Femminicidio parola sbagliata: omicidio di una Donna quella giusta!!

Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini alimenta il delirio di un’opinione pubblica che da settimane si intrattiene sugli stupri, “indigeni” e “stranieri”.

Un popolo di lettori e di telespettatori che, come una platea voyeur davanti a un film pornografico, si esalta a conoscere, nei minimi particolari, l’ennesima violenza.

Ci ricorda, quel corpo, che la violenza più violenta, e spesso definitiva, arriva sulle donne molto più frequentemente da uomini prossimi, per primi quelli che dicono di amarle, che da uomini lontani per razza, religione o cultura. Un fatto, che emerge in tutte le statistiche di femminicidio, nonché verificabile nell’esperienza quotidiana di centinaia di centri antiviolenza sparsi per il paese. Ma si sa che i numeri, nonché l’esperienza, nulla possono sulle psicosi.

E dunque, il femminicidio di Lecce non placa il delirio dei giornali e degli onniscienti ospiti dei talk. In un carosello mediatico, c’è chi piange Noemi e chi urla contro l’invasione di interi popoli stupratori…

I conti, del resto, non tornano mai.

Ancor più sullo stupro e sul femminicidio

Inutile elencare, razionalizzare, sezionare un fenomeno che sempre più si manifesta come il risvolto osceno e indicibile non di uno scontro fra civiltà, ma di una crisi di civiltà che travalica qualsiasi confine, etnico o politico, culturale o geopolitico che sia.

La violenza sulla donna è un reato universale, che avvenga tra le mura domestiche, su una spiaggia, dietro un autobus o in un campo profughi.

La violenza sulle donne è di un mondo che sa concepire solo l’universalismo della femmina-merce ed ha seppellito i diritti fondamentali della donna-persona.

Reati sessuali, in un mondo che fa della parità di genere una bandiera progressista e dove, la differenza fra i sessi, è stata in apparenza rimossa, come principio di apertura all’altro. Ma poi, come ogni rimosso ritorna, nella forma barbara della sopraffazione di un sesso sull’altro.

Per questo, lo stupro od il femminicidio, a qualunque latitudine, con qualunque colore della pelle, in qualunque alfabeto, o analfabeto, vengano perpetrati, sono VIOLENZA, punto e basta.

La platea voyeur, sedotta dai media, fa il contrario, invece.

Seziona, conta, particolarizza; derubrica o enfatizza, secondo i casi. E caso vuole che oggi, in Italia, sotto i colpi di una “emergenza immigrazione”, la violenza appartenga alla razza. Esistono ormai stupratori di serie A, stranieri rifugiati e clandestini, e stupratori di serie B, indigeni.

Stupratori efferati, i primi, come a Rimini, e stupratori loro malgrado, “trascinati”, come a Firenze.

Popoli stupratori, che fanno la regola, e mele marce, che fanno l’eccezione.

Stupri da raccontare nei più squallidi dettagli, tipo come funziona la sabbia nella “doppia penetrazione” illustrata da Libero sul caso Rimini, ed amplessi accondiscendenti di due turiste ubriache con due uomini in divisa (su cui stendere la copertina pietosa del decoro dell’Arma e dello stato!!!) come nel caso di Firenze.

Vittime da trattare con qualche riguardo, se bianche, occidentali, perbene, e vittime da violentare una seconda volta, sui giornali, sfregiandone la privacy, se polacche o di chissà dove, precarie, o magari prostitute non per scelta ma per forza.

In gergo sociologico si chiama razzializzazione della violenza sessuale.

Più crudamente significa due cose:

La prima: che i maschi italiani scaricano sui maschi “stranieri” quello con cui non riescono a fare i conti in se stessi, o nel loro vicino di casa, o perfino – come a Lecce – nei loro figli.

La seconda: che quella che è in corso non è solo una guerra fra i sessi, in cui le donne pagano un prezzo implacabile per la loro libertà.

È anche, ed in primo luogo, una guerra fra uomini, per la conquista della donna (che si immagina) d’altri, o per la difesa della donna (che si vorrebbe) propria.

Alla fine di un’estate vissuta solo e soltanto all’insegna della sicurezza, di una sicurezza “esternalizzata” nei campi libici, per difendere i confini nazionali dall’invasione migrante; di una sicurezza esercitata all’interno, con sgomberi, per difendere il decoro urbano da occupanti migranti e indigeni; due uomini della sicurezza, due uomini delle forze dell’ordine si approfittano della vulnerabilità di due studentesse che non sono pienamente in sé, e poi fanno finta di niente.

E per l’opinione pubblica sono” due mele marce”. NO!!! Sono il sintomo parlante di uno stato che la sicurezza non sa cosa sia né dove stia, e che – di nuovo – proietta il problema altrove e su altri, gridando all’emergenza.

Di uno stato che non sa o non vuole garantire i termini minimi della sicurezza quotidiana.

Di un paese in cui i taxi di notte non rispondono alle chiamate, le strade sono buie e se denunci un fidanzato violento di tua figlia nessuno ti sta a sentire. Una sovranità lesionata ed impotente, che eleva muri e confini per nascondere le proprie crepe, nel silenzio assordante di un’intera classe dirigente che delega il caso “per competenza” alla sola ministra Pinotti, e nel rumore altrettanto assordante di un giornalismo sempre peggio ridotto.

Smettiamo di parlare di Femminicidio come se fosse una moda qui si parla di omicidio di una Donna!

Perché, in fondo, per tutti, il coro è lo stesso:” Una donna è solo una femmina…”

http://betapress.it/index.php/2017/09/25/nicolina-pacini-altro-caso-di-rumoroso-silenzio-delle-istituzioni/

 

Antonella Ferrari

 




Mettete i fiori nei vostri cannoni…

Quando si dice prendere una posizione: negli USA atleti in ginocchio durante l’inno nazionale, dilaga la protesta anti-Trump

Quando un nuovo presidente si insedia nel palazzo del potere, si sa, quasi mai riesce a riscuotere l’unanimità dei consensi e le critiche da parte di chi non ne condivide l’orientamento politico o le decisioni intraprese in politica interna ed estera, sono all’ordine del giorno.

Quando però il candidato vincente si dimostra particolarmente infervorato nell’appropriarsi pubblicamente di una retorica ormai anacronisticamente nazionalistica e xenofoba, bisogna intervenire fattivamente e prendere una posizione, lo dice la coscienza.

È quello che hanno fatto alcune tra le più celebri star dello sport americano che in questi ultimi giorni hanno letteralmente preso una posizione decidendo di ricorrere a un gesto forte per riportare l’attenzione sul tema caldo della discriminazione delle minoranze etniche.

Lo scorso 24 settembre, infatti, i campioni dei Jacksonville Jaguars e dei Baltimore Ravers, le due squadre statunitensi di football pronte a fronteggiarsi nello stadio londinese di Wembley, si sono inginocchiati durante l’esecuzione dell’inno americano, prima del match, per sostenere la campagna “Take a knee”, “Inginocchiamoci”, lanciata poco più di un anno fa da un’altra star del football, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers.

Compiendo questo gesto Kaepernick intendeva denunciare le discriminazioni razziali ed esprimere solidarietà al movimento “Black Lives Matter”, nato alcuni anni fa a seguito della brutale uccisione di tre uomini afroamericani, Trayvon Martin, Eric Garner e Michael Brown, colpiti a morte da poliziotti bianchi. Da allora la campagna “Take a knee” ha riscosso sempre più adesioni, estendendosi a macchia d’olio nel mondo dello sport americano.

Si è trattato di una vera e propria rivolta sostenuta dalla Lega, dal momento che non solo i giocatori, ma anche i membri dello staff delle due squadre, gli allenatori, i massaggiatori e i proprietari dei club, si sono inginocchiati, seduti o semplicemente hanno toccato loro la spalla in segno di solidarietà.

Si è inginocchiato persino Shahid Khan, patron dei Jacksonville Jaguar che, secondo alcune indiscrezioni del Washingon Post, aveva contribuito con 1 milione di dollari alle spese per l’insediamento del presidente americano. Della serie “amici amici…e poi ti rubano la bici”, nemmeno il tycoon platinato, come noi comuni mortali, è immune dai tradimenti.

Istantanea la reazione di Trump su Twitter: «se i veri tifosi della NFL (National Football League, ndr) rifiuteranno di andare a vedere le partite fino a quando i giocatori non smettono di mancare di rispetto alla nostra bandiera e al nostro Paese, vedrete che le cose cambieranno in fretta. Licenziate o sospendete!», scrive il presidente in un impeto di acceso nazionalismo.

Durante un comizio in Alabama, poi, Trump ha dato il meglio di sé definendo i giocatori che non rispettano l’inno «figli di p…» mentre la loro protesta rappresenterebbe «una mancanza di rispetto nei confronti del patrimonio» americano.

Evidentemente, però, il suo tono perentorio non ha intimorito neppure da lontano, dal momento che il 23 settembre anche la MLB (Major League Baseball) ha deciso di schierarsi contro Trump: Bruce Maxwell, giocatore afroamericano degli Oakland Athletics, si è inginocchiato durante l’inno americano compiendo un gesto che ha destato grande scalpore, essendo il baseball lo sport più popolare in America.

Maxwell, il quale ha dichiarato che «il razzismo in America è ancora disgustoso», ha deciso di inginocchiarsi per esprimere la propria solidarietà nei confronti di Stephen Curry, playmaker dei Golden State Warriors e afroamericano notoriamente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti delle minoranze etniche che, dopo aver criticato apertamente l’atteggiamento di Trump, aveva manifestato l’intenzione di rifiutare l’invito a Washington che, come da tradizione, il presidente rivolge annualmente alla squadra che si aggiudica il titolo NBA («Quello che fa e quello che dice non mi piace. Io non voglio andare e se ci sarà una votazione dirò no», aveva dichiarato Curry). Le parole del cestista hanno nuovamente suscitato la reazione del tycoon il quale ha risposto, ovviamente attraverso Twitter, che «andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per una squadra che ha vinto il titolo. Stephen Curry esita, quindi l’invito è annullato».

A sostenere Stephen Curry in questa battaglia a colpi di tweet è intervenuto anche il suo storico rivale Lebron James, stella dei Cleveland Cavaliers e ugualmente impegnato nella lotta alla difesa dei diritti degli afroamericani, il quale ha risposto a Trump nella maniera a lui più congeniale, cioè su Twitter, ovviamente: «Curry aveva già detto che non sarebbe venuto! Perciò non c’è nessun invito. Andare in visita alla casa bianca era un grande onore, finché non sei apparso tu!», ha twittato James. Emblematiche anche le parole del tecnico dei Warriors, Steve Kerr, secondo cui «in tempi normali» si potrebbe facilmente riuscire a «mettere da parte le differenze politiche», ma «questi non sono tempi normali. Sono probabilmente i tempi più divisivi» dai tempi del Vietnam.

A seguito di questi avvenimenti, si sono freneticamente susseguite risposte ufficiali delle squadre e messaggi individuali di giocatori e allenatori, mentre i Warriors, con una nota, hanno annunciato che a febbraio saranno comunque a Washington per una serie di iniziative finalizzate a celebrare «l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione: tutti valori che la nostra organizzazione abbraccia».

Anche questa volta Donald Trump ha dimostrato di saper utilizzare sapientemente i social network. Me lo vedo in vestaglia, comodamente seduto alla scrivania della stanza ovale, davanti al computer, mentre digita sulla tastiera parole velenose per consegnarle alle sterminate pianure di Twitter con l’intento di diffondere odio e razzismo.

“Divide et impera”, questo sembra essere il suo pericolosissimo motto.

Pericoloso perché se crediamo che ormai più nessuno si dedichi all’hate speech, soprattutto negli Stati Uniti del politically correct, ci sbagliamo di grosso. Inoltre, dopo l’estate di fuoco appena conclusa, fatta di proteste impetuose a seguito dei fatti di Minnesota e Louisiana, dove altri due afroamericani, Alton Sterling e Philando Castile, hanno perso la vita per mano di poliziotti bianchi; dopo mesi di polemiche contro la costruzione del leggendario “muro” che il megalomane presidente vuole far innalzare al confine col Messico; dopo l’episodio increscioso del travel-ban che ha generato non poche tensioni, il tema della violenza contro le minoranze etniche è ancora caldissimo negli USA.

Il mondo dello sport però si è dimostrato mal disposto a tollerare ancora atteggiamenti che oltraggiano i diritti fondamentali dell’uomo e gli atleti statunitensi hanno deciso di agire insieme, uniti, al di là delle differenze tra squadre, al di là delle rivalità e della competizione, per difendere la libertà di protesta e di espressione.

Questo è lo sport che ci piace, lo sport che unisce contro chi divide, lo sport che si fa veicolo di messaggi forti, lo sport che va oltre il mero momento goliardico.

 




Messina contro Google, la disfatta del colosso americano.

Google si costituisce in giudizio per 25 $ davanti al Giudice di Pace di Rometta (ME) e viene condannata.

A Martino Giorgianni – fratello dello sviluppatore software Davide Giorgianni, titolare della One Multimedia Srl – la chiusura ingiustificata del proprio account di distribuzione sul play store Google non era andata giù.

Ancora meno era andato giù che, per aprirlo, aveva dovuto versare alla Google Payment Ltd la somma di 25 euro, mai rimborsatagli dopo la chiusura dell’account che non aveva nemmeno avuto la possibilità di utilizzare.

Ma già Davide, vistosi “espulso” senza appello da Google dalla possibilità vendere le proprie app per Android, si era dovuto rivolgere al Tribunale, inviando citazione alla società statunitense.

Quindi Martino, con l’assistenza dell’Avv. Andrea Caristi, del Foro di Messina, ha citato – azionando l’art 4 del Reg. CE n. 861/2007 c.d. “procedimento europeo per le controverse di modesta entità” –  la Google Payments Ltd, innanzi il Giudice di pace di Rometta, in provincia di Messina, per richiedere la restituzione dei 25 dollari.

Google si costituiva in giudizio, producendo corposa memoria difensiva e sollevando numerose eccezioni di giurisdizione, asserendo la competenza dei Tribunali U.S.A. di Santa Clara (California) ovvero del Regno Unito (Galles) ma il Giudice di Pace di Rometta (ME) ritenuta la sua competenza e giurisdizione ha condannato il colosso a restituire a Martino il 25$ e pagarli le spese del giudizio.

Finalmente una prima linea di indirizzo che si muove contro queste multinazionali che schiacciano l’utente utilizzando la loro caratura ed il fatto che non hanno problemi a buttare i soldi in cause legali.

Attenzione: se non ci rendiamo conto che oggi tutto ormai passa per il virtuale e che tutto il virtuale è in mano a pochissimi colossi, allora manco ci accorgiamo che a breve in pochi avranno in mano il mondo.

Vogliamo questo?

 

 




Social, luogo di incontrollata pazzia.

Catania, una donna sposata, con un regolare lavoro in un esercizio commerciale, ha pubblicato la foto di un’ecografia e messo all’asta online il suo bambino. Un “vero affare”, con un’asta che partiva dai 10mila euro. ( Ma vale davvero così poco una vita?!?)

Qualcuno, sulla rete, ha notato l’annuncio e ha denunciato la donna alla Procura di Catania, che ha avviato un’indagine con l’aiuto della polizia postale.

A pubblicare l’annuncio una donna di Milano di 28 anni e soprattutto non incinta che ha detto di aver agito solo per gioco come un “troll”, coloro che si divertono sui social network a scatenare polemiche e discussioni con provocazioni varie.

Intanto, però, la donna è stata indagata in stato di libertà.

Questo assurdo gioco che varca ogni divieto legale ed ogni limite morale, inizia quando la giovane  donna di Milano pubblica la foto di un’ecografia del feto, sostenendo di essere al quinto mese di gravidanza e promettendo di vendere il bambino dopo il parto, al miglior offerente.

Un vero affare in un mondo virtuale, dove il valore della vita si converte in speculazione… Non sono emerse proposte di acquisto, (per fortuna, diciamo noi !!!) però è scattata un’indagine della polizia postale dopo la segnalazione di un utente dalla pagina Compro e vendo tutto su Facebook.

La donna è stata identificata e sottoposta a perquisizione domiciliare ed informatica, su disposizione dei Pm di Catania, eseguita dalla Polizia Postale di Milano.

L’indagata ha ammesso di essere stata l’autrice dell’annuncio, spiegando che la sua era una provocazione, un ‘troll’, per creare disturbo e fomentare gli utenti.

Per renderla credibile aveva pubblicato anche l’immagine di un’ecografia prelevata da un gruppo web di mamme.

A questo punto, però, sorge spontanea la domanda: “Ma a che punto siamo arrivati se l’avanguardia tecnologica informatica, con l’ausilio dei social, diventa sempre più il terreno fertile per semi di aberrazione mentale di questo tipo?!?”

La Polizia Postale consiglia di non rispondere ai troll, ignorando le provocazioni e segnalando, comunque, i contenuti che potrebbero configurare reati procedibili d’ufficio o imminenti pericoli al fine, in ogni caso, di verificarne la fondatezza.

Ma, al di là di ogni perquisizione e punizione, resta il disgusto per chi osa giocare online con le leggi della vita e della morte e l’invito a dissociarsi da simili assurdi giochi che, prima ancora di essere illegali, sono decisamente immorali!!!

 

Antonella Ferrari




Nicolina Pacini, altro caso di rumoroso silenzio delle Istituzioni.

Non ce l’ha fatta Nicolina Pacini, la quindicenne di Ischitella, un piccolo paesino in provincia di Foggia, che il 20 settembre è stata colpita in pieno volto dal proiettile esploso da una calibro 22 per mano dell’ex compagno della madre, Antonio Di Paola, 37 anni. I suoi grandi occhi azzurri si sono chiusi per sempre il 21 settembre, l’ennesimo arresto cardiaco le è stato fatale, dopo averci lasciati col fiato sospeso, nella vana speranza di una sua ripresa.

Il 20 settembre, alle ore 07.30, Nicolina stava scendendo di fretta le scale di Via Zuppetta a Ischitella per raggiungere la fermata del pullman che l’avrebbe condotta a scuola, ma su quel pullman Nicolina non è mai salita. Antonio Di Paola, dopo averla avvicinata probabilmente per chiederle notizie della madre, infastidito dalla reticenza della giovane, l’ha colpita in viso con la sua pistola.

La fuga dell’uomo si è arrestata nelle campagne circostanti, nel momento in cui Di Paola decide di togliersi la vita con quella stessa arma che poche ore prima aveva colpito a morte Nicolina.

Una situazione familiare complicata quella dei Pacini: la madre, Donatella Rago, 37 anni, si era trasferita per esigenze lavorative a Viareggio, città in cui la stessa Nicolina era nata e cresciuta e in cui aveva frequentato le scuole elementari e medie; nella città versiliese viveva anche Ezio Pacini, padre della ragazza.

Nicolina e suo fratello minore, invece, erano stati affidati ai nonni materni dai servizi sociali.

La Rago, tuttavia, accusa i servizi sociali di non averla ascoltata quando chiedeva che i suoi figli fossero portati via da Ischitella, paese che la donna riteneva poco sicuro per loro.

Di Paola, infatti, non riusciva ad accettare la fine della storia con Donatella, con la quale aveva interrotto bruscamente la frequentazione nel mese di agosto.

Dopo un periodo infernale per l’intera famiglia, fatto di minacce, telefonate intimidatorie, inquietanti appostamenti ed episodi traumatici per la ragazza, alla quale Di Paola aveva puntato un coltello all’addome poco tempo prima, l’uomo è stato sopraffatto dall’efferatezza e l’ha colpita in volto senza pietà.

La madre, Donatella Rago, afferma di aver più volte sporto denuncia per minacce a carico dell’ex compagno, l’ultima delle quali risale proprio a un paio di settimane prima del tragico evento, mentre il cugino dell’assassino-suicida riferisce alle telecamere del programma televisivo “La vita in diretta”, di aver riportato ai carabinieri che Di Paola fosse in possesso di una pistola, ma di essere stato ignorato.

Stando al racconto del cugino, Di Paola gli avrebbe chiesto in prestito trecento euro per andare a Viareggio a uccidere l’ex compagna, la quale più volte si era raccomandata con la figlia Nicolina affinché la giovane non uscisse mai di casa da sola, poiché conosceva le macchinazioni perverse tramate dall’ex compagno.

Per sincerarsi della presenza di possibili mancanze o ritardi nell’intervento degli organi preposti, il ministro della giustizia Andrea Olando ha disposto l’intervento degli ispettori del ministero.

Insomma, quello di Nicolina Pacini sembra essere l’ennesimo caso di femminicidio preannunciato, un’uccisione che si poteva certamente sventare se solo le denunce e le richieste d’aiuto di Donatella Rago fossero state accolte e ascoltate con attenzione.

Antonio Di Paola però, come una moderna Medea, nel tentativo di colpire la sua ex compagna, si è rivelato molto più spietato degli assassini negativamente protagonisti dei casi di cronaca nera a cui siamo ormai abituati e ha riversato tutta la sua rabbia su una giovanissima ragazza innocente, lasciando in vita la sua ex compagna, ma privandola del proprio futuro e arrecandole un dolore molto più grande.

Nel 2016 le donne vittime di femminicidio per mano di un uomo sono state centoventi (fonte: Ansa), mentre secondo i dati Istat 2016 sette milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza nel corso della loro vita.

Spesso mi domando come mai il numero degli episodi di violenza di genere sia così esponenzialmente cresciuto negli ultimi anni e mi sembra di trovare una risposta nel fatto che molte donne abbiano trovato il coraggio di emanciparsi, di rivendicare la propria autonomia e difendere la propria indipendenza.

Oggi sempre più donne si ribellano alle molestie, si separano da un uomo con cui la storia non funziona più, s’innamorano di altri uomini e non hanno paura di seguire il loro cuore.

Oggi le donne fanno carriera, diventano manager e imprenditrici, posticipano l’acquisizione del ruolo materno oltre i quarant’anni, talvolta scelgono volontariamente di non avere figli, assumono posizioni prestigiose anche in ambito politico diventando potenti, eppure alcuni uomini ancora non accettano l’idea di essere lasciati dalla propria moglie o compagna.

Cos’è, dunque, che convince alcuni uomini che una donna possa essere “o mia o di nessun altro”, o loro o morta?

Cos’è che li spinge a pretendere che la loro compagnia debba essere una proprietà, un oggetto da possedere come si possiede un’automobile?

L’enorme e innegabile aumento dell’emancipazione femminile verificatosi in questi ultimi decenni, frutto indiretto delle rivoluzioni femminili degli anni Settanta-Ottanta, evidentemente è un boccone troppo amaro da ingoiare, al cui sapore alcuni non si sono ancora abituati.

Ecco quindi che l’insicurezza, la mancanza di autostima, la rabbia repressa, le delusioni, le paure maschili, hanno, nei casi di cronaca ormai tristemente noti, un’unica valvola di sfogo: la donna.  

C’è da chiedersi quanti altri casi del genere dovremo lasciare che accadano prima di dare ascolto a quelle donne che chiedono aiuto e protezione per reagire alle minacce e ai maltrattamenti perpetrati loro da compagni, ex compagni, mariti ed ex mariti.

Quante altre Nicolina Pacini, quante Noemi Durini, quante Lucia Annibali, quante Gessica Notaro dovranno ancora morire o rischiare di farlo prima che sia pensata una legge che tuteli le vittime di violenza di genere?

Io non lo so, ma so con certezza che la mia amata Puglia, in soli due giorni, ha perduto due meravigliose ragazze a causa della nostra leggerezza.

 




Da grande vorrei fare … il ricco!

I primi giorni di scuola, nell’ambito dei progetti di accoglienza, mi piace chiedere ai miei nuovi alunni: “Cosa vorresti fare da grande?”

Risposta: “Il calciatore”, oppure, “La velina”…

Spesso ricevo queste risposte dai ragazzi delle medie.

Naturalmente, ce ne sono tante altre, alcuni di loro, già consapevoli e, non a caso buoni lettori, dicono invece di volere fare il giornalista, il medico, lo scienziato, il ricercatore…

Ma il mito del successo e del guadagno facile è diffuso.

Molti di loro ritengono che sapere dare un calcio al pallone sia già la garanzia di un futuro di popolarità, di esibizioni internazionali e di compensi favolosi.

Ancora più adulatoria e fasulla l’illusione delle ragazze che sognano di superare una selezione televisiva che le introdurrà rapidamente nel mondo del cinema e della pubblicità.

Hanno imparato che il talento conta poco, lo studio, la disciplina, la competenza portano solo povertà e frustrazione.

La bellezza, invece, può essere un buon strumento per ottenere qualcosa che il mondo del mercato offre con apparente facilità: soldi e successo, un binomio perverso e ingannevole.

Ma chi mette loro in testa questi miti fasulli? I vari schermi che infestano la nostra vita: quel rettangolo magico in cui tutto sembra facile e alla portata di mano, in cui i corpi contano più dei pensieri e delle parole, in cui il feticcio del successo appare come un premio facilmente raggiungibile, basta saper dribblare o sculettare…

Come se non bastasse, alla mia domanda “Ma, nessuno di voi vorrebbe fare l’insegnante?”, c’è sempre qualcuno che mi dice: “Ma non sono mica matto!?!”.

” Quanto prende lei Prof ?”. E mentre temporeggio nel rispondere, c’è chi aggiunge “Tanta fatica per fare il martire “…

Ed allora, capisci che, una volta di più, dovrai lottare per rivendicare il ruolo della scuola in questa landa selvaggia di propagazione di falsi miti.

Dovrai mettercela tutta per convincerli, con il tuo esempio che non sei  né un santo, né un masochista, che, ogni giorno entri in classe entusiasta e motivato, con il privilegio di essere un nuovo demiurgo che può e deve fare la sua parte nel formare e modellare le nuove generazioni.

Certo, se penso alle sparate ministeriali di chi ci governa, la mia impressione è che l’Istituzione scuola si stia disgregando: che nelle varie campagne elettorali, la scuola sia uno specchietto per allodole per attirare consensi dimenticando il suo vero ruolo, quello, cioè, di formare il bravo cittadino.

Dietro e dentro ogni nuovo decreto ministeriale, vedo e vivo una scuola impaurita dalle novità, sempre più chiusa tristemente in se stessa.

Per fortuna, però, per chi la scuola la vive dal basso, esiste una fitta rete di insegnanti responsabili e generosi che credono nel carattere missionario del loro lavoro, dedicano quotidianamente le loro energie ad insegnare la consapevolezza e la responsabilità, due qualità carenti nel nostro Paese.

Per mia esperienza, lì dove gli insegnanti danno il buon esempio, mettendosi in dialogo con gli studenti, aiutandoli a diventare protagonisti della difficile arte dell’apprendimento, i ragazzi rispondono più che bene.

Per questo, quando nelle risposte provocatorie dei miei alunni, capisco che manca un progetto condiviso del futuro comune, punto tutto sul costruire un pezzetto di vita con loro.

Quando mi accorgo che la scuola è privata del suo prestigio e della sua libertà, cerco, come insegnante, di inventarmi una scuola migliore, che non sarà la buona scuola ministeriale, ma non sarà neanche la scuola del Grande fratello o dell’Isola dei famosi…

So che, molti miei colleghi, magari scoraggiati, si sono già arresi e chiudono ogni comunicazione.

Altri, fanno il conto alla rovescia ed aspettano la pensione come soluzione ad ogni male.

C’è chi mi compatisce e mi definisce una povera illusa…

Ma, so di non essere sola.

A tutti gli altri, quelli che resistono e si spendono con generosità, dico grazie perché è merito loro se la scuola sopravvive ed offre ancora altri miti reali e civili.

 

Antonella Ferrari




Noemi uccisa per amore

“Non è amore se ti fa male…”

Ha confessato il fidanzato di Noemi Durini, la sedicenne scomparsa domenica 3 settembre in provincia di Lecce: è stato lui ad ucciderla.

Gli inquirenti hanno trovato il corpo della giovane.

Al padre quarantunenne del fidanzatino diciassettenne  di Noemi Durini è stato notificato un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere.

La svolta nelle indagini è arrivata ieri, mercoledì 13 settembre, 10 giorni dopo la denuncia di scomparsa della ragazza: il fidanzato diciassettenne di Noemi è ora indagato per omicidio volontario.

Le telecamere di sicurezza di un’abitazione di Specchia certificano che il ragazzo e Noemi erano insieme all’alba del 3 settembre, a bordo di una Fiat 500 di proprietà della famiglia del ragazzo.

Messo sotto pressione dagli inquirenti, il giovane ha confessato l’omicidio di Noemi: è stato lui stesso ad indicare agli inquirenti il luogo in cui si trovava il cadavere della sua fidanzatina, a Castignano di Leuca.

Il corpo della ragazza era nascosto in una campagna adiacente alla strada provinciale per Santa Maria di Leuca, parzialmente sepolto da alcuni massi: ad un primo esame sarebbero stati riscontrati segni di ferite, forse dovuti alle pietre.

Dal momento della scomparsa, i genitori di Noemi avevano continuato a lanciare appelli nella speranza di trovarla viva.

Del resto, l’iscrizione del nome del ragazzo nel registro degli inquirenti era stata subito disposta dalla Procura per i minorenni di Lecce per permettere l’esecuzione di accertamenti utili alle indagini.

Ma tanti, ora possiamo dire troppi, sono stati i lati oscuri della vicenda che hanno rallentato il lavoro degli inquirenti.

Il fidanzato ha raccontato, in una prima versione dei fatti, di aver lasciato Noemi nei pressi del campo sportivo, ma le sue dichiarazioni presentavano delle contraddizioni che hanno insospettito gli inquirenti.

Sospetti alimentati anche da un filmato che ritraeva il ragazzo diciassettenne mentre rompeva, a colpi di sedia, i vetri di un’autovettura parcheggiata nei pressi di un bar ad Alessano, città in cui il giovane vive.

L’auto, una vecchia Nissan Micra, era di una persona con la quale il giovane aveva avuto un acceso litigio proprio sulla sorte della fidanzatina.

Poco prima – a quanto si è appreso – il diciassettenne e suo padre avevano avuto un diverbio con il papà di Noemi che si era recato nella vicina Alessano per chiedere notizie della figlia.

E, adesso, si scopre che la sorte di Noemi era “CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA”.

I familiari di Noemi avevano un rapporto conflittuale con il diciassettenne e non volevano che la ragazza lo frequentasse.

Il fidanzato «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava», ha raccontato Davide, cugino della vittima.

Qualche tempo fa la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento.

La donna aveva chiesto ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e allontanarlo dalla figlia, che frequentava con qualche difficoltà l’istituto professionale «Don Tonino Bello» di Alessano.

Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata; l’altro civile, per verificare il contesto familiare in cui viveva il giovane.

Ma nessuna denuncia aveva portato a provvedimenti cautelari.

Per questo motivo erano sorti accesi contrasti tra le due famiglie.

A 17 anni, il ragazzo era già in cura al Sert, per uso di droghe leggere.

Inoltre, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva avuto qualche guaio con la giustizia.

Pur non avendo la patente, guidava regolarmente la Fiat 500 della mamma, fatto di cui si vantava con gli amici.

Non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava perché geloso e possessivo.

È questo il ritratto che gli investigatori fanno ora del fidanzato di Noemi.

Forse a causa delle violenze subite la ragazzina, il 23 agosto, aveva condiviso su Facebook il post di «Amor De Lejos, Amor De Pendejos« in cui si vede il volto emaciato di una ragazza alla quale la mano di un giovane imbavaglia la bocca.

Sul polso del ragazzo c’è un tatuaggio con la scritta «Love?».

«Non è amore se ti fa male. Non è amore – è scritto – se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (…). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C’è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!».

Ma, a nulla sono valse queste parole profetiche… Noemi, cassandra del proprio destino, non si è fidata di se stessa, ha voluto rischiare.

All’alba del 3 settembre è uscita di casa per incontrare il fidanzato, forse dopo una telefonata, ed è stata uccisa.

E pensare che un mese fa, il 12 agosto, i due avevano festeggiato il loro primo anno di fidanzamento e Noemi aveva scritto sul social: «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà!».

 

 

Antonella Ferrari

 




Pensione, mettiamo la data a dopo la morte del cittadino, così facciamo prima…

Dal 1° gennaio del 2018, le donne non godranno più di un trattamento di favore rispetto agli uomini per quel che riguarda la data del pensionamento.

Tutti i lavoratori, maschi e femmine, potranno mettersi a riposo una volta superati i 66 anni e 7 mesi di età, purché abbiano alle spalle almeno 20 anni di contributi (o almeno 5 anni se assunti dopo il 1996).

A stabilirlo è la Legge Fornero, la riforma previdenziale approvata in Italia nel 2012 dal governo Monti, che ha introdotto la graduale parificazione tra uomini e donne entro il 2018.

Fino a 6-7 anni fa, infatti, le lavoratrici potevano contare su una finestra di uscita privilegiata, congedandosi dal lavoro 5 anni prima degli uomini (60 anni anziché 65).

Poi è arrivata appunto la Legge Fornero che ha cambiato tutte le regole, rendendo l’accesso al pensionamento molto più gravoso.

A partire dal 2019, sia per gli uomini che per le donne, la soglia di accesso alla pensione di vecchiaia salirà ancora di 3 mesi, fino a raggiungere i 67 anni. Per legge, infatti, l’età pensionabile verrà adeguata ogni 3 o 4 anni alle aspettative di vita della popolazione, che per fortuna sono in crescita grazie ai progressi della medicina. Sempre che, però, qualcuno non schiatti prima, direttamente sul posto di lavoro!!!

Questi sono i requisiti per la pensione di vecchiaia, che matura principalmente in base all’età.

Esiste però anche un altro trattamento che si chiama pensione anticipata, che matura invece una volta raggiunta una determinata quantità di contributi versati, indipendentemente dall’età.

Per la pensione anticipata, le donne hanno conservato un piccolissimo trattamento di favore poiché possono congedarsi dal lavoro con 41 anni e 10 mesi di contributi, 12 mesi prima degli uomini che devono invece raggiungere i 42 anni e 10 mesi di carriera. Infine, sia per gli uomini che per le donne esiste anche la possibilità di ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape (anticipo pensionistico).

Le donne che vogliono ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape Social (l’anticipo pensionistico senza penalizzazioni) avranno un piccolo trattamento di favore, uno sconto sui requisiti contributivi pari a 6 mesi per ogni figlio che hanno dovuto crescere nel corso della loro vita e che spesso ha comportato per loro un sacrificio in termini di carriera.

Il bonus contributivo potrà essere al massimo di due anni.

Dunque, mentre i lavoratori maschi che vanno in pensione con l’Ape Social devono avere 63 anni di età e almeno 30 anni di contributi, le donne con figli potranno mettersi a riposo anche con 28 o 29 anni di carriera alle spalle.

L’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha voluto così accontentare le richieste dei sindacati, che sottolineano da tempo come l’età della pensione di vecchiaia italiana sia ormai la più alta d’Europa, anche per le donne che tradizionalmente hanno goduto in passato delle finestre di uscita dal lavoro anticipate.

Ma è giusto o sbagliato che le donne vadano in pensione prima degli uomini?

Attorno a questo interrogativo si è dibattuto molto negli anni scorsi, anche prendendo spunto da quel che avviene all’estero. In gran parte degli altri paesi europei, infatti, donne e uomini vanno in pensione alla stessa età.

Ci sono poche nazioni che fanno eccezione.

E’ il caso della Gran Bretagna dove le lavoratrici femmine possono ritirarsi a circa 62 anni e mezzo contro i 65 anni degli uomini. Stesso discorso per l’Austria dove le donne si ritirano a 60 anni anziché a 65.

Non ci sono invece trattamenti di favore in altri paesi dove tuttavia – sottolineano i sindacati- l’età pensionabile è più bassa rispetto ai 66 anni e 7 mesi fissati in Italia.

In Spagna e Germania c’è ancora il requisito dei 65 anni per uomini e donne (che salirà gradualmente soltanto nell’arco di un decennio) mentre in Francia la soglia anagrafica resta inchiodata a 62 anni.

A ben guardare, però, la parificazione dell’età pensionabile è un destino ineluttabile per tutti i Paesi. A stabilirlo è infatti una sentenza delle Corte di Giustizia Europea del 2008, che ha vietato ai singoli Stati di fare disparità di trattamento a seconda dei sessi.

Giusto! Peccato che, in Italia, più che privilegiare le donne che vanno in pensione, bisognerebbe riconoscere i loro diritti prima, quando, in sede di selezione per un posto di lavoro, a parità di requisiti con candidati maschi, le donne pagano la colpa di voler fare un figlio.

Quando, al rientro dopo una gravidanza, le donne verificano che il loro diritto alla maternità è incompatibile con l’avanzamento di carriera.

Quando, in caso di contrazione del personale, le prime ad essere messe in mobilità, sono proprio le lavoratrici con figli piccoli…

Quando, se mantengono il loro posto di lavoro, le donne, a parità di prestazioni, percepiscono uno stipendio inferiore rispetto ai loro colleghi maschi… E questo, lo dicono le statistiche!!!

Secondo le statistiche, infatti, in Italia, le donne, non solo hanno di solito stipendi mediamente più bassi, ma hanno anche maggiori difficoltà a fare carriera rispetto agli uomini.

Questo, non tanto per pregiudizi culturali, quanto piuttosto perché sono di solito penalizzate dal punto di vista professionale durante le gravidanze e non riescono a conciliare la vita lavorativa e quella familiare, al punto di essere costrette a licenziarsi.

Dunque, se vogliamo fare le cose giuste, iniziamo prima e non dopo, come al solito in Italia.

E poi, già che ci siamo, ricordiamoci del privilegio, tutto femminile, delle pensionate di curare i genitori ultraottantenni, perché, come non c’erano asili nido quando le donne lavoratrici avevano i figli piccoli, così non ci sono ricoveri adeguati all’allungamento dell’età media della popolazione, adesso che, le stesse donne hanno i genitori anziani….

Antonella Ferrari




Noi stiamo con Milena…

Milena Gabanelli, 63 anni, è una nota conduttrice e giornalista italiana che lavora da 30 anni per la Rai.

La carriera della donna ha sempre girato attorno a programmi tv di inchiesta.

Il suo debutto è arrivato nel 1982 circa e da lì ha ricevuto sempre più consensi da parte del pubblico.

Nel 1989 ha preso parte a Special Mixer, dove ha avuto la possibilità di viaggiare e realizzare vari servizi, tra cui uno in Cina e uno in Vietnam.  Subito dopo l’esperienza a Special Mixer, Milena è divenuta inviata di guerra, recandosi così in numerose regioni colpite da svariati conflitti armati.

Nel 1994 è arrivata la prima esperienza da conduttrice con il programma Professione Reporter su Rai 2.

Il nome della Gabanelli è però conosciuto, ai telespettatori italiani, soprattutto per la sua presenza a Report in onda su Rai 3.

Milena è stata infatti protagonista e conduttrice del programma dal 1997 al 2016.

Nel 2013, inoltre, è arrivata un’altra grande soddisfazione per la giornalista:  Milena è infatti stata la più votata per la candidatura a Presidente della Repubblica dal Movimento 5 Stelle.

Nonostante la gratitudine nei confronti dei suoi colleghi, la donna ha però deciso di rinunciare alla carriera politica e di continuare con quella giornalistica.

Così, dopo innumerevoli premi per la sua professionalità e responsabilità, proprio dopo 20 anni di video giornalismo d’inchiesta, le è stato affidato il portale digitale di informazione Rai.

Anche qui, la Gabanelli si è dedicata con passione e professionalità al suo ruolo giornalistico.

Ma quel progetto è rimasto sulla carta, per le incomprensibili (o forse fin troppo comprensibili) resistenze dell’azienda pagata con i nostri soldi, ma teleguidata dai partiti.

Per non dover ammettere di aver cacciato anche lei, ultima di una lunga lista di proscrizione che va dall’era Berlusconi all’era Renzi, i vertici Rai le hanno fatto una proposta che, per dignità, la giornalista doveva rifiutare: la con-direzione di Rainews24, testata e sito semi-clandestini con un pugno di collaboratori scelti da altri.

E la Gabanelli, sempre per dignità, si è posta in aspettativa non retribuita: cioè – checché ne dicano i minimizzatori dei partiti e della stampa al seguito – fuori dalla Rai.

Noi pensiamo che qualunque emittente del mondo libero sarebbe orgogliosa di avere la Gabanelli tra i suoi giornalisti, soprattutto per le ragioni del suo rifiuto alla proposta del dg Mario Orfeo di fare la condirettrice di Rai News.

In un’intervista al Corriere della Sera, la giornalista Milena Gabanelli ha spiegato così il suo no alla con-direzione di RaiNews 24: “Ho chiesto l’aspettativa non retribuita.

Se vareranno una nuova testata e vorranno affidarmi la direzione, darò la mia disponibilità”.

Il piano prevedeva un nuovo sito, integrato con tutti i dipendenti dell’azienda pubblica: “La Rai, al contrario di tutte le tv del mondo, ha molti telegiornali, ma non ha un portale di news online organizzato” Mi sono tolta lo stipendio.

Non produrre e guadagnare lo troverei umiliante” “Il mio non è un capriccio, ma la certezza che non ci sono le condizioni per produrre risultati. E di cui poi devo rispondere. Il mio incarico è far funzionare l’informazione online, che la Rai non ha, malgrado i suoi 1.600 giornalisti. La proposta è quella di stare dentro un sito che non ha i presupposti per funzionare”

All’intervistatrice che le ha chiesto perché non le basta la promozione e uno staff di 40 giornalisti scelti da lei, Gabanelli ha risposto:

“Non ne ho mai fatto una questione di carica. E lavorare con Di Bella, che stimo, è pure divertente. Ma buona parte dei giornalisti che io ho incontrato, in un assestment interno, sono disponibili a trasferirsi al portale unico Rai, ma non al sito di una testata. Così quelli di tg nazionali e regionali, corrispondenti: tutti felici di contribuire. Ma non a Rainews.it, perché è percepito come il sito di una testata concorrente”.

Se il suo progetto originario non si realizzasse, la giornalista ha sottolineato:

“Sarebbe un peccato per la Rai che non può permettersi un ulteriore ritardo sull’online. Se invece il problema sono io, non ho difficoltà a farmi da parte, il lavoro fin qui fatto non andrà sprecato. Non ho paura del futuro e non sono legata alle poltrone, ho delle idee e una reputazione che vorrei continuare a mettere a disposizione del servizio pubblico. Ma non inventandomi un nuovo programma, altrimenti sarei restata dov’ero.”

Averne di giornalisti così…

Semplicemente, grazie di esistere, Milena…

 

Antonella Ferrari




Ridi che ti passa

“Ridi che ti passa” dice un vecchio proverbio.

Ma, applicato alla scuola, può davvero una semplice risata riportare l’armonia in classe?

Sì, lo conferma l’esperienza comune, ma c’è di più: oltre a creare un clima positivo dal punto di vista emotivo, ridere favorisce la concentrazione.

A sostenere questa tesi tanto provocatoria quanto rivoluzionaria è stata Lucia Suriano, insegnante, autrice di Educare alla felicità ed ambasciatrice nel mondo dell’International Laughter Yoga University, chiamata dall’ADI a chiudere la prima sessione di interventi nel seminario internazionale sull’educazione svoltosi a Bologna il 24 e il 25 febbraio scorsi.

Certo, è passato un po’ di tempo… Ma all’inizio di un nuovo anno scolastico conviene fare un breve ripasso…

Prof.ssa Suriano, tutti gli insegnanti possono potenzialmente creare un buon clima emotivo in classe? Quanto incidono o interferiscono il temperamento, le esperienze personali, l’indole?

“Sì, tutti potenzialmente possono; certamente contano moltissimo la storia personale e le esperienze di ciascuno; il temperamento e l’indole costituiscono un vantaggio, ma non ritengo siano fondamentali, poiché un insegnante è un professionista che oltre alle competenze del sapere e della didattica deve aver sviluppato notevoli competenze socio-emotive”.

E gli insegnanti ‘antipatici’ come fanno? Non dovrebbero avere diritto di cittadinanza nelle aule?

“Bella questa battuta! Un insegnante “antipatico” non è un professionista, al massimo possiamo parlare di un insegnante poco empatico e allora, possiamo iniziare a riflettere su come si possa sviluppare la capacità di entrare in empatia con l’altro, del resto la nostra non è definita professione a relazione d’aiuto?”.

Che cosa significa ridere con i propri allievi?

“Significa svelare la propria umanità, significa creare le condizioni perché il processo di apprendimento trovi le condizioni per avvenire in modo significativo e non semplicemente come sterile processo finalizzato all’emergenza contingente, cioè l’interrogazione”.

Lei insegna; cosa quotidianamente si ripete prima di entrare in classe?

“Ogni giorno so che ho la possibilità di imparare; prima di entrare in classe respiro, sorrido e… Buongiorno!”.

In quale ordine e grado di scuola le risate portano più beneficio all’apprendimento?

“La risata non conosce età, i benefici avvengono a livello psico-fisico ed emotivo, non possiamo scegliere di smettere di ridere. Il nostro corpo ha bisogno della risata come del pianto poiché nasciamo “cablati per fare l’esperienza della felicità” (C. Pert)”.

Ora, per chi ha provato sulla propria pelle l’enorme vantaggio terapeutico e didattico di una sana risata, voglio segnalare che il minimo comune denominatore degli insegnanti, che gestiscono una professione stressante a rischio di BURNOUT come l’insegnamento, è il desiderio di ricominciare o di continuare a stare bene a scuola, poiché la fatica degli ultimi anni e il malcontento non sono una leggenda…

Certo, bisogna educarsi ed educare a “ridere con…” e non “ a ridere di qualcosa o di qualcuno…” Però, ho imparato che un clima di distensione favorisce la motivazione.

Anno dopo anno, ho sperimentato che, in classe, c’è un grande bisogno di tornare a ridere in modo sano, positivo, pulito. Che nei momenti di maggiore conflittualità, il riuscire a virare sull’aspetto ludico, giocoso e divertente della situazione è una strategia didattica.

Che, spesso, un semplice esercizio di risata incondizionata può offrire più vantaggi che svantaggi ad un docente.

Che, alla fine, il saper instaurare una relazione con i propri alunni anticipa ed agevola l’insegnamento delle conoscenze ed il raggiungimento delle competenze.

Portare la risata nel mondo della scuola non squalifica l’intervento didattico, anzi, richiede molta preparazione, un grande lavoro su di sé, soprattutto molto rispetto del ruolo educativo che la scuola svolge nella vita di ciascun alunno.

La strada da percorrere è “quella della”ricerc-azione, della sperimentazione suffragata da una profonda conoscenza di ciò che ci giunge dagli studi scientifici, avendo come obiettivo lo sviluppo di un percorso che porti a vivere l’esperienza dell’apprendimento come qualcosa da desiderare e non da rifuggire; per fare questo dobbiamo puntare la nostra attenzione non solo sulle funzioni cognitive, ma anche sui processi emotivi e sull’importanza del movimento del corpo”, come ha dichiarato Lucia Suriano.

La stessa ha anche sottolineato che bisogna “ ricucire la frattura dicotomica tra scuola e risata, facendo riscoprire quest’ultima nella sua funzione di potente alleata del processo di apprendimento e non come nemica da combattere”.

Ed allora, forza, iniziamo il nuovo anno scolastico con un bel sorriso e non dimentichiamo che ridere in classe fa bene, parola di specialista…

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Antonella Ferrari