I conti non tornano … ormai sono scappati!

 

Per comprendere lo stato di salute della nostra nazione uno dei principali “termometri” è il “Conto disponibilità del Tesoro per il servizio di tesoreria”, usualmente indicato come “conto disponibilità”.

 

Esso è detenuto presso la Banca d’Italia ed assicura l’esecuzione degli incassi e dei pagamenti dello Stato.

 

La normativa comunitaria obbliga che non presenti mai un saldo negativo.

 

Vieta, infatti, alle banche centrali di concedere finanziamenti al Tesoro.

La legge di contabilità e finanza pubblica n. 196 del 31 dicembre 2009, con le successive più stringenti modifiche, disciplina la programmazione finanziaria garantendo un costante monitoraggio del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato dei flussi di cassa di detto conto e la conseguente capacità operativa sia nel breve che nel medio – lungo periodo.

 

Il ministero dell’Economia è tenuto a dare mensilmente evidenza pubblica dell’andamento di questo strategico “conto”, purtroppo i media e gli italiani tutti trascurano assai spesso questa lettura.

 

Ebbene l’ultimo comunicato informa che, ad aprile, lo Stato aveva a disposizione 13.842 miliardi di euro, circa la metà di quello che esponeva a saldo dodici mesi prima.

 

Indispensabile sottolineare che il comunicato del Ministero di aprile 2022 esponeva a saldo 83.445 miliardi, esattamente 69.603 miliardi in più.

 

La guerra in Ucraina con la conseguente, ed assai ideologica, gestione della crisi fra Stati Uniti, Nato, Unione Europea e Federazione Russa era iniziata da due mesi.

 

Oggi la Comunità Europea tutta sta vivendo la campagna elettorale per eleggere il nuovo parlamento europeo.

 

In Italia, non è la prima volta, questa corsa elettorale viene usata dai partiti, e vissuta dai cittadini, molto più come una verifica dei pesi politici interni.

 

D’altronde il Parlamento Europeo non viene percepito come strategico, la Commissione Europea ed il suo Presidente viene decisa dal Consiglio dei Presidenti dei 27 Stati membri e non dal Parlamento, e il ruolo delle direzioni generali di Bruxelles incide assai di più che quello dei futuri eletti.

 

Soprattutto per questo sono impercettibili i programmi dei singoli gruppi parlamentari del parlamento europeo nella campagna elettorale mentre sono assai visibili gli scontri fra i partiti ed i loro leader.

 

Oggi in Italia è molto più sentita la corsa fra Forza Italia e Lega oppure fra PD e Movimento Cinque Stelle, addirittura fra il Generale Vannacci e Salvini contro i “colonnelli” nella Lega o fra la Schlein ed i cosiddetti “cacicchi”, che la necessità di costruire una Europa diversa.

 

Questo, banalmente, perché una Europa diversa non nascerà attraverso queste elezioni ma esclusivamente attraverso una implosione definitiva del ceto elitario che governa la UE27 oggi qualsiasi sia l’esito di queste elezioni.

 

A causa di questo assai poco edificante quadro i partiti che compongono la coalizione di governo, al fine di rafforzarsi in Italia, riempiono di promesse l’opinione pubblica.

 

Dai bonus in busta paga, agli aiuti al mondo agricolo, dagli sgravi a chi assume a sanatorie di diversa fatta.

 

La dura realtà dei numeri, di quel “conto disponibilità” appunto, rappresenta la “Caporetto” in cui vive lo Stato italiano.

 

Una “Caporetto” che richiede da parte dei politici tutti, dei governanti ancor di più, saggezza ed umiltà.

 

Doti, entrambe, assai rare nell’Italia di oggi.

 

Per il momento le agenzie di rating rimangono in attesa.

Fitch ha mantenuto costante, infatti, la sua pagella sull’Italia in questi giorni.

 

Il 31 maggio toccherà a Moody’s, che molto probabilmente farà la stessa scelta.

 

Il momento dei segnali forti, sarà in autunno allorquando il governo italiano, questo o il prossimo, dovrà approntare la legge sulle future politiche economiche.

 

Quelle politiche che dovranno parlare con la nuova Commissione Europea e, forse ancora di più, con i mercati finanziari mondiali in costanza di un nuovo Presidente in Stati Uniti.

 

Ignoto Uno




Non esistono le gite scolastiche!

la normativa di riferimento in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero è composta dal DPR dell’8/03/1999 n. 275 e del 6/11/2000 n. 347 che hanno dato completa autonomia alle istituzioni scolastiche anche in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero.

Per amore di legge ricordiamo che le gite scolastiche non esistono, ma esistono i viaggi/uscite di istruzione, ma soprattutto  non sono semplicemente “premi” o interruzioni dal curriculum standard, ma componenti fondamentali di un sistema educativo che mira a formare individui ben arrotondati, critici e consapevoli.

Integrando le uscite didattiche con il curriculum regolare, le scuole possono arricchire notevolmente l’esperienza educativa degli studenti, preparandoli meglio a interagire con il mondo in modo informato ed efficace, infatti la norma di riferimento dice che:

L'autonomia delle istituzioni scolastiche e' garanzia di  liberta'
di insegnamento e  di  pluralismo  culturale  e  si  sostanzia  nella
progettazione e nella  realizzazione  di  interventi  di  educazione,
formazione e istruzione mirati allo  sviluppo  della  persona  umana,
adeguati ai diversi contesti, alla  domanda  delle  famiglie  e  alle
caratteristiche  specifiche  dei  soggetti  coinvolti,  al  fine   di
garantire loro il successo formativo, coerentemente con le  finalita'
e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e  con  l'esigenza
di  migliorare  l'efficacia  del  processo  di  insegnamento   e   di
apprendimento.

Da questo ne declina che le uscite didattiche sono interventi formativi integrati nella progettazione degli interventi educativi, a tutti gli effetti fanno parte del programma.

Le gite scolastiche, frequentemente percepite solo come momenti di svago o ricompense per gli studenti, rivestono in realtà un ruolo ben più significativo e sostanziale nel contesto educativo.

Queste esperienze sono parte integrante del processo di apprendimento, poiché contribuiscono allo sviluppo personale e culturale degli studenti in modi che l’ambiente convenzionale di una classe non può sempre offrire.

Le gite scolastiche contribuiscono vieppiù a una visione più olistica dell’educazione, che va oltre la semplice trasmissione di conoscenze.

Esse promuovono una comprensione più completa della realtà, incoraggiando gli studenti a sviluppare una coscienza critica e una migliore comprensione delle diverse sfaccettature sociali, storiche e ambientali.

In questo senso sono inspiegabili le esclusioni degli studenti dalle gite o la scelta di parteciparvi in conseguenza dell’andamento del voto di condotta.

Sarebbe un poco come dire che se un ragazzo ha un voto di condotta basso viene escluso da alcune lezioni, magari dalle più divertenti, per fargli sentire meglio la punizione.

I viaggi di istruzione non devono essere visti come un premio, al contrario sono dei momenti educativi molto importanti che dovrebbero richiedere agli studenti impegno ancora maggiore.

E’ veramente grave dal punto di vista educativo usare uno strumento a tutti gli effetti di programma per dare un contentino o una punizione agli alunni.

Il mondo della scuola dovrebbe fare una seria riflessione sull’argomento, valutandone le conseguenze e gli eventuali messaggi sbagliati che ne derivano.

Io credo che chi parla di certi argomenti dovrebbe conoscerli, ma purtroppo spesso non li conosce nemmeno chi siede al ministero, quindi di cosa ci meravigliamo? 




Alla scoperta della Teoria del Ponte Empatico nelle Organizzazioni

Betapress: Grazie per essere qui con noi oggi dott. Faletti. Lei gioca un poco in casa essendo anche il direttore di questa testata.

Faletti: Si in effetti credo molto nella divulgazione e il giornalismo fatto bene è sempre stato un mio peculiare interesse. Da ormai vent’anni svolgo attività nel mondo del giornalismo in tantissime forme.

Betapress: La “Teoria del Ponte Empatico” è una nozione che sta guadagnando molta attenzione nel mondo aziendale. Potrebbe spiegare cosa rappresenta questa teoria e come è nata?

Faletti: La Teoria del Ponte Empatico ha ormai nella mia mente più di vent’anni di gestazione, deriva da un saggio che avevo scritto, ovvero l’organizzazione fruibile, e prende spunto dalla necessità di comprendere e migliorare le interazioni all’interno delle organizzazioni, specialmente tra gruppi diversi. È basata sull’idea che l’empatia—la capacità di comprendere e condividere i sentimenti altrui—possa servire come un “ponte” per superare differenze e barriere, facilitando una collaborazione più profonda e significativa.

Betapress: Interessante. Ricordo che Lei ha anche molti titoli in Pedagogia, e da anni si occupa di questa scienza, come si applica concretamente questa teoria all’interno di un’organizzazione?

Faletti: Si in effetti il mio lavoro di pedagogista mi ha molto aiutato nel definire questa teoria del ponte empatico, soprattutto interagendo nei molti ruoli lavorativi da me ricoperti; ho avuto modo di definire la teoria che si focalizza su tre pilastri principali: formazione, leadership e politiche organizzative. Per impiantare il Ponte nell’organizzazione occorre partire da  workshop di formazione per sviluppare le competenze empatiche dei dipendenti a tutti i livelli. I leader, inoltre, sono formati per riconoscere ed esprimere empatia, agendo da modello per i loro team. Infine, le politiche organizzative sono rivedute per assicurare che promuovano inclusione e comprensione reciproca.

Betapress: Quali potrebbero essere le sfide nel promuovere questa teoria nel contesto aziendale?

Faletti: Una delle maggiori sfide sarà quella di convincere le leadership aziendali che l’empatia non è solo una “bella qualità” da avere, ma una componente essenziale per il successo e la sostenibilità aziendale. Inoltre, c’è sempre il rischio di resistenza al cambiamento, specialmente in organizzazioni con culture ben radicate che valorizzano la competitività rispetto alla collaborazione.

Betapress: Ha riscontri su come la teoria possa impattare nelle organizzazioni ?

Faletti: Sì, da piccoli esperimenti da me realizzati sui luoghi di lavoro i risultati sono molto positivi. Le organizzazioni in cui ho provato ad implementare la teoria hanno mostrato un miglioramento nel morale dei dipendenti, una diminuzione dei conflitti interni e un incremento della collaborazione. Questo non solo migliora l’ambiente lavorativo ma spesso si traduce anche in migliori performance complessive. E’ solo, per ora, un percorso minimale quello da me fatto, ma i risultati sono promettenti.

Betapress: Qual è il suo obiettivo a lungo termine con la Teoria del Ponte Empatico?

Faletti: Il nostro obiettivo è vedere questa teoria adottata come standard nel mondo organizzativo. Vogliamo che diventi una prassi comune considerare l’empatia non solo come una competenza sociale, ma come una strategia di business cruciale, essenziale per la crescita e l’innovazione sostenibili.

Betapress: riesce a darci un assaggio di come è costruita questa teoria?.

Faletti: L’elaborazione di una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali ha richiesto una riflessione profonda su come le relazioni interpersonali e intergruppi possano essere orientate e strutturate per promuovere una collaborazione efficace e un benessere collettivo.

Una tale teoria è strutturata attorno a vari pilastri fondamentali che includono la comprensione, la comunicazione, la condivisione di esperienze e la promozione di una cultura dell’empatia.

Ho sviluppato un approccio teorico basato su questi elementi che riassumo per brevità:

Definizione e riconoscimento dell’empatia intergruppi

L’empatia intergruppi può essere definita come la capacità di comprendere e condividere i sentimenti e le prospettive di membri di altri gruppi sociali, e di essere motivati a rispondere con compassione alle loro esigenze e difficoltà.

Questo richiede un riconoscimento attivo delle differenze e delle somiglianze tra gruppi, senza cadere nella trappola di stereotipi e pregiudizi.

Sviluppo di competenze empatiche

Per favorire l’empatia tra gruppi diversi, è essenziale promuovere l’educazione e la formazione sulle competenze empatiche all’interno delle organizzazioni.

Questo include la formazione su ascolto attivo, comunicazione non violenta, e tecniche di risoluzione dei conflitti.

Inoltre, le simulazioni e i giochi di ruolo possono essere utilizzati per permettere ai membri di sperimentare situazioni dal punto di vista degli altri.

Strutture e politiche organizzative

Le strutture organizzative dovrebbero essere progettate per promuovere incontri e collaborazioni tra gruppi diversi.

Ciò può includere la creazione di team misti su progetti, programmi di scambio tra diversi settori o dipartimenti, e la creazione di comitati di diversità e inclusione che lavorano attivamente per identificare e abbattere le barriere all’empatia intergruppi.

Leadership empatica

La leadership gioca un ruolo cruciale nel modellare la cultura organizzativa. Leader empatici possono servire da modelli, mostrando come l’empatia possa guidare decisioni etiche e giuste.

Essi dovrebbero essere formati per riconoscere e valorizzare le diversità, facilitare dialoghi aperti tra gruppi e intervenire in modo costruttivo quando emergono tensioni.

Valutazione e feedback

Una cultura basata sull’empatia richiede meccanismi di valutazione e feedback che non solo misurino il successo in termini di risultati economici, ma anche in termini di benessere sociale e collaborazione tra gruppi.

Feedback regolari possono aiutare a identificare le aree di miglioramento e a celebrare i successi nel costruire un ambiente organizzativo più empatico.

Ricerca e sviluppo continuo

Infine, è vitale che le organizzazioni investano nella ricerca continua sulle dinamiche di gruppo e sull’empatia intergruppi.

Ciò può includere collaborazioni con accademici e istituti di ricerca per studiare l’efficacia delle politiche implementate e per esplorare nuove strategie per rafforzare l’empatia organizzativa.

In conclusione, una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali può offrire un potente framework per costruire organizzazioni più inclusive, resilienti e produttive.

Promuovere l’empatia non solo migliora il clima interno, ma può anche rafforzare la reputazione dell’organizzazione all’esterno, attrarre e trattenere talenti, e promuovere l’innovazione attraverso una maggiore comprensione e collaborazione tra diversi gruppi sociali.

Betapress: Grazie per aver condiviso queste intuizioni con noi. Sembra davvero che la Teoria del Ponte Empatico possa essere un cambio di paradigma per il futuro del lavoro, uscirà anche un libro?

Faletti: Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma sono fiducioso che possiamo costruire ponti di empatia che porteranno a un futuro più collaborativo e inclusivo per tutti, si un libro è già in lavorazione come può vedere dalla bozza di copertina.




Politicallllllly Corrrrrect … che freno al confronto!!!

La critica al concetto di “political correctness” (PC), o correttezza politica, può essere articolata da diverse prospettive, che includono questioni linguistiche, socioculturali, e politiche.

Il termine “correttezza politica” è stato utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90 per descrivere una serie di norme linguistiche e comportamentali intese a evitare l’esclusione o l’offesa di gruppi sociali minoritari o svantaggiati.

La correttezza politica nasce come uno sforzo per promuovere il rispetto e la dignità di individui e gruppi spesso marginalizzati nella società, come le minoranze etniche, le donne, e le persone LGBTQ+.

In teoria, il concetto si fonda sull’idea che il linguaggio e le pratiche inclusive possano contribuire a una società più equa e giusta.

Uno degli argomenti principali oggi contro la correttezza politica è che essa venga utilizzata come censura indiretta, limitando la libertà di espressione.

I critici sostengono che il timore di contravvenire alle norme di PC possa scoraggiare le persone dal discutere apertamente di questioni sensibili o controversie.

Questo sta portando ad un ambiente in cui le opinioni sincere vengono sopite per evitare conflitti o accuse di insensibilità.

In aggiunta si osservi che si tende a generalizzare eccessivamente le esperienze e le identità di individui e gruppi, ignorando le complessità e le differenze interne a questi gruppi.

Questo può risultare in un approccio paternalistico che assume una vulnerabilità uniforme tra coloro che sono considerati “protetti” da queste norme.

Il PC è spesso visto come uno strumento di divisione politica, specialmente in contesti come gli Stati Uniti, ma ultimamente anche da noi, dove le questioni di correttezza politica hanno spesso diviso l’opinione pubblica lungo linee ideologiche.

La certezza che il PC sia una prerogativa della sinistra politica aliena ulteriormente la destra, contribuendo a una maggiore polarizzazione.

Molti studi suggeriscono che l’imposizione rigida di norme di correttezza politica possa avere effetti controproducenti.

Per esempio, può indurre rancore o resistenza tra coloro che si sentono ingiustamente limitati o accusati di pregiudizi.

Inoltre, può ridurre l’efficacia del dialogo autentico e dell’engagement in questioni di uguaglianza e giustizia sociale.

La PC dovrebbe promuovere una maggiore consapevolezza delle differenze e un rispetto per le esperienze altrui, tuttavia, è proprio la modalità con cui è applicata e percepita che può determinare se diventi un’utile strumento di inclusione sociale o un meccanismo repressivo.

Oggi in realtà il politically correct viene usato per desertificare il confronto politico e sociale, utilizzato soprattutto da chi ritiene necessario che le uguaglianze soffochino le diseguaglianze senza rendersi conto che non è questione di differenze o similitudini, ma di differenti prospettive dialettiche.

La semantica del confronto richiede impegni maggiori rispetto alla uniformità, richiede livelli culturali più alti ma soprattutto richiede un’apertura mentale ormai privilegio di pochi.

Come al solito gli ignoranti che si appropriano di strumenti troppo evoluti li applicano scadendo nel ridicolo; da qui le fin troppo assurde questioni decidere se il presidente se è una donna deve essere presidentessa o presidenta, senza tener conto del senso della parola che invece deriva da un participio asessuato che vuol dire presiedere, o togliere i bagni uomini/donne e fare i bagni unici, o peggio ancora arrivare a cancellare delle fiabe perché contenevano parole come ottentotti.

Qui entra una deriva della politically correct che è la cancel culture, altra fesseria cosmica che non tiene conto dei necessari rapporti esegetici da fare quando ci si confronta con temi soprattutto del passato.

Ma tutto questo avviene perché il livello culturale è drammaticamente calato, perché la curiosità intellettuale è quasi sparita, ma perché soprattutto la volontà di controllo da parte delle oligarchie del potere passa esclusivamente per la massificazione delle menti del popolo.

Infatti la realtà è foriera di verità inoppugnabili: quali sono gli interessi oggi del ministero dell’istruzione?

La copertura delle vacanze estive, ritornare ai voti, creare delle ulteriori figure (tutor dell’orientamento) inutili, le bocciature, meno stranieri nelle classi, e così via.

Niente rispetto a cosa si insegna e come, all’aggiornamento dei programmi, a nuovi percorsi didattici, alla revisione generale del mondo della scuola?

Ma dov’è la riforma della scuola che Valditara aveva promesso a Salvini quando fu nominato ministro? Sembrava tra l’altro che fosse già pronta, a meno che non stiamo parlando dei tutor dell’orientamento …

Come si può vedere quello che conta e su cui tutti noi dovremmo batterci non è la correttezza politica o fesserie simili, ma la strada per ritrovare la cultura ormai persa dalle nuove generazioni, per dare ai nostri figli la capacità di comprendere il mondo che li circonda, quell’empatia necessaria per vivere un sociale differente.

In conclusione, il dibattito sulla correttezza politica riflette tensioni più ampie relative alla cultura delle generazioni, alla libertà di espressione, all’identità sociale, e al cambiamento culturale.

Dibattito che stiamo perdendo alla grande.

 




Non ci sono più le mezze stagioni…

Oggi non ci sono più le mezze stagioni, oggi i riferimenti stabili anche politici sono spariti, non fa stupore  a chi è di destra non ritrovarsi o non riconoscersi nella destra, come per chi è sempre stato di sinistra nella sinistra.

Una “Destra”  ed una “Sinistra” con “copyright” di quel Deep State  sempre più invasivo; come del resto le note di banco o banconote di euro, appartenenti non al Popolo italiano, ma ad una Corporate che, fa signoraggio applicando tassi di interesse  a piacimento di quel “cerchio magico” di  Bruxelles, utilizzando un denaro ormai privo di valore intrinseco, non agganciato a nessun tipo di bene rifugio (gold standard).

Sinistra, dicevo, speculare  a questa  destra, una  buonista e inclusivista, l’altra fintamente Patriottica.

Come ai tempi lo è stata la lega Lombarda, nata cavalcando il  mal di stomaco  meridionalistico  di “Roma ladrona” degli anni ’90, enfatizzato né più e né meno  come poi anche altre forme di populismi  fintamente indignati e reazionari,  che, a distanza di anni hanno riproposto lo stesso scenario colpevolista, vedi il movimento cinque stelle, con  il quale hanno catalizzato il dissenso, diventando da forze antagoniste a forze di sistema, ma senza avere l’ossatura di una forza di sistema e nemmeno la preparazione.

Il tutto affiancato da Un Partito Democratico, ex Pci, ex Ds, ex ulivo, insomma una matriosca riuscita male come  una maionese impazzita, impazzito appunto.

Una sinistra senza un centro di gravità permanente che, a dispetto di un  buon Battiato d’annata, “faccia cambiare idea sulle cose e sulla gente” con politiche finto “buone”, “green” e  “gender”.

Non so chi ha più colpe o responsabilità, ma alla fine ci si rende conto che è un gioco delle tre carte al quale si chiede, alla fine di ogni mandato elettorale, di poter comunque andare a votare per tenere in piedi il teatrino che va’ avanti da ormai troppo tempo.

Alla vigilia delle elezioni politiche europee, tutti i partiti corteggiano e seducono i propri rispettivi potenziali elettori per poi abbandonarli, come da copione, con buona pace di valori e ideali, sbandierati in tutte le salse ,in tutti colori rossi o neri di sorta. 

  Lasciando, alla fine, tutti al proprio drammatico destino: la mancanza di lavoro spesso sottopagato e conseguentemente dei soldi indispensabili per andare avanti.

Tipica ricorrenza, questo passato 1°maggio, in cui si doveva festeggiare il lavoro che oggi non c’è più, siamo ormai passati dalla festa del lavoro al funerale del lavoro, e ringraziamo Dio che con le sue copiose precipitazioni ci ha fatto  levare  l’incombenza, sempre più triste, inutile e patetica di andare chissà dove a festeggiare chissà cosa.

Sono rimasti indefessi festeggianti quei sindacati (simil orchestra sul Titanic) che ormai non rappresentano più  la classe dei lavoratori, ma che supinamente subiscono i diktat non tanto dei vari governi tecnici, succedutisi in questi ultimi anni, ma di quell’organo supremo, oramai questo sì, totalmente sovrano e dittatoriale dal nome “Commissione Europea”.

Il che si risolve tutto in una festa dei lavoratori italiani a guisa di “concertone” musicale, che di musicale e artistico ha ben poco, vero oppiaceo per le masse sempre più ignoranti e disilluse.

Suoni sintetizzati e testi violenti contro la legge e i suoi rappresentanti, contro il lavoro quello vero quello legale e a favore di tutte le droghe possibili e immaginabili sia per consumo soprattutto come ascensore sociale “per fare soldi “!

In fretta  e tanti! Alla faccia del lavoro vero fatto di anni di sacrifici e di privazioni.

È il nuovo “credo” a cui molti giovani si rivolgono ed riempiono la platea, perfetti per essere cloroformizzati da messaggi subliminali violenti.

D’altronde, questa nuova religione, è il vero “oppio dei popoli “( K. Marx).

L’urgenza, quella vera e importante, e di cui nessuno vuole farsi carico, sia da destra che da sinistra, è rispondere alle generazioni future mettendo le basi per un futuro di speranza e di dignità.

Il punto  è che gli anni che verranno si preparano veramente difficili, sia per chi ha già dato in parte il suo contributo, in tutti i sensi, sia per chi si accinge a volerlo o doverlo fare, cercando un lavoro dignitoso ed un salario accettabile e bastevole all’aumentare del caro vita.

Questa società così “non disegnata” non può stare in piedi.

Chi decide dietro le quinte, lo sa molto bene, ma non ha interesse a porvi rimedio.

Non vuole, perché è succube di poteri che hanno sostituito completamente quell’idea di democrazia a cui si era abituati e che i partiti della prima Repubblica in qualche modo, garantivano.

Ora è tutto diverso: le lobby e le multinazionali la fanno da padrone.

Tutti sono” funzionali” a tutto, tranne che al Popolo Sovrano.

La Sovranità del Popolo, che è il fondamento della Costituzione, è stata congelata e messa in cantina, assieme a quel Crocifisso  sempre più scomodo e imbarazzante.

E’ di questi giorni la notizia vera ed  imbarazzante che, alcuni professori, abbiano escluso da una gita, alunni con disabilità, a favore di altri ,”meritevoli” di alto rendimento scolastico, alla faccia dell’inclusività, quella tanto cara a questa Sinistra.

In questo caso però nessun esponente politico di sinistra a preso le distanze da questo fatto, tranne il Ministro dell’istruzione che ha segnalato e deplorato il caso.

Come del resto la supina  accettazione di festività del giorno di ramadan mussulmano e fatto digerire a tutta la scolaresca e non solo, fatta da  quel corpo docenti, Preside compresa, di quell’istituto  scolastico del milanese.

Atteggiamenti ideologici provenienti da  una sinistra  irriconoscibile per dirsi “sinistra”, come una destra che non lo è, per altri motivi e ragioni, per potersi definire e chiamarsi “destra”.

Riporta la divertente e sagace canzone di Giorgio Gaber: ma cos’è la destra, cos’è la sinistra!? Oramai siamo arrivati al neutro  colore unico, pensiero unico, sesso unico o unisex  ed  etnia unica.

Come dice il buon Enrico Montesano:  non c’è più una destra e una sinistra ma un  sopra  ed un sotto, e noi, chiaramente, siamo sotto.




L’intelligenza Artificiale novello Frankenstein

L’intelligenza artificiale (IA) moderna, spesso vista come un culmine delle aspirazioni tecnologiche umane, rappresenta una metafora contemporanea del classico mostro di Frankenstein di Mary Shelley.

Nel racconto, Victor Frankenstein crea una creatura dalla combinazione di scienza avanzata e ambizioni trascendenti, il che rispecchia il nostro moderno percorso di sviluppo dell’IA.

Questo parallelo si manifesta in diverse dimensioni etiche, sociali e tecnologiche.

Shelley descrive Frankenstein come un individuo ossessionato dall’idea di sfidare le leggi naturali della vita e della morte, creando una creatura vivente da parti di corpi non viventi.

Analogamente, l’IA moderna è spesso il risultato di un insieme eterogeneo di dati e algoritmi, progettata per emulare e talvolta superare le capacità cognitive umane.

In entrambi i casi, il creatore deve confrontarsi con questioni di responsabilità morale per le azioni della propria creazione.

Nel contesto dell’IA, questo solleva interrogativi urgenti sulla responsabilità degli algoritmi che prendono decisioni autonome o semiautonome, influenzando la vita delle persone in modi significativi e talvolta irrevocabili.

Il mostro di Frankenstein è inizialmente ostracizzato e temuto non per le sue azioni, ma per il suo aspetto e l’origine non naturale.

Questo è parallelo alla percezione pubblica dell’IA, spesso vista con sospetto e paura a causa della sua complessità e del potenziale impatto incompreso.

I media e la narrativa popolare tendono ad accentuare queste paure, presentando l’IA come una forza potenzialmente incontrollabile o minacciosa, simile al mostro che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Frankenstein si trova a riflettere troppo tardi sugli aspetti etici della sua impresa, specialmente riguardo al benessere della sua creazione e al suo impatto sugli altri.

Allo stesso modo, il rapido sviluppo dell’IA ha superato la riflessione etica su molti aspetti importanti, come la privacy, la sicurezza dei dati e le implicazioni a lungo termine dell’autonomia delle macchine.

La necessità di una regolamentazione etica è diventata evidente, con accademici e regolatori che chiamano a una maggiore attenzione su come le IAs sono progettate, implementate e gestite.

Il mostro di Frankenstein è essenzialmente solo, senza compagni o pari, un destino che riflette un potenziale scenario futuro per l’umanità stessa nell’era dell’IA.

Man mano che le macchine assumono ruoli sempre più complessi esiste il rischio che l’umanità si trovi alienata dalle proprie creazioni o addirittura dipendente da esse.

Questo può portare a una nuova forma di isolamento sociale, dove le interazioni umane sono sempre più mediate dalla tecnologia.

Il racconto di Frankenstein solleva comunque importanti questioni sulla responsabilità dei creatori nel considerare l’impatto delle loro invenzioni sulla società.

L’IA, con le sue capacità di trasformare industrie intere, modi di vita e persino le interazioni interpersonali, rappresenta una sfida molto vicina a quella della creazione.

La sua integrazione nella società deve essere gestita con cura per evitare disuguaglianze amplificate, perdita di posti di lavoro, e altre potenziali crisi sociali.

Paradossalmente, ma forse molto realisticamente, oggi l’intelligenza artificiale può essere vista come il “nuovo mostro di Frankenstein”, non solo per il suo potenziale di sfuggire al controllo umano ma anche per le profonde implicazioni etiche e sociali che comporta.

Come nel romanzo di Shelley, l’IA sfida le nostre concezioni tradizionali di vita e responsabilità, spingendo l’umanità verso nuovi confini morali e tecnologici.

L’imperativo rimane quello di guidare questo progresso con una riflessione etica adeguata, garantendo che le tecnologie che creiamo servano veramente il bene dell’umanità piuttosto che precipitarla verso nuove forme di tragedia, ma per far questo dovremmo essere a monte convinti di quale sia il bene dell’umanità, che non è il benessere economico ma quello spirituale.




la maglietta non fa il monaco

Da Giovanni Gentile ad oggi

Il filosofo fascista Giovanni Gentile fu l’ideologo che fece imporre per legge ai docenti universitari nel 1931 “l’obbligo di giuramento di fedeltà al partito fascista”.

Su milleduecento furono solo venti i docenti che si rifiutarono.

In queste ore, a mia memoria prima volta nella storia repubblicana, basiti, noi cittadini italiani abbiamo dovuto assistere a manager pubblici di prima fascia schierarsi su un palco di partito, quello di cui è presidente la Premier Giorgia Meloni, con in mano una maglietta con lo slogan elettorale del partito stesso.

Sembrerebbe che solo l’amministratore delegato del ENI si sia rifiutato, al contrario vi sono iconiche immagini con il presidente di Leonardo Spa, Stefano Pontecorvo, e il presidente dell’Agenzia per la Cybersecurity, Bruno Frattasi, hanno accettato di farsi fotografare sul palco della convention di Fratelli d’Italia, a Pescara, con la maglietta del partito con lo slogan della campagna elettorale “L’Italia cambia l’Europa”.

Qualcosa che cammina in mezzo a due suggestioni.

Da un lato la “maglia del cuore” indossata dai tifosi allo stadio, dall’altro quella triste “tessera” che ti permetteva di “lavorare”.

Importanti esponenti di Fratelli d’Italia hanno commentato le tante dichiarazioni che hanno espresso perplessità su queste immagini come “strumentali”, certamente vero ma come non notare che i manager di Stato dovrebbero almeno apparire terzi agli schieramenti partitici?

Certamente ad oggi è sempre stato così.

I manager pubblici hanno sempre avuto una appartenenza partitica, mai una sovraesposizione della stessa.

In fondo ci fu chi usava dire che “la forma è sostanza”, si chiamava Aristotele.

Uno interessante da leggere.

Questo è accaduto, venerdì 26 aprile, al termine di un panel sulla “politica estera comune e la difesa della libertà europea” alla presenza del ministro della difesa Guido Crosetto.

Una domanda sorge spontanea in costanza di, assai divisive, elezioni presidenziali in Stati Uniti: come la commenterà questa immagine quel mondo americano vicino al candidato Donald Trump?

Quel mondo, utile ricordarlo, che ritiene che le elezioni presidenziali del 2020 abbiano visto gravi brogli elettorali telematici per essere chiari.

I dirigenti politici, questo il mio sommesso avviso, dovrebbero ricordarsi che la globalità di informazione che il mondo del web ha fornito ai cittadini del mondo vale sempre, non solo quando ci è utile.

Vi è una seconda ipotesi, è quella di pensare di usare questo sistema per lanciare messaggi nella bottiglia, in questo caso il web.

In comunicazione, però, la colpa della reazione al messaggio è sempre di chi comunica.

Questo insegnano i docenti di scienza delle comunicazione, ancor più oggi che non si usa prendere la “tessera per poter lavorare”.

Ignoto Uno




Fascismo e Antifascismo nel XXI Secolo: mogli e buoi dei tempi tuoi.

L’evocazione di termini storico-politici quali “fascismo” e “antifascismo” nel discorso contemporaneo solleva questioni di notevole rilevanza.

Sarebbe come trasportare ai tempi moderni altri dualismi storici; infatti il concetto di entità che sono logicamente collegate in un certo periodo storico ma non in altri può essere approfondito attraverso l’analisi di specifici fenomeni o ideologie che emersero e si svilupparono in risposta a circostanze storiche particolari.

Queste entità spesso perdono la loro rilevanza diretta o la loro relazione logica quando le condizioni cambiano drasticamente.

Qui di seguito, descriverò due coppie di entità storiche che illustrano questo principio.

Assolutismo monarchico e mercantilismo (XVII – XVIII secolo)

Assolutismo monarchico: Durante il XVII e XVIII secolo, molte nazioni europee erano governate secondo il principio dell’assolutismo monarchico, che sosteneva che il sovrano avesse poteri illimitati, non soggetti a leggi terrene ma solo alla volontà divina.

Questa forma di governo era particolarmente prevalente in Francia, con sovrani come Luigi XIV.

Mercantilismo: Parallelamente all’assolutismo, si sviluppò il mercantilismo, un sistema economico nazionalista che mirava a massimizzare le riserve di metalli preziosi di una nazione attraverso una bilancia commerciale positiva, spesso sostenuta da politiche protezionistiche e coloniali.

Il mercantilismo era logico in un’epoca di assolutismo perché entrambi promuovevano un forte controllo statale, sia dell’economia che della società, e il sovrano poteva dirigere l’economia in modo che servisse gli interessi dello stato.

Differenze in altri periodi: Nel contesto moderno o post-industriale, né l’assolutismo né il mercantilismo sono praticabili o desiderabili.

L’assolutismo contrasta con le moderne concezioni di diritti umani e democrazia, mentre il mercantilismo è stato soppiantato da teorie economiche che favoriscono il libero scambio e la globalizzazione.

Guerra fredda e corsa agli armamenti nucleari (circa 1947 – 1991)

Guerra fredda: Il periodo della Guerra fredda, caratterizzato dalla rivalità ideologica, politica, economica e militare tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ha definito l’ordine mondiale per gran parte della seconda metà del XX secolo.

Questo periodo è stato segnato da un costante sospetto e da un confronto indiretto attraverso guerre per procura e influenze politiche in nazioni terze.

Corsa agli armamenti nucleari: In questo clima di tensione e competizione, entrambe le superpotenze investirono enormemente in armamenti nucleari, portando a una corsa agli armamenti senza precedenti.

La logica dietro questo massiccio accumulo di armi nucleari era la deterrenza, con l’idea che un arsenale sufficientemente potente avrebbe scoraggiato l’altro da qualsiasi attacco diretto.

Differenze in altri periodi: Dopo la fine della Guerra fredda nel 1991, con il collasso dell’Unione Sovietica, la logica della corsa agli armamenti nucleari è diventata molto meno centrata.

Anche se le questioni di non proliferazione e disarmo rimangono cruciali, l’acuta bipolarità e la corrispondente corsa agli armamenti non hanno più lo stesso significato strategico nel contesto multipolare odierno, dove le minacce sono più diffuse e meno concentrata tra due sole superpotenze.

In entrambi questi casi, le entità discusse erano strettamente interconnesse e logiche nei loro contesti storici specifici, ma perdono questa connessione logica quando trasportate in altri periodi storici, dimostrando come le circostanze storiche possano profondamente influenzare la pertinenza e la funzionalità delle pratiche politiche ed economiche.

In un’epoca caratterizzata da una complessità socio-politica crescente, l’applicazione di categorie storiche come appunto fascismo ed antifascismo a contesti nuovi può risultare problematica, oltre che stupida.

In queste brevi note, si argomenterà che il riferimento a tali termini è non solo anacronistico, ma potenzialmente nocivo, influenzando negativamente il dibattito pubblico e politico attuale.

Il fascismo, nato nel contesto post-bellico italiano del XX secolo, era caratterizzato da una forte componente nazionalistica, una politica economica corporativa, il totalitarismo e una repressione violenta dell’opposizione. L’antifascismo, d’altra parte, rappresentava un ampio spettro di movimenti e ideologie politiche che si opponevano a questi principi, spesso sostenendo valori democratici, libertari e progressisti.

Esiste a tutti gli effetti una discontinuità storica: le condizioni politiche, economiche e sociali che hanno dato origine al fascismo degli anni ’20 e ’30 non sono replicabili nella società contemporanea globalizzata e tecnologicamente avanzata.

Utilizzare il termine “fascismo” per descrivere fenomeni moderni può portare a una comprensione errata di questi ultimi, ignorando le loro specificità.

Fin troppo facile ammantarsi di mantelli antifascisti sic et simpliciter, semplificazione e riduzionismo distruggono la verità storica contemporanea.

Etichettare indiscriminatamente come “fascisti” gli avversari politici moderni può ridurre la complessità dei problemi attuali a una dicotomia obsoleta, impedendo un’analisi più matrice e differenziata delle questioni politiche.

L’antifascismo, pur nascendo come risposta necessaria e morale al fascismo, oggi rischia di trasformarsi in un etichettamento che non riflette le reali dinamiche politiche.

Il pericolo è duplice:

Da una parte un vero e proprio fenomeno di polarizzazione e alienazione, anche culturale.

L’uso del termine “antifascista” come sinonimo di virtù può creare un ambiente in cui chiunque non si allinei completamente a una certa visione politica viene marginalizzato o etichettato negativamente, alimentando divisioni e incomprensioni.

Senza dubbio dall’altra si crea una distrazione dai veri problemi: concentrarsi sul combattere un “fascismo” che non corrisponde alla realtà contemporanea, può distogliere l’attenzione da minacce più immediate e concrete alla democrazia e ai diritti umani, come il populismo autoritario, il razzismo sistematico, la disuguaglianza economica e la crisi climatica.

Il rischio di chi continua ad ostinarsi in questa dialettica inutile è che passi per incapace di affrontare seriamente altri problemi e quindi si trinceri dietro una inutile ed ormai suberata diatriba storica per non mostrare la propria inadeguatezza a combattere i temi veri del presente. 

Sostenere che parlare di fascismo e antifascismo sia deleterio non equivale a negare l’importanza storica o l’impatto di tali movimenti, né implica l’ignoranza delle loro tragiche conseguenze.

Piuttosto, si propone una riflessione critica sulla pertinenza e l’efficacia di questi termini nel contesto attuale.

Nel formulare politiche e nel dibattito pubblico, è fondamentale promuovere un linguaggio che rifletta la realtà contemporanea, evitando anacronismi che possano semplificare eccessivamente complesse realtà sociali.

Inoltre, è essenziale che il discorso politico rimanga centrato su questioni attuali, promuovendo un dialogo inclusivo e produttivo anziché divisivo.

In questo modo, la società può effettivamente affrontare e risolvere le sfide del presente con strumenti adeguati e un’analisi accurata.

Lo stesso Slavoj Žižek, anche se non nega l’esistenza di correnti neofasciste, ha criticato l’uso del fascismo come categoria onnicomprensiva che impedisce un’analisi più fine delle condizioni politiche attuali.

Žižek, in particolare, ha sottolineato come l’ossessione per il fascismo possa distogliere l’attenzione da altre forme emergenti di dominio e oppressione che non rientrano facilmente nella categoria del fascismo tradizionale.

In effetti, mentre il fascismo e l’antifascismo resteranno concetti significativi nella comprensione degli eventi storici del XX secolo, la loro applicazione indiscriminata ai fenomeni attuali può non solo distorcere la realtà, ma anche impedire un’efficace risposta alle sfide politiche del nostro tempo.

Viene spontaneo chiedersi: ma è forse proprio quello che qualcuno vuole? Trincerarsi dietro l’evocazione di un periodo ormai estinto per non fare vedere la propria pochezza politica?




Stan Laurel e Oliver Hardy amici oltre il tempo.

La “Cultura” concorre alla formazione dell’Individuo sul piano intellettuale e morale, oltre all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società.

E’ infatti l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio la letteratura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente ed elaborate in modo soggettivo ed autonomo , diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a migliorare le facoltà individuali, specialmente nella capacità di giudizio.

E’ con questo spirito che ci Pregiamo di dare spazio da oggi alla Collega Cristina Ciferri.

Prima del suo interessantissimo pezzo, che leggete a seguire, un suo brevissimo curriculum che la pone al top di quelle discipline che vanno dall’arte, alla moda, dal food al turismo.

Non a caso fondatrice e CEO di Accademie di grande interesse Nazionale ed Internazionale.

 

Cristina Ciferri Giornalista Pubblicista,

Comunicatore d’Impresa e Tecnico Pubblicitario;

Vocational Education Specialist; Instructional Designer; Press Relations &

Event Manager.

Dal 1993 Amministratore Unico ANCI srl – Accademia Nazionale Comunicazione e Immagine.

Dal 2004 CEO & Founder ANPA – Accademia Nazionale Professioni Alberghiere prima Scuola -Albergo d’Italia

specializzata nel campo della formazione professionale e manageriale dei settori Hospitality & Food & Beverage Management.

Dal 2017 CEO & Founder dell’Ateneo del Gelato Italiano, Scuola Internazionale di Gelateria Artigianale Made in Italy e Laboratorio Creativo del Gusto.

 

 

“STANLIO & OLLIO” – Amici fino all’ultima risata

Comicità e commozione per ridere fino a piangere e piangere dal ridere

 

Al Teatro Vittoria di Roma, lo scorso Martedì 23 Aprile in scena un elegante e esilarante cammeo di raffinata e intelligente comicità, un equilibrato esercizio di stile recitativo, un concentrato di toccanti emozioni, un intreccio di sovrapposti e a volte contrastanti sentimenti dipinti con pennellate di vite recitate e vissute, a comporre una tela astratta senza confini dove storie umane e professionali tinte di gloria e sofferente decadenza, creano un arcobaleno di intense e ammalianti suggestioni, riportando in vita il più famoso ed immortale duo comico Hollywoodiano: Stan Laurel e Oliver Hardy.

 

Esperimento pienamente riuscito grazie alla straordinaria capacità recitativa della coppia protagonista dello spettacolo, Claudio Insegno nei panni di Stanlio e Federico Perrotta in quelli di Ollio (Babe) e dell’intera compagnia teatrale, composta da altri 5 attori abilissimi nell’interpretare in sequenza addirittura 24 diversi ruoli, tra i quali in particolare quelli delle tanti mogli e amanti del duo comico (portate in scena da Valentina Olla, Sabrina Pellegrino e Federica De Riggi), dell’attore Jimmy Finlayson, il leggendario burbero ometto dagli enormi baffi e occhi strabuzzati, continuamente in lite con i due protagonisti e di Hal Roach, l’ideatore e primo produttore della coppia Stanlio e Ollio (interpretati entrambi da Franco Mennella). Non di minor valore artistico l’interpretazione di Giacomo Rasetti, impegnato in scena nel ruolo di tecnico, aiuto regista e pazzo maniaco.

 

Vincente il testo inedito scritto dallo stesso Insegno con Sabrina Pellegrino e diretto sempre da Insegno, che ha dato vita ad una commedia musicale dal grande e incalzante ritmo, costruita sullo stile ispirato al genere Slapstick del cinema muto, basato sul linguaggio del corpo e sulla esilarante costruzione di azioni spericolate e esagerate, colpi, risse, incidenti e lancio di oggetti e torte in faccia, che da subito fa decollare lo spettacolo strappando risate e applausi e riuscendo al contempo a trasportare il pubblico all’interno di spazi improbabili, dove tutto si mescola e si separa, si fonde e confonde, creando un feel rouge tra la vita privata e quella artistica dei due grandi comici, complementari quanto assolutamente diversi e caratterialmente opposti nella realtà come in scena e proprio per questo straordinariamente uniti dal sentimento vero dell’Amicizia.

 

Storie di amori sbagliati, persi e ritrovati. Storie di fragilità umane, di errori e rivincite, di glorie e decadenze, di geni artistici e talenti, di maturità e eterna fanciullezza. Storia di una amicizia sincera e autentica, di promesse giurate, di valori mai traditi.

 

“STANLIO & OLLIO” – Amici fino all’ultima risata, in scena al Teatro Vittoria fino al 5 Maggio, toglie la maschera ai due straordinari artisti e attraverso un sapiente apparato scenografico pensato da Alessandro Chiti, ci introduce senza soluzione di continuità, nelle abitazioni dei comici per spiare le rispettive turbolente atmosfere domestiche e le difficili dinamiche relazionali con mogli e amanti, dai litigi coniugali, alle separazioni, ai matrimoni, per poi farci piombare all’interno di un set cinematografico dove la coppia si appresta a girare una stravagante scena di un film e ancora portarci a riviere come se fossimo al cinema, alcune delle più esilaranti e famose gags comiche del duo, fino ad accompagnarli nella storica tournée teatrale britannica, occasione per una intima, pura, reciproca confessione dei personali sentimenti che consacrerà una forte, leale e indissolubile amicizia.

 

Nella vita uomini fragili e complessi, insicuri, ostinati e perseveranti, accomodanti e combattenti. In scena, maschere maldestre e infantili, distratte e fallibili, argute e geniali, sempre nei guai e nei pasticci anche nell’affrontare e risolvere situazioni semplicissime.

 

Braccio e mente, protagonista e spalla… nella vita come in scena, un continuo scambio di ruoli che confondono le personalità dei due colossi della comicità mondiale del cinema muto e sonoro, geni indiscussi della risata sana e contagiosa e di una comicità elegante, studiata e ragionata, fatta di gesti, espressioni mimiche e facciali, di sguardi buoni e ingenui, intelligenti e malinconici sempre puntati dritti in camera verso lo spettatore, di smorfie e sberleffi, di scambi assurdi di bombette e divertenti e pantomimici balletti.

 

Uno spettacolo da vedere e perché no rivedere anche più volte, per godere l’emozione di rivivere i miti artistici della nostra infanzia, far conoscere alle nuovissime generazioni una comicità di assoluto stile, ma anche per guarire con il potere terapeutico della risata la mente e il corpo.

 

Perché come già sosteneva Ippocrate, “Il buonumore equivale a un elisir di lunga vita”!

Cristina Ciferri

www.anpascuola.it

www.ateneodelgelatoitaliano.com




Sono afascista e me ne vanto!

Fascista a chi!?

Dopo aver  esaurito le manifestazioni di rito per celebrare il 25 Aprile ed aver risposto nelle cantine le bandierine, i vessilli, fazzoletti rossi e chi più né abbia, più ne metta; finalmente anche questa volta si gira pagina e si torna alla vita vera di tutti i giorni ,con le incombenze che  ahinoi, preoccupano gli italiani.

Però, rimane, come tutti gli anni, il solito amaro in bocca, per chi come me, non capisce, non tanto la parola “fascista”, studiata sui libri di scuola (scritti dai vincitori), ma quella “antifascista”.

Perché chi non si riconosce e non sente il legittimo bisogno di partecipare e festeggiare il 25 Aprile, debba essere tacciato di fascista tout court? 

Ecco, questo atteggiamento mentale è sicuramente fascista!

Soprattutto perché viene da quel mondo di sinistra che avrebbe dovuto, Costituzione alla mano, garantire tutti i cittadini, anche quelli che, non necessariamente si riconoscono e si riconoscevano, non negli ideali democratici, ma repubblicani.

Perché dover estromettere i monarchici o gli stessi anarchici, che comunque sono a tutti gli effetti cittadini italiani?

Il pensiero illuministico, che molti intellettuali di sinistra, hanno abbracciato e né sono fecondi dei principi rivoluzionari, non dovrebbe permettere di non essere d’accordo con quello che dici, ma dare la propria vita affinché si possa dissentire!

Frase falsamente attribuita a Voltaire, che però, sorprende nello scrivere il trattato sulla tolleranza del 1763.

Opera importante e cruciale che costituisce e approfondisce temi della ” intolleranza”, in una società avanzata fine settecentesca, che si accingeva a vivere quella sanguinosa rivoluzione francese.

Voltaire scrisse della intolleranza bigotta e fanatica ( quella clericale), ma che è sostituibile con un’altra altrettanto intolleranza bigotta laica e “rossa” :” Siamo tutti figli della fragilità e inclini all’errore, non resta quindi che perdonarci vicendevolmente la nostra follia. È questo il principio di tutti i diritti umani”.

Che cosa significa quindi, oggigiorno, essere fascista o in predicato/ aspirante ad esserlo o diventarlo?

Soprattutto per una generazione come la mia nata nel ‘ 68, dove si masticava nelle università o luoghi di legalità  e parlamentari, altre idee contrapposte, al punto tale che potevi incorrere in pesanti pestaggi anche se solo non ti mostravi accondiscendente al pensiero rosso dominante.

Scriveva Mino Maccari, amico di Flaiano a cui erroneamente  fu’ attribuito l’originalità della frase, che: “i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti.”

La stessa Oriana fallaci commentando questa esemplare frase, scrisse: “l’Italia ancora mussolinesca, dei fascisti neri e rossi che ti inducono ad adottare la tremenda battuta del Flaiano!”.

Giuseppe Berto, un altro  illustre, giornalista, scrittore  e drammaturgo, rimasto nell’ombra  per troppo tempo e, anche lui come Scurati, ma in tempi e temi diversi,  e con giurie ” diverse”, vincitore nel ’64 del premio Viareggio e Campiello  con il male oscuro; Lui disse: “io non sono fascista, ma non sono nemmeno antifascista. Sono venuto qui appunto per difendere il mio diritto di non esser perseguitato come fascista soltanto perché non voglio dichiararmi antifascista.

Dico di non essere né fascista né antifascista.

Allora, cosa sono?

Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa davanti.

Lo faccio non per lo snobismo d’introdurre una parola nuova, ma perché questa parola, afascista, secondo me esprime qualcosa di nuovo, e cioè un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo, il quale, almeno così come viene praticato dagli intellettuali italiani, è terribilmente vicino al fascismo.

Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido.

D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido.

Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido.

Di quest’ultima idea se ne è resa ben conto la maggioranza degli italiani per i quali i problemi sono altri: l’inflazione, la guerra alle porte, la crisi bancaria, il debito pubblico, lo statalismo soffocante e la burocrazia invasiva (i peggiori retaggi del fascismo che però nessuno nei fatti combatte).

Solo per citarne alcuni.

Non se ne sono accorti solo gli esponenti della sinistra che nascondono la mancanza di idee e programmi con l’ossessione verso un fascismo che non c’è.

E di contro non riescono neppure a condannare con altrettanta forza il comunismo che invece c’è ed opprime uomini e donne in varie parti del globo.

Non si dicono anticomunisti ma pretendono dagli altri che si definiscano antifascisti.

Quindi, al suffisso “anti”, preferirei, ove fosse possibile, l’alfa privativo che accontenta tutti, sia quelli che si credono ” i buoni” della storia e hanno la patente di democratico a tutti gli effetti, sia quelli che come me ,prendendo in prestito  una frase di una bella canzone  di un acerbo Guccini, non certo etichettabile a destra, in Dio è morto:

“Mi han detto
Che questa mia generazione ormai non crede
In ciò che spesso han mascherato con la fede
Nei miti eterni della patria e dell’eroe
Perché è venuto ormai il momento di negare
Tutto ciò che è falsità
Le fedi fatte di abitudini e paura
Una politica che è solo far carriera
Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto
L’ipocrisia di chi sta sempre
Con la ragione e mai col torto.”!

Ecco! Io mi sento di stare con chi a torto, e se c’è da mostrare il petto per qualche pallottola infame venite a prendermi.. sempre meglio che nascondersi da vigliacchi perbenisti dietro le quinte di un teatrino buono per le campagne elettorali di quel partito che non è un partito cosiddetto Democratico che, pur di raggranellare qualche voto, non sa più chi candidare, da il caporale nero Sumahoro ,alla picchiatrice seriale Ilaria Salis, dalla luciferina Elena Cecchettin e alla Bortone sempre brava  a usare arte televisiva “del parlare sopra o parlare addosso”!

Questi campioni di antifascismo fanno ben sperare, per non parlare di un Antonio Scurati che dopo quest’altra  finta protesta, né vedrà benefici sia elettorali che editoriali, con la saga della sua trilogia a Mussolini …

solo che, a sbarcare sul palco della festa del 1° maggio, non sarà un dark Fener vestito di nero, ma vestito di rosso, con buona pace di tutti; dagli sfaticati giovinastri contenti di Panem et circenses, dediti a bere e fumare cose imprecisate, agli intellettuali di sinistra che, ancora una volta, sanno che la sedia sotto il c…o, importante e pagata bene, non gliela leva nessuno.

 

 

Quando parlare di antifascismo è apologia di reato

Fascismo: fu vera gloria? ai posteri onesti l’ardua sentenza…

L’Italia e l’ultradestra