppiati anche a Gerusalemme Est e al confine tra Israele e Gaza: a Betlemme l’atmosfera natalizia ricreata dalle luci colorate è stata bruscamente soppiantata dalla paura e dalla tensione a seguito del lancio di pietre e lacrimogeni.

Ad uno dei principali punti di controllo tra Gerusalemme e Ramallah, i soldati sparavano proiettili di spugna contro i bambini che lanciavano pietre da dietro bidoni della spazzatura.

Nel frattempo, l’esercito israeliano si sta preparando per un aumento della violenza nei prossimi giorni e ha rinforzato le sue truppe in Cisgiordania, aggiungendo unità all’intelligence e alle truppe che si occupano della difesa territoriale.

Anche le istituzioni statunitensi in queste ore si stanno preparando a fronteggiare ripercussioni violente: il Dipartimento di Stato ha limitato i viaggi per gli impiegati del governo degli Stati Uniti a Gerusalemme e in Cisgiordania, sconsigliando ai suoi cittadini la frequentazione di zone solitamente affollate.

Insomma, a pochissime ore dalle dichiarazioni del presidente Trump, già dilagano violenza, tensione e paura e la situazione sembra essere destinata a peggiorare.

Per la giornata di venerdì 8 dicembre è prevista una “giornata della rabbia” fortemente voluta da Haniya, leader di Hassad, da cui, come lui stesso afferma, avrà inizio «un ampio movimento di liberazione» per Gerusalemme.

Il livello di tensione è altissimo, si teme fortemente che la situazione possa degenerare in un altro sanguinoso conflitto; ormai, però, alea iacta est e non si può tornare indietro, non si possono cancellare le parole di un leader politico che sembra proprio non riuscire a comprendere quanto enorme sia la responsabilità legata al suo ruolo e quanto sia fondamentale porre fine agli innumerevoli tentativi di portare scompiglio in un mondo già così problematico.

 




Spazio900: serve ancora leggere?

A Roma, presso la Biblioteca Nazionale Centrale, è possibile visitare il primo museo permanente all’interno di una biblioteca pubblica.

Il suo nome è Spazi900 e ospita, oltre a intere biblioteche d’autore, archivi e carte autografe degli scrittori contemporanei più celebri del patrimonio letterario italiano del Novecento: inediti di Italo Svevo, Eugenio Montale, Umberto Saba e del futurista Filippo de Pisis, ma anche la sceneggiatura del film di Roberto Benigni La vita è bella, scritta a quattro mani con Vincenzo Cerami e i Versi intimi, primo volumetto di poesie di Sandro Penna.

Questi, tuttavia, sono solo alcuni dei moltissimi nomi che figurano negli archivi del museo che consta di due Gallerie in cui gli autori vengono smistati in base ad una precisa periodizzazione: nella prima Galleria è possibile imbattersi nei documenti autografi di scrittori che hanno operato nella prima metà del Novecento come Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Camillo Sbarbaro, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo.

La seconda Galleria, invece, è dedicata alla seconda metà del Novecento: si incontrano dapprima i documenti autografi di Pier Paolo Pasolini e i suoi sodali, Alberto Moravia e Natalia Ginzburg, per poi imbattersi negli autografi di Mario dell’Arco, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e Sandro Penna e si procede, infine, in direzione del nuovo secolo con Franco Fortini, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, Italo Calvino, Vincenzo Cerami, Amelia Rosselli e Dario Bellezza.

Le due Gallerie con le carte autografe degli scrittori rappresentano una novità assoluta nella storica e prestigiosa Biblioteca Nazionale Centrale di Roma che negli ultimi anni, grazie a una mirata politica di incremento dei fondi, ha ampliato con sempre maggior abbondanza il patrimonio di raccolte librarie e archivistiche di autori contemporanei custodito al suo interno, tanto da costituire oggi uno dei poli più significativi e autorevoli per gli studi sulla letteratura italiana del Novecento.

Originalissima e fortemente suggestiva è anche la cosiddetta “Stanza di Elsa”, ovvero una zona del museo Spazi900 in cui, attraverso l’utilizzo di elementi d’arredo originali, viene efficacemente ricreata l’atmosfera presente nello studio in cui la Morante era solita lavorare ai suoi romanzi.

La possibilità di osservare da vicino testi autografi di autori così importanti per il patrimonio letterario italiano, riporta in auge una domanda a cui spesso si tenta di fornire una risposta quanto più possibile in grado di illustrare gli enormi benefici che la diffusione della letteratura offre a ciascuno: a che serve leggere?

O ancora, a che serve la letteratura?

La difficoltà di rispondere brevemente, ma efficacemente, a questo tipo di domande rappresenta, forse, uno degli incubi peggiori di ogni docente o studente di Lettere, di ogni appassionato o addetto ai lavori nel settore della cultura.

Dopo anni di allenamento, sono riuscita a mettere insieme le idee in modo organico e coerente e mi sono accorta che basta poco per rispondere a queste domande con la capacità di persuasione di Giorgio Mastrota: la lettura nutre la mente e la libera dai vincoli strettissimi in cui molto spesso le convenzioni la imprigionano; attraverso le pagine di un buon libro è possibile incontrare culture e lingue diverse e viaggiare con l’immaginazione in territori esotici e lontani, abbattendo la barriera del pregiudizio.

La lettura arricchisce il lessico, accresce la sensibilità, difende la democrazia, innaffia il terreno di un sistema di valori che altrimenti sarebbe arido e pericolosamente scarno per la nostra società.

La lettura rafforza il senso di appartenenza alla comunità umana e fa sì che tutti, a prescindere dall’orientamento politico, dall’etnia, dal credo religioso, possano incontrarsi a metà strada nel territorio apolitico, apolide e laico del sentimento, laddove gli uomini e le donne sono tutti uguali perché l’amore, il dolore, la tristezza, il lutto, lo sconforto, la gioia e la speranza non hanno colore, sesso o religione.

Seppur sospeso in uno spazio senza luogo e senza tempo, la letteratura è uno dei pochissimi luoghi in cui non trionfa la materia, ma lo spirito; la letteratura dà voce alla bellezza, alla passione, al sentimento.

D’altronde, è di questo che siamo fatti: carne, materia corruttibile e mortale, ma anche passione, ambizioni, sogni, pulsioni, amore per la bellezza.

Mi vengono in mente le parole pronunciate dall’indimenticabile Robin Williams ne L’Attimo fuggente, mentre veste i panni dell’agguerrito e appassionato Professor Keating: «non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi Leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. E la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita».

Spesso tendiamo a dimenticarlo, ma parole e idee possono davvero salvare il mondo.




Generazioni maligne

Un futuro di povertà nella società del benessere: i dati Ocse sulle disuguaglianze tra generazioni in Italia

Secondo il rapporto Preventing ageing unequally (“Come prevenire le disuguaglianze legate all’invecchiamento”) stilato dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, per le nuove generazioni italiane si preannuncia un futuro decisamente a tinte fosche: meno occupazione e più povertà rispetto a quelle che le hanno precedute.

L’Organizzazione parigina sottolinea come negli ultimi trentanni, in Italia, si sia notevolmente ampliato il divario tra le vecchie e le nuove generazioni.

Mentre il tasso di occupazione per coloro che possiedono un’età compresa tra i 55 e 64 anni è cresciuto del 23% tra il 2000 e il 2016, nello stesso arco di tempo è crollato dell’11% per i giovani di età compresa tra i 18 e 24 anni.

Secondo i dati raccolti dall’Ocse, se è vero che la povertà relativa risulta diminuita per le vecchie generazioni, è anche vero che risulta notevolmente cresciuta per le nuove generazioni, i cui membri, intrappolati in lavori non-standard, trovano difficoltà a ottenere un’occupazione stabile.

Certamente questa difficoltà è accresciuta dall’elevato costo del lavoro per i contratti a tempo indeterminato, fra i più alti del mondo nel nostro Paese.

Elevato, ovviamente, sarà il costo di una carriera iniziata tardi e discontinua per la pensione, una parola che rischia di trasformarsi in un’antica leggenda per le nuove leve.

In Italia, spiega l’Ocse, «le ineguaglianze tra i nati dopo il 1980 sono già maggiori di quelle sperimentate dai loro parenti alla stessa età» e, dal momento che «le diseguaglianze tendono ad aumentare durante la vita lavorativa, una maggiore disparità tra i giovani di oggi comporterà probabilmente una maggiore diseguaglianza fra i futuri pensionati, tenendo conto del forte legame che esiste tra ciò che si è guadagnato nel corso della vita lavorativa e i diritti pensionistici».

Insomma, le nuove generazioni che si affacciano o si sono già affacciate all’età adulta, dopo essere cresciute nella società del benessere, con la promessa di una sempre più graduale espansione della prosperità economica e del progresso, sono destinate a scontrarsi con l’infedeltà di un mondo tanto promettente quanto arido di possibilità.

Vittime di una società liquida, cioè priva di fondamenti stabili e di valori duraturi, le nuove generazioni si ritrovano costrette ad affrontare il futuro senza quegli stimoli, quelle speranze e quelle possibilità di realizzazione di cui hanno goduto le generazioni più anziane.

Siamo cresciuti con la promessa di un’espansione infinita, invece viviamo in universi in contrazione in cui ciascuno sa che sarà più povero o più disoccupato della generazione precedente.

Bisogna riconoscerlo, con le nuove generazioni i tempi sono stati infedeli, non hanno mantenuto quelle promesse di prosperità e benessere che hanno spinto a credere al miraggio di un futuro in cui essere infelici sarebbe stato un crimine.

Le generazioni più anziane hanno gettato ai propri figli un osso già spolpato, commettendo un vero e proprio saccheggio intergenerazionale e venendo meno a quel patto di solidarietà tra vecchi e giovani che in passato garantiva il benessere di entrambi.

Negli ultimi decenni si è innegabilmente consumata un’intrinseca ingiustizia, pur nel rispetto della legalità formale: le vecchie generazioni sembrano concludere il loro ciclo biologico come “generazioni egoiste”, arroccate sul principio del rispetto dei diritti acquisiti che, applicando un criterio di giustizia su base generazionale, potrebbero ragionevolmente essere definiti “privilegi”, vantaggi concessi a una specifica frazione della società.

È un paradosso, ma si preannuncia un futuro di povertà e disoccupazione per le generazioni nate e cresciute nell’epoca più florida, progredita e ricca di possibilità della storia.

 




Federica Brocchetti, la portaborse in nero che ha sfidato il Parlamento

Federica Brocchetti, la portaborse in nero che ha sfidato il Parlamento

Si chiama Federica Brocchetti l’ex assistente parlamentare dell’Onorevole Mario Caruso che, attraverso il programma televisivo “Le Iene”, ha coraggiosamente sfidato il Parlamento italiano, denunciando pubblicamente di aver lavorato come portaborse per un anno e mezzo, senza un regolare contratto di lavoro e senza percepire alcun compenso economico per tutta la durata dell’incarico.

La giovane ha raccontato al microfono della iena Filippo Roma di aver intrapreso inizialmente uno stage non retribuito della durata di tre mesi, anche in questo caso senza la sottoscrizione di alcun contratto; poi, con la promessa di un regolare contratto di lavoro, reiterata più volte nel corso dell’anno, a Federica è stato proposto di continuare a svolgere l’attività di assistente parlamentare nei mesi successivi.

Dopo un anno e mezzo, però, non si era ancora concretizzato nulla e la ragazza ha deciso di denunciare gli imbrogli che si consumano nei palazzi del potere.

Ad accrescere l’ingiustizia del trattamento riservato alla Brocchetti interviene, poi, un particolare dal retrogusto fortemente sessista: mentre la ragazza lavorava per la gloria come portaborse, Fabrizio Rossi, figlio del sottosegretario alla difesa Domenico Rossi, risultava segnato in un regolare contratto di lavoro come assistente parlamentare dell’Onorevole Caruso.

Insomma, Federica Brocchetti lavorava “aggratis”, mentre Fabrizio Rossi percepiva un cospicuo stipendio, secondo contratto, per starsene a casa in panciolle.

Per avvalorare le sue testimonianze, la Brocchetti ha pensato bene di registrare un colloquio avuto con l’Onorevole Caruso, in cui chiedeva chiarimenti circa la posizione di Fabrizio Rossi e la conseguente impossibilità, per lei, di firmare un regolare contratto di lavoro.

Alla domanda «perché Fabrizio Rossi è segnato come suo assistente?», Caruso risponde di aver «fatto una cortesia al papà», ovvero al Generale Domenico Rossi, con cui Caruso condivide l’ufficio.

Domenico Rossi era già noto alla redazione de “Le Iene” che, qualche anno fa, aveva indagato sull’uso irregolare che il Generale faceva di un’auto blu del Ministero della Difesa, facendosi prelevare direttamente da casa o accompagnare allo stadio.

Che la Brocchetti si recasse in Parlamento per svolgere effettivamente delle mansioni impartitele dall’Onorevole Caruso e non per guardare le mosche, lo confermano alcuni messaggi che la ragazza ha conservato sul suo cellulare, in cui Caruso le chiedeva di presentarsi in ufficio a una certa ora, di correggere dei curriculum, di procurargli dei documenti, e così via.

Il presidente della Camera Fausto Bertinotti, nel 2007, aveva promesso al microfono dello stesso Filippo Roma un regolamento che stabilisse che nessun portaborse potesse entrare nella Camera o in Senato senza un regolare contratto di lavoro e, in effetti, così è stato stabilito.

Ma quando si tratta di raggirare le leggi, si sa, Italians do it better.

Perciò, fatta la legge, trovato l’inganno: i portaborse possono comunque accedere alla Camera o al Senato anche senza contratto, utilizzando un badge ottenuto su richiesta del gruppo parlamentare.

Come hanno spiegato Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera dei deputati, e l’Onorevole Fraccaro, membro dell’Ufficio di presidenza della Camera, è necessario solamente che il capogruppo firmi un’autocertificazione in cui afferma che una determinata persona è «sua amica» per poterle rilasciare il tesserino; tuttavia per il capogruppo in questione c’è sempre il rischio di compromettersi penalmente.

«Non c’è un buco nel regolamento, ma una voragine», continua Di Maio.

Oltre al danno, anche la beffa per Federica Brocchetti, alla quale, subito dopo la messa in onda del servizio de “Le Iene”, è stato comunicato di non presentarsi più in ufficio.

Le è stato persino bloccato il tesserino e quando la ragazza ha provato ad entrare in Parlamento per recuperare alcuni oggetti personali, le è stato interdetto l’accesso.

Nessuno dei dipendenti ha manifestato la minima solidarietà nei confronti di Federica, una giovane ragazza che ha finalmente trovato il coraggio di denunciare le ingiustizie che si consumano in quei palazzi che dovrebbero essere il baluardo della giustizia.

Già, perché proprio nel luogo in cui si fanno le leggi, queste stesse leggi vengono quotidianamente raggirate e le vittime principali di questo sistema fallace sono spesso i portaborse, figure deboli pagate in nero o addirittura non retribuite.

Sono moltissime le testimonianze di assistenti parlamentari che affermano di ricevere soldi in nero e di vedersi ovviamente negati diritti come la maternità, la liquidazione e la tredicesima.

È ovvio che i parlamentari vogliono continuare a fare la cresta sulla voce “portaborse” del loro stipendio, ma solo quando i portaborse sono figli di nessuno, persone comuni.

Quando invece l’assistente parlamentare è figlio di o nipote di, stranamente, tutte le porte si spalancano, i liquidi non mancano e gli “onorevoli” dimostrano un’affabilità e una generosità senza precedenti.

Ciliegina sulla torta, l’Onorevole Caruso aveva anche fatto delle avances alla Brocchetti, prima durante una cena e poi tramite sms, quando, con il sex appeal di una carota lessa, le ha scritto «sono a casa, valuta tu cosa fare»; è proprio vero, la cavalleria è bella che morta.

Caruso ha confermato, sempre nel famoso colloquio registrato dalla Brocchetti, di averla invitata a trasformare il rapporto di lavoro in qualcosa di più…intimo.

Ma quando la Brocchetti gli ha confidato di aver temuto ripercussioni sul lavoro dopo il suo rifiuto, l’Onorevole l’ha consolata dicendole di non preoccuparsi perché «quelle erano due cose distinte e separate».

Vuoi vedere che Caruso si era innamorato della giovane assistente?

Nessuna meraviglia per questa notizia.

Sono cose che capitano, soprattutto in Italia, dove la meritocrazia, la trasparenza e la legalità, ormai, sono solo vagheggiate chimere.

Nella storia di Federica Brocchetti ci sono tutti gli ingredienti per raccontare l’ennesima ingiustizia all’italiana, fatta di favoritismi, violazioni del protocollo e, in questo caso, anche di squallore sessista.

La Brocchetti ha confidato al presidente della Camera Laura Boldrini, che ha voluto incontrarla per esprimerle la sua vicinanza, di temere che le alte personalità politiche coinvolte in questa vicenda che ha destato moltissimo scalpore al livello mediatico, possano farle terra bruciata intorno; ma la Boldrini l’ha rassicurata dicendosi colpita dal coraggio con cui la ragazza ha sfidato il Parlamento.

È proprio vero, coraggio invidiabile. Brava Federica Brocchetti, una ragazza brillante e intraprendente la cui determinazione rappresenta un ottimo esempio per le giovani donne di questo paese.




Doxa: la scuola piace di più, ma gli Italiani studiano di meno…

Doxa: 9 italiani su 10 hanno un bel ricordo della scuola

A pochi giorni dalla riapertura delle scuole nel nostro Paese, la Doxa, principale ideatrice delle ricerche di mercato in Italia, ha recuperato dagli archivi una ricerca condotta ben venticinque anni fa, nel 1992, per avviarla nuovamente al fine di confrontare i risultati ottenuti in passato con quelli del presente e far luce su un tema poco discusso ma estremamente importante per ciascuno di noi: i ricordi delle esperienze vissute tra i banchi di scuola.

Attraverso questa ricerca è emerso che la maggior parte degli intervistati serba un ricordo relativamente positivo della propria esperienza scolastica.

Se nel 1992, infatti, il 6% degli intervistati aveva riferito di avere un ricordo negativo della propria esperienza scolastica elementare, media e superiore, per quanto concerne la scuola elementare, solo il 3.5% degli intervistati nel 2017 riferisce di averne un ricordo negativo, mentre appena il 4.5% confessa di avere un brutto ricordo delle scuole medie e superiori.

È evidente, dunque, che la percezione negativa, attualmente, è generalmente inferiore rispetto a quanto registrato un quarto di secolo fa.

Attraverso la ricerca della Doxa è emerso anche un altro dato interessante, cioè la grande importanza che ciascuno degli intervistati ha attribuito alla scuola per la formazione della propria personalità e del proprio bagaglio culturale ed esperienziale.

L’88% degli intervistati giudica fondamentale l’apporto della scuola superiore, definita una vera e propria «scuola di vita»; seguono le elementari con l’85% delle risposte positive.

I sostenitori delle scuole superiori sono soprattutto soggetti appartenenti alla generazione dei baby-boomers, ovvero gli over 55, oltre ai cosiddetti millenials, nati tra il 1979 e il 2000, mentre oltre la metà dei 30-35enni considera le scuole elementari più formative di medie e superiori.

Gran parte degli ex studenti italiani serba un ricordo complessivamente positivo della propria esperienza scolastica e per i futuri studenti, certo, la situazione non può che migliorare.

La scuola è cambiata, è stata travolta dal progresso tecnologico, ha dovuto aggiornarsi sulle più recenti teorie dell’apprendimento, ha mutuato i più innovativi modelli d’insegnamento.

Dall’ormai obsoleto registro cartaceo in cui incasellare i voti e le assenze con la biro, all’etereo registro elettronico da gestire e consultare in remoto; dalla mitica lavagna in ardesia, al suo corrispettivo elettronico e interattivo, la LIM; dalle piccole aule coi banchi addossati gli uni agli altri, alle aule ampie e ariose che possono contenere fino a trenta studenti; dalla calcolatrice al tablet; dalla Treccani ad Internet, sono state numerose le trasformazioni che hanno investito il mondo della didattica, riguardando da vicino sia i docenti che gli studenti e consentendo a questi ultimi, tra le altre cose, di svestire i panni di meri ascoltatori passivi dei prolissi sermoni dell’insegnante per partecipare attivamente al momento della spiegazione.

Oggi i docenti si impegnano per rendere le lezioni stimolanti e accattivanti, al fine di catturare e non perdere l’attenzione degli alunni. Ricordo perfettamente quando al liceo la mia insegnante di lettere ci sottoponeva suggestivi confronti tra una poesia di Leopardi e una canzone di Mogol e Battisti o ci svelava i riferimenti sessuali nascosti nel Gelsomino notturno di Pascoli, nel tentativo di attualizzare quanto più possibile un patrimonio letterario tanto vicino alla nostra sensibilità moderna, quanto difficile da presentare nel modo giusto a un gruppo consistente di adolescenti annoiati.

L’epoca del maestro intransigente, freddo e severo, che bacchetta poveri ragazzi terrorizzati in grembiule, è bella che finita.

Oggi ai docenti viene chiesto di essere aperti al dialogo e al confronto e la scuola millanta il ruolo precipuo rivestito nell’educazione dei giovani al pensiero critico, da krino che in greco significa “giudizio”, quindi “pensiero giudicante”.

A partire dal 2015 con la legge 107 (“La buona scuola”) sono stati attivati percorsi di alternanza scuola-lavoro per consentire agli studenti di superare più agevolmente il gap formativo esistente tra mondo accademico e mondo del lavoro, in termini di competenze e preparazione.

Insomma, la scuola ce la sta mettendo tutta per rendere l’apprendimento sempre più agevole e interessante per gli studenti e non mi sorprenderebbe se tra venticinque anni, a seguito di una nuova indagine condotta dalla Doxa, venisse fuori che il 100% degli intervistati serba un bel ricordo della propria esperienza scolastica.

Viene da chiedersi, però, quanto i giovani d’oggi siano disposti ad usufruire di questo confort didattico che aleggia nelle aule degli istituti scolastici senza adagiarvisi troppo comodamente, rischiando di addormentarsi e di perdere l’opportunità di formarsi e arricchirsi in un contesto sicuramente più incoraggiante rispetto al passato.

Le nuove generazioni, infatti, tendono spesso a trascurare l’importanza della cultura, la sua capacità di aprire la mente, di arricchire il cuore, e farsi motore della mobilità sociale.

Costantemente delusi, arrabbiati, mai contenti o soddisfatti di quello che hanno, sono purtroppo lo specchio della nostra arida società.

Li vedi seduti tra i banchi, imbronciati, con le lingue taglienti e la risposta sempre pronta, capaci di far vacillare anche un generale nella sua autorevolezza.

Talvolta aggressivi, spesso viziati, fanno i duri ma sono in realtà così fragili da scoraggiarsi alla prima difficoltà, iperprotetti e sollevati da qualsiasi responsabilità.

Quando rimproverati, non esitano a invocare l’intervento di mamma e papà per mettere a posto il povero docente che, esasperato, ha deciso di ricorrere alla sospensione; e mamma e papà si precipitano a scuola trafelati e infervorati per protestare contro il trattamento ingiusto riservato al proprio figlio, mettendo in discussione l’operato del docente e, perché no, improvvisandosi anche esperti pedagoghi pronti a muovere critiche sul suo metodo o sulla tipologia di tema propinato in classe.

I ricordi di scuola degli studenti saranno sicuramente positivi in futuro, ma possiamo dire lo stesso per gli insegnanti?

All’apertura al dialogo delle scuole, gli studenti e le loro famiglie hanno risposto in maniera ingiusta e irriconoscente, scambiando il tentativo di garantire condizioni più serene attraverso cui facilitare e rendere più accattivante l’apprendimento, col passo falso di chi abbassa la guardia.

 




Solitudine per regalo di compleanno? Meglio un ricovero…

Argentina: si fa ricoverare in ospedale per non trascorrere il compleanno da solo

Qualche giorno fa, in Argentina, un anziano signore di nome Oscar ha subito un ricovero presso l’ospedale regionale “Bahia Blanca” di Buenos Aires, lamentando una presunta cefalea. Alcune ore dopo, però, il signore ha trovato il coraggio di confessare alle infermiere in servizio di non avere in realtà alcuna cefalea, ma di soffrire di un male non meno doloroso, tristemente caratteristico della nostra epoca: la solitudine.

L’uomo aveva, infatti, richiesto il ricovero in ospedale solo per poter trascorrere in compagnia il suo ottantaquattresimo compleanno.

Da quattro lunghi anni viveva completamente solo nella sua abitazione, avendo perso la moglie, con cui non aveva avuto figli, e tutti e tre i fratelli maggiori, l’unica famiglia che gli era rimasta.

L’episodio è stato riportato su Facebook dall’infermiera Gisel Rach la quale ha raccontato di aver organizzato insieme alle colleghe una piccola festa improvvisata per il compleanno di Oscar, con tanto di torta e palloncini ricavati dai guanti in lattice: «si è recato alla guardia medica per una “cefalea” e lo scrivo tra virgolette perché sapete qual era la sua vera malattia?

Oggi compie 84 anni e non voleva stare da solo.

Sì, proprio quello che avete letto. Scommetto che vi si è stretto il cuore come è successo a me e ai miei colleghi».

Gisel ha indubbiamente ragione: il cuore si stringerebbe a chiunque leggesse di questa notizia, soprattutto se si pensa alla triste realtà che questo episodio mette in luce e quindi a quanti anziani nel mondo versano nelle stesse condizioni di Oscar, soli e abbandonati a se stessi.

In una società che è stata completamente sopraffatta dal ritmo del successo e dal superamento dei valori tradizionali, sempre più spesso gli anziani vivono in uno stato di disinteresse generale, ai margini della compagine sociale, talvolta in balia del proprio destino.

Nella nostra epoca, infatti, sono carenti le strutture sociali e si è decisamente indebolito il valore della famiglia, dopo la trasformazione che l’ha vista protagonista negli ultimi decenni, con il passaggio dal modello di famiglia allargata, in cui i nonni rappresentavano un punto di riferimento, a quello di famiglia nucleare.

Inoltre, con la crisi dello Stato, è entrata in crisi quell’entità che sembrava garantire ai singoli individui la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo; il tessuto sociale si è sfaldato e regna sovrano un individualismo senza precedenti, figurarsi se qualcuno ha ancora del tempo da riservare agli anziani.

La nostra epoca ha vomitato la sua anima gentile e generosa e il prodotto di questo rigurgito è una collettività asettica, che si preoccupa di difendere i profitti piuttosto che i più deboli.

La promiscuità consumistica della nostra società ci spinge a desiderare sempre il nuovo, svalutando tutto ciò che è considerato agée e in questo modo non fa che alimentare la triste sensazione di impotenza, il sentimento di inutilità che spesso deprime gli anziani, costretti a farsi da parte in un mondo che ormai sembra non aver più bisogno di loro, nemmeno per ricevere dei consigli.

Dimentichi del valore della saggezza, abbiamo smesso di interrogare la loro vetusta memoria di uomini e donne scampati a terribili guerre, di protagonisti di rivoluzioni, di giovani sposi che sono riusciti a far durare i matrimoni per secoli.

Noi che le guerre e le rivoluzioni le abbiamo viste solo in tv e che abbiamo reso i legami precari, liquidi e scivolosi come l’olio; e loro, che hanno vissuto meglio, quando si stava peggio ma c’erano ancora speranze; quando ci si doveva ancora scontrare con la perfidia di un mondo bugiardo, tanto promettente, quanto arido di possibilità; quando la promessa di un’infinita espansione economica non era ancora stata soppiantata dalla crisi finanziaria più lunga e devastante della storia e il sogno di volare sotto cieli tranquilli non aveva ancora ceduto il passo allo spettro di esplosioni e schianti che si propaga nelle fusoliere degli aerei ogniqualvolta un passeggero di religione musulmana prende posto a sedere.

Sarebbe bello, sarebbe utile rubar loro qualche segreto per addolcire poco poco l’amarezza del presente, per riappropriarsi di quei valori che abbiamo irrimediabilmente perduto, per tornare ad apprezzare le cose semplici, per vivere in un mondo onesto, pulito e genuino.

Probabilmente ci impegneremmo nuovamente per ricostruire uno Stato assistenziale che sia capace di fornire supporto alle famiglie, affinché ci si possa occupare di nuovo attivamente dei propri figli e dei propri genitori, senza dover ricorrere a 3 babysitter e 5 badanti, che altro non sono se non il modo con cui sopperire all’assenza dello Stato.

In Italia il “Fondo nazionale per le politiche sociali” (FNPS), che è il primo canale di finanziamento della rete integrata di interventi e servizi sociali, continua a subire sforbiciate e nel frattempo gli anziani giacciono dimenticati nelle loro abitazioni o nelle case di riposo, vivendo di pensioni sempre più taglieggiate da uno Stato ingrato.

Le Regioni sono state chiamate al risparmio per contribuire all’equilibrio di bilancio e, ovviamente, i risparmi hanno inciso anche sul FNPS, che nel 2017 ha perso ben 211 milioni sui 311,58 stanziati nell’ottobre 2016, mentre 50 milioni sono stati tagliati al Fondo non autosufficienze; si tratta di soldi che servono a finanziare, ad esempio, gli asili nido, gli interventi di sostegno al reddito per le famiglie meno abbienti, l’assistenza domiciliare, i centri antiviolenza e il sostegno a disabili gravissimi e anziani.

Ma se i tagli continuano a ridimensionare il portafogli del welfare state, riusciremo mai a trovare soluzioni per garantire una maggiore efficienza delle politiche sociali?

Oggi si parla addirittura di sandwich generation, di generazione-panino i cui membri si trovano schiacciati come sottilette tra l’età avanzata in cui si sceglie di avere un figlio e il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione.

Proprio così, “schiacciati”. I bambini arrivano tardi e l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata, così a quarantacinque anni ti ritrovi a barcamenarti tra i bisogni di tuo figlio di 5 anni e i bisogni dei tuoi genitori di 80, una vera e propria impresa se i turni di lavoro sono alienanti, i soldi pochi, e la vita si svolge sempre così frenetica, in un mondo governato dalla mercatocrazia. Lo Stato non interviene e i cittadini sono soli con i propri problemi.

Uno dei valori precipui nell’antica Roma era la pietas, un termine che designava, oltre alla devozione religiosa, la virtuosa commistione di senso del dovere, rispetto e affetto nei confronti della famiglia, della patria e degli amici ed emblematica era l’immagine del mitico eroe Enea che, fuggendo dalla città di Troia in fiamme, assunse su di sé il peso del padre Anchise, caricandoselo sulle spalle per portarlo in salvo.

Ma noi, oggi, siamo ancora disposti a rallentare la nostra corsa sfrenata verso il nulla e a caricarci sulle spalle il peso delle nostre responsabilità?

Per il momento ci sono troppi Oscar e pochi Enea, ma per fortuna ci sono anche tante belle persone come Gisel Rach e le sue colleghe.

 




Mettete i fiori nei vostri cannoni…

Quando si dice prendere una posizione: negli USA atleti in ginocchio durante l’inno nazionale, dilaga la protesta anti-Trump

Quando un nuovo presidente si insedia nel palazzo del potere, si sa, quasi mai riesce a riscuotere l’unanimità dei consensi e le critiche da parte di chi non ne condivide l’orientamento politico o le decisioni intraprese in politica interna ed estera, sono all’ordine del giorno.

Quando però il candidato vincente si dimostra particolarmente infervorato nell’appropriarsi pubblicamente di una retorica ormai anacronisticamente nazionalistica e xenofoba, bisogna intervenire fattivamente e prendere una posizione, lo dice la coscienza.

È quello che hanno fatto alcune tra le più celebri star dello sport americano che in questi ultimi giorni hanno letteralmente preso una posizione decidendo di ricorrere a un gesto forte per riportare l’attenzione sul tema caldo della discriminazione delle minoranze etniche.

Lo scorso 24 settembre, infatti, i campioni dei Jacksonville Jaguars e dei Baltimore Ravers, le due squadre statunitensi di football pronte a fronteggiarsi nello stadio londinese di Wembley, si sono inginocchiati durante l’esecuzione dell’inno americano, prima del match, per sostenere la campagna “Take a knee”, “Inginocchiamoci”, lanciata poco più di un anno fa da un’altra star del football, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers.

Compiendo questo gesto Kaepernick intendeva denunciare le discriminazioni razziali ed esprimere solidarietà al movimento “Black Lives Matter”, nato alcuni anni fa a seguito della brutale uccisione di tre uomini afroamericani, Trayvon Martin, Eric Garner e Michael Brown, colpiti a morte da poliziotti bianchi. Da allora la campagna “Take a knee” ha riscosso sempre più adesioni, estendendosi a macchia d’olio nel mondo dello sport americano.

Si è trattato di una vera e propria rivolta sostenuta dalla Lega, dal momento che non solo i giocatori, ma anche i membri dello staff delle due squadre, gli allenatori, i massaggiatori e i proprietari dei club, si sono inginocchiati, seduti o semplicemente hanno toccato loro la spalla in segno di solidarietà.

Si è inginocchiato persino Shahid Khan, patron dei Jacksonville Jaguar che, secondo alcune indiscrezioni del Washingon Post, aveva contribuito con 1 milione di dollari alle spese per l’insediamento del presidente americano. Della serie “amici amici…e poi ti rubano la bici”, nemmeno il tycoon platinato, come noi comuni mortali, è immune dai tradimenti.

Istantanea la reazione di Trump su Twitter: «se i veri tifosi della NFL (National Football League, ndr) rifiuteranno di andare a vedere le partite fino a quando i giocatori non smettono di mancare di rispetto alla nostra bandiera e al nostro Paese, vedrete che le cose cambieranno in fretta. Licenziate o sospendete!», scrive il presidente in un impeto di acceso nazionalismo.

Durante un comizio in Alabama, poi, Trump ha dato il meglio di sé definendo i giocatori che non rispettano l’inno «figli di p…» mentre la loro protesta rappresenterebbe «una mancanza di rispetto nei confronti del patrimonio» americano.

Evidentemente, però, il suo tono perentorio non ha intimorito neppure da lontano, dal momento che il 23 settembre anche la MLB (Major League Baseball) ha deciso di schierarsi contro Trump: Bruce Maxwell, giocatore afroamericano degli Oakland Athletics, si è inginocchiato durante l’inno americano compiendo un gesto che ha destato grande scalpore, essendo il baseball lo sport più popolare in America.

Maxwell, il quale ha dichiarato che «il razzismo in America è ancora disgustoso», ha deciso di inginocchiarsi per esprimere la propria solidarietà nei confronti di Stephen Curry, playmaker dei Golden State Warriors e afroamericano notoriamente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti delle minoranze etniche che, dopo aver criticato apertamente l’atteggiamento di Trump, aveva manifestato l’intenzione di rifiutare l’invito a Washington che, come da tradizione, il presidente rivolge annualmente alla squadra che si aggiudica il titolo NBA («Quello che fa e quello che dice non mi piace. Io non voglio andare e se ci sarà una votazione dirò no», aveva dichiarato Curry). Le parole del cestista hanno nuovamente suscitato la reazione del tycoon il quale ha risposto, ovviamente attraverso Twitter, che «andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per una squadra che ha vinto il titolo. Stephen Curry esita, quindi l’invito è annullato».

A sostenere Stephen Curry in questa battaglia a colpi di tweet è intervenuto anche il suo storico rivale Lebron James, stella dei Cleveland Cavaliers e ugualmente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti degli afroamericani, il quale ha risposto a Trump nella maniera a lui più congeniale, cioè su Twitter, ovviamente: «Curry aveva già detto che non sarebbe venuto! Perciò non c’è nessun invito. Andare in visita alla casa bianca era un grande onore, finché non sei apparso tu!», ha twittato James. Emblematiche anche le parole del tecnico dei Warriors, Steve Kerr, secondo cui «in tempi normali» si potrebbe facilmente riuscire a «mettere da parte le differenze politiche», ma «questi non sono tempi normali. Sono probabilmente i tempi più divisivi» dai tempi del Vietnam.

A seguito di questi avvenimenti, si sono freneticamente susseguite risposte ufficiali delle squadre e messaggi individuali di giocatori e allenatori, mentre i Warriors, con una nota, hanno annunciato che a febbraio saranno comunque a Washington per una serie di iniziative finalizzate a celebrare «l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione: tutti valori che la nostra organizzazione abbraccia».

Anche questa volta Donald Trump ha dimostrato di saper utilizzare sapientemente i social network. Me lo vedo in vestaglia, comodamente seduto alla scrivania della stanza ovale, davanti al computer, mentre digita sulla tastiera parole velenose per consegnarle alle sterminate pianure di Twitter con l’intento di diffondere odio e razzismo.

“Divide et impera”, questo sembra essere il suo pericolosissimo motto.

Pericoloso perché se crediamo che ormai più nessuno si dedichi all’hate speech, soprattutto negli Stati Uniti del politically correct, ci sbagliamo di grosso. Inoltre, dopo l’estate di fuoco appena conclusa, fatta di proteste impetuose a seguito dei fatti di Minnesota e Louisiana, dove altri due afroamericani, Alton Sterling e Philando Castile, hanno perso la vita per mano di poliziotti bianchi; dopo mesi di polemiche contro la costruzione del leggendario “muro” che il megalomane presidente vuole far innalzare al confine col Messico; dopo l’episodio increscioso del travel-ban che ha generato non poche tensioni, il tema della violenza contro le minoranze etniche è ancora caldissimo negli USA.

Il mondo dello sport però si è dimostrato mal disposto a tollerare ancora atteggiamenti che oltraggiano i diritti fondamentali dell’uomo e gli atleti statunitensi hanno deciso di agire insieme, uniti, al di là delle differenze tra squadre, al di là delle rivalità e della competizione, per difendere la libertà di protesta e di espressione.

Questo è lo sport che ci piace, lo sport che unisce contro chi divide, lo sport che si fa veicolo di messaggi forti, lo sport che va oltre il mero momento goliardico.

 




Nicolina Pacini, altro caso di rumoroso silenzio delle Istituzioni.

Non ce l’ha fatta Nicolina Pacini, la quindicenne di Ischitella, un piccolo paesino in provincia di Foggia, che il 20 settembre è stata colpita in pieno volto dal proiettile esploso da una calibro 22 per mano dell’ex compagno della madre, Antonio Di Paola, 37 anni. I suoi grandi occhi azzurri si sono chiusi per sempre il 21 settembre, l’ennesimo arresto cardiaco le è stato fatale, dopo averci lasciati col fiato sospeso, nella vana speranza di una sua ripresa.

Il 20 settembre, alle ore 07.30, Nicolina stava scendendo di fretta le scale di Via Zuppetta a Ischitella per raggiungere la fermata del pullman che l’avrebbe condotta a scuola, ma su quel pullman Nicolina non è mai salita. Antonio Di Paola, dopo averla avvicinata probabilmente per chiederle notizie della madre, infastidito dalla reticenza della giovane, l’ha colpita in viso con la sua pistola.

La fuga dell’uomo si è arrestata nelle campagne circostanti, nel momento in cui Di Paola decide di togliersi la vita con quella stessa arma che poche ore prima aveva colpito a morte Nicolina.

Una situazione familiare complicata quella dei Pacini: la madre, Donatella Rago, 37 anni, si era trasferita per esigenze lavorative a Viareggio, città in cui la stessa Nicolina era nata e cresciuta e in cui aveva frequentato le scuole elementari e medie; nella città versiliese viveva anche Ezio Pacini, padre della ragazza.

Nicolina e suo fratello minore, invece, erano stati affidati ai nonni materni dai servizi sociali.

La Rago, tuttavia, accusa i servizi sociali di non averla ascoltata quando chiedeva che i suoi figli fossero portati via da Ischitella, paese che la donna riteneva poco sicuro per loro.

Di Paola, infatti, non riusciva ad accettare la fine della storia con Donatella, con la quale aveva interrotto bruscamente la frequentazione nel mese di agosto.

Dopo un periodo infernale per l’intera famiglia, fatto di minacce, telefonate intimidatorie, inquietanti appostamenti ed episodi traumatici per la ragazza, alla quale Di Paola aveva puntato un coltello all’addome poco tempo prima, l’uomo è stato sopraffatto dall’efferatezza e l’ha colpita in volto senza pietà.

La madre, Donatella Rago, afferma di aver più volte sporto denuncia per minacce a carico dell’ex compagno, l’ultima delle quali risale proprio a un paio di settimane prima del tragico evento, mentre il cugino dell’assassino-suicida riferisce alle telecamere del programma televisivo “La vita in diretta”, di aver riportato ai carabinieri che Di Paola fosse in possesso di una pistola, ma di essere stato ignorato.

Stando al racconto del cugino, Di Paola gli avrebbe chiesto in prestito trecento euro per andare a Viareggio a uccidere l’ex compagna, la quale più volte si era raccomandata con la figlia Nicolina affinché la giovane non uscisse mai di casa da sola, poiché conosceva le macchinazioni perverse tramate dall’ex compagno.

Per sincerarsi della presenza di possibili mancanze o ritardi nell’intervento degli organi preposti, il ministro della giustizia Andrea Olando ha disposto l’intervento degli ispettori del ministero.

Insomma, quello di Nicolina Pacini sembra essere l’ennesimo caso di femminicidio preannunciato, un’uccisione che si poteva certamente sventare se solo le denunce e le richieste d’aiuto di Donatella Rago fossero state accolte e ascoltate con attenzione.

Antonio Di Paola però, come una moderna Medea, nel tentativo di colpire la sua ex compagna, si è rivelato molto più spietato degli assassini negativamente protagonisti dei casi di cronaca nera a cui siamo ormai abituati e ha riversato tutta la sua rabbia su una giovanissima ragazza innocente, lasciando in vita la sua ex compagna, ma privandola del proprio futuro e arrecandole un dolore molto più grande.

Nel 2016 le donne vittime di femminicidio per mano di un uomo sono state centoventi (fonte: Ansa), mentre secondo i dati Istat 2016 sette milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza nel corso della loro vita.

Spesso mi domando come mai il numero degli episodi di violenza di genere sia così esponenzialmente cresciuto negli ultimi anni e mi sembra di trovare una risposta nel fatto che molte donne abbiano trovato il coraggio di emanciparsi, di rivendicare la propria autonomia e difendere la propria indipendenza.

Oggi sempre più donne si ribellano alle molestie, si separano da un uomo con cui la storia non funziona più, s’innamorano di altri uomini e non hanno paura di seguire il loro cuore.

Oggi le donne fanno carriera, diventano manager e imprenditrici, posticipano l’acquisizione del ruolo materno oltre i quarant’anni, talvolta scelgono volontariamente di non avere figli, assumono posizioni prestigiose anche in ambito politico diventando potenti, eppure alcuni uomini ancora non accettano l’idea di essere lasciati dalla propria moglie o compagna.

Cos’è, dunque, che convince alcuni uomini che una donna possa essere “o mia o di nessun altro”, o loro o morta?

Cos’è che li spinge a pretendere che la loro compagnia debba essere una proprietà, un oggetto da possedere come si possiede un’automobile?

L’enorme e innegabile aumento dell’emancipazione femminile verificatosi in questi ultimi decenni, frutto indiretto delle rivoluzioni femminili degli anni Settanta-Ottanta, evidentemente è un boccone troppo amaro da ingoiare, al cui sapore alcuni non si sono ancora abituati.

Ecco quindi che l’insicurezza, la mancanza di autostima, la rabbia repressa, le delusioni, le paure maschili, hanno, nei casi di cronaca ormai tristemente noti, un’unica valvola di sfogo: la donna.  

C’è da chiedersi quanti altri casi del genere dovremo lasciare che accadano prima di dare ascolto a quelle donne che chiedono aiuto e protezione per reagire alle minacce e ai maltrattamenti perpetrati loro da compagni, ex compagni, mariti ed ex mariti.

Quante altre Nicolina Pacini, quante Noemi Durini, quante Lucia Annibali, quante Gessica Notaro dovranno ancora morire o rischiare di farlo prima che sia pensata una legge che tuteli le vittime di violenza di genere?

Io non lo so, ma so con certezza che la mia amata Puglia, in soli due giorni, ha perduto due meravigliose ragazze a causa della nostra leggerezza.