La tensione al miglioramento

Cosa hai fatto per diventare migliore? Post edificante e piccola indagine estiva

“Mia cara, ma tu chi frequenti per ora?”

Questa era la domanda (nella versione molto edulcorata) che mi faceva un tempo il mio amico quando veniva a cena a casa mia e io gli preparavo cibo che veniva sempre di colore nero.

Da quelle cene ad oggi sono passate diverse passeggiate al freddo in motorino, diversi chilometri, diverse città, tantissimi traslochi, missioni impossibili e competizioni, qualche articolo che raccontava di noi e pochi, pochissimi cambi di partner.

Possiamo proprio dire che da quelle cene ad oggi abbiamo messo la testa a posto.

Tanto che adesso la domanda è diventata:

“Mia cara, e tu cosa hai fatto in questi giorni per diventare migliore?”

Nel giro di poche settimane, dopo aver passato tanto tempo a riflettere e capire,

– Ho iniziato ad agire prima di pensare troppo.
– Mi sono stancata di avere paura e di essere diffidente.
– Ho deciso che sono più forte delle debolezze altrui e perfettamente in grado di affrontarle sempre e comunque
– Ho scelto di rispettare le scelte altrui e di appoggiarle, se per loro sono bellissime.

In poche parole, ho deciso di fare il salto in fretta e senza pensarci e di non avere più paura.


E così, di fronte questa domanda mi sono chiesta?
E le persone cosa fanno per diventare migliori?

Tu che fai per diventare migliore?

Il fatto è che in questo momento sono dell’idea (o nell’età, chissà?) che non ci sia più molto tempo per i cambiamenti graduali ma esiste l’urgenza di diventare migliori nel più breve tempo possibile.

Prendendo tutto quello che si è imparato nel corso della vita e portandolo a frutto subito.

Tu che fai per diventare migliore?

Non mi interessa farmi i fatti di chi vorrà rispondermi ma mi interessa capire se c’è in giro una spinta, una urgenza al miglioramento.

– Niente discorsi generici
– Niente deprecatio temporis acti (se non sai cos’è te lo cerchi e migliori te stesso)
– Niente vista sugli altri
– Niente progetti

Solo analisi semplice, diretta e onesta.




Sono tornati i Beatles, ma si chiamano Beatbox!

Milano, Teatro Nazionale, i Beatles sono tornati, si chiamano Beatbox.

Durante un’entusiasmante serata i Beatles sono tornati per raccontare a loro storia, tre ore di canzoni dagli esordi fino al triste momento della separazione.

Uno spettacolo emozionante che scorre sulle note delle canzoni che durante un decennio hanno emozionato milioni di persone.

Mauro Sposito, Riccardo Bagnoli, Federico Franchi, Filippo Caretti sono bravissimi, sia musicalmente che nel rappresentare l’essenza della band anche e sopratutto durante le loro performance.

Il teatro era tutto esaurito a dimostrazione non solo della bravura dei quattro ragazzi, ma anche del fascino che ancora i Beatles rappresentano per tutte le generazioni, un fascino indiscusso, eterno ed immortale.

Inutile ripercorrere i motivi che hanno reso i Beatles eterni, ma c’è qualcosa nel loro sound che colpisce il nostro dna musicale, una sorta di riconoscimento naturale delle armonie da loro create, una identificazione emotiva innata a cui pochi sono immuni.

Lo spettacolo dei Beatbox è proprio una prova del DNA che riconosce in chi vi partecipa la vicinanza genetica a quel codice musicale che ti fa scattare in piedi a cantare Love me do, o Help, senza nemmeno accorgersene.

Ottima l’ambientazione e la scenografia, i costumi e la maniacale ricerca del dettaglio, perfetta la scelta delle canzoni, anche se la mancanza di qualche classico è stata notata dal pubblico in uscita, ma la cosa veramente simpatica è stata la consapevolezza di tutti, terminato lo spettacolo, di aver visto i Beatles suonare.

Per me i Beatles hanno significato la musica dei miei anni “verdi” quando ancora il vento della vita ti fletteva ma non ti spezzava, quando ancora le tue forze ti convincevano di poter andare avanti senza paura e senza timori, la loro musica mi faceva vedere il futuro come un mondo che stava diventando migliore.

Oggi è rimasta la loro musica come il segno di una possibilità ancora da sfruttare, forse non più da me, ma di certo da quei giovani che ancora sentono il dna dei Beatles, voglia di cambiare in meglio senza paura, che ancora hanno il privilegio di credere di poter essere e fare la differenza.

I Beatbox mi hanno riportato il ricordo di una speranza che ha mosso la mia anima giovanile, mi hanno ricordato che guardando avanti, correndo per le strade della vita vedevo qualcuno fermo che mi incitava a proseguire, oggi quel qualcuno devo essere io, dobbiamo riprendere quella gioia di vivere e trasmetterla ai giovani di oggi affinché loro possano continuare a correre.

Grazie Ragazzi.

 




Il riflesso condizionato ai tempi di facebook

“Se mi ami, mettiti nudo”

Il riflesso condizionato ai tempi di facebook: siamo partiti dalla campanella di Pavlov e ora scriviamo Amen sotto ai post.

 

Non so se chi legge ricorda ancora quel vecchio slogan:

“se mi ami, mettiti nudo”.

Era la pubblicità di una marca di preservativi.

Al di là del prodotto reclamizzato, la frase imprimeva nella mente di chi ascoltava uno dei capi saldi della logica occidentale: il principio di causa ed effetto.

Se vuoi che una cosa avvenga, fanne un’altra in qualche modo ad essa collegata.

Erano gli anni ’80.

Non c’erano gli smartphone, non c’erano i social e i reality sembravano ancora una aberrazione della morbosità umana.

A guardarli così potrebbero sembrare anni innocenti dal punto di vista della manipolazione mediatica adesso così di moda e inflazionata.

In realtà, però, già gli inizi del ‘900 avevano dato lustro agli esperimenti di Ivan Petrovič Pavlov famoso per l’induzione del riflesso incondizionato sui suoi cani.

E Pavlov non era certo il solo.

Fate pure un giro su internet per vedere cosa combinavano John Watson, Stanley Milgram, Bibb Latané e John Darley, Harry Harlow o il più recente Philip Zimbardo…

Durante il ‘900 una delle grande domande di chi per dritto o per traverso studiava la mente umana, era perché le persone si comportassero in determinato modo e se fosse possibile riprogrammarle.

Che la risposta fosse è stato subito chiaro.

Le uniche variabili erano il tempo e l’etica.

Persino di strumenti ce n’erano a bizzeffe e, successivamente, lo svilupparsi e capillarizzarsi dei media ha dato una mano in più.

Di certo ci si ricorda degli studi e delle riflessioni sulla propaganda di regime.

In quegli anni, l’arrivo massiccio dei media aveva concentrato molto l’attenzione sui comportamenti umani, il modo di manipolarli e sulle tecniche di propaganda.

Il ‘900 è stato il secolo durante il quale l’uomo si è chiesto come dominare la mente degli uomini.

È stato il secolo durante il quale gli studi sulla mente umana sono nati e fioriti.

Nel ‘900 nasce la psicologia (per noi normalissima ma allora rivoluzionaria).

Più la comunicazione entrava nella vita quotidiana delle persone, più i comunicatori hanno sentito il bisogno di affermare il loro potere a proprio vantaggio.

La propaganda (diventato argomento delicato) si trasformava in pubblicità dicendoci cosa comprare e cosa desiderare.

Poi, col XXI secolo ecco la nuova sfida: insegnarci come pensare e – meglio ancora – insegnarci come reagire agli stimoli emotivi (come osserva spesso il filosofo Umberto Galimberti).

Siamo tutti sotto esperimento, a volte li facciamo noi, altre li subiamo.

Siamo tutti dei cagnolini di Pavlov che reagiscono sincronicamente al suono della campanella; oppure siamo Pavlov che misura l’aumento della salivazione della cavia dopo aver lanciato lo stimolo.

Affascinante a guardarlo da fuori, annichilente se si riuscisse a guardarlo dal di dentro.

E noi che possiamo fare?

Innanzitutto accorgercene è un gran passo avanti.

Questo ci permette di guardare le cose da un passo di distanza.


Fatto questo, prese il possibile le distanze, proviamo a recuperare la più antica delle domande filosofiche: “perché?” e assolviamola dalle paure da benpensanti ben educati ben adattati che negli anni ci hanno impedito di usarla.

Senza cadere nella trappola psicologica del complottismo, proviamo a guardare le cose chiedendoci: “perché?”

Perché penso questo?

Perché desidero quello?

Perché reagisco così?

Perché faccio cosà?
Perché…?

E non sarebbe male neppure condividere queste domande con qualcuno che vuole fare lo stesso esperimento.

Non so se ci si salva del tutto però in compenso di passa il tempo molto gradevolmente e si può anche stare lontani dagli stimoli induttori che, bisogna dirlo, sono naturalmente molto ben fatti.

La prima volta che abbiamo risposto a uno stimolo, è stato perché ci è sembrato molto utile e innocuo.

I social, sotto questo punto di vista, sono un interessantissimo campo di addestramento umano.

Chi sui propri profili social non ha mai fatto degli esperimenti per vedere cosa portava maggiore approvazione?
Chi non si è naturalmente adattato alle regole non scritte che portano ad attirare più “like” o cuoricini?

Fa parte del nostro essere animali social – i 

Proprio sui social ci sono decine di campanelli attivi che ci fanno piegare al volere del nostro Pavlov di turno, che non deve necessariamente essere il sistema, a volte basta anche liberarsi da quello che una sola persona vuole indurci a fare.

Non si chiamano più “campanelli”, si chiamano “call to action” “chiamate all’azione”; ed effettivamente il nome è onesto perché si capisce che, checché se ne dica, non si tratta dell’azione che vorremmo che il nostro interlocutore facesse spontaneamente ma è proprio l’azione che vorremmo che facesse quasi a qualunque costo.

Ovviamente alla call to action reale tipo “compra adesso (anche se non ti serve adesso)” ci si arriva perché ci si è prima allenati.

E come ci si allena?

Con le buone cause: il vantaggio comune.

Chi non ha mai visto (condividendoli o meno) post del tipo “preghiamo per questa povera anima, scrivi amen nei commenti”; oppure “questa cosa è vergognosa, condividila affinché tutti lo sappiano”.

Il passo sucessivo è il vantaggio personale:

Selezioni per fantomatici posti di lavoro (la leva più forte in questo periodo sociale):

“se vuoi essere selezionato fai la giravolta, la riverenza e la scappellenza e sbagli una sola cosa sei escluso”

“compila il seguente form: qualunque candidatura giunta diversamente non verrà tenuta in considerazione”

“se vuoi ottenere del materiale esclusivo scrivi SCEMOCHILEGGE nei commenti”

Abbiamo visto tante volte tutto questo in giro.

Abbiamo fatto anche noi azioni induttive di questo tipo.

Ed è normale.

Il terreno dei social è il campo nel quale siamo più disposti a seguire le indicazioni.

Ma adesso, provando a guardare tutto questo (che è normale, che fa parte della nostra quotidianità e che, comunque, non possiamo del tutto rinnegare), ci viene da pensare “ma PERCHÉ devo fare come dicono loro?
Perché devo abituarmi a parlare, scrivere, procedere come gli altri?

Perché non posso avere un tipo di comunicazione eterogenea e imprevedibile fatta da modi diversi di rapportarsi e reagire?”

Scegliere di uscire dai social per non essere manipolati è quasi come non uscire di casa per paura di essere investiti.

Non dobbiamo orientarci alla sospensione delle attività (a meno che non abbiamo animi da eremita) ma dobbiamo abituarci a chiederci cosa davvero vogliamo fare.

 

Crediti: ?

 

Link Esperimento di Pavlov sui cani: scheda

John Watson: scheda

Stanley Milgram: scheda

Bibb Latané: scheda

John Darley: scheda

Harry Harlow: scheda

Philip Zimbardo: scheda e ancora il mio articolo La bellezza salverà il mondo

 

 

 




La vita nascosta di Javert

Javert era un uomo di legge

Egli aveva fatto della sua vita un perfetto paradigma di correttezza e giustizia,

Sapeva che esiste il giusto e il disonesto, sapeva distinguerlo chiaramente e si era schierato dalla parte del giusto.

La gente onesta amava Javert: egli impediva infatti ai ladri di rubare, agli assassini di uccidere e ai dissidenti di schierarsi contro il giusto stato.

I delinquenti odiavano e temevano Javert.

Javert era un uomo di legge.

Conosceva la legge dell’uomo e la legge di dio, non aveva altro codice.

Javert per tutta la vita ha inseguito un nemico: Jean Valjean.

Un uomo che un giorno, per fame, aveva rubato una mela ed era finito ai bagni penali.

Jean Valjean fuggì e Javert iniziò il suo inseguimento per punire il male.

Jean Valjean era un uomo buono che per fame aveva rubato, per coraggio aveva ucciso per amore aveva disatteso una promessa.

Egli portava nel cuore il peso di tutti i suoi errori e aveva dedicato la vita a porre rimedio facendo del bene.

L’inseguimento di Javert a Jean Valjean è durato tutta una vita.

Una sera Javert e Jean Valjean si trovano uno di fronte all’altro, senza scampo per nessuno dei due.

Allora Javert guarda Jean Valjean e capisce il motivo per il quale ha inseguito quell’uomo per tutta la vita; capisce che c’è qualcosa che va oltre la giustizia, capisce che oltre al bianco e al nero esiste il grigio e ne è sconvolto.

Javert fa la cosa giusta: lascia andare Jean Valjean ma non riesce a sopportare di aver lasciato scappare il nemico di quello parte di lui che non può vivere senza regole scritte dagli altri.

Javert soffre perché deve decidere in pochi minuti della sua identità.

Deve decidere se è un uomo di legge o un uomo di sentimento; se è un uomo che sa o un uomo che sente.

Sente di aver fatto la cosa giusto ma sa di aver fatto la cosa sbagliata.

Capisce allora di non essere adatto a questo mondo e risponde per l’ultima volta alla sua logica sociale.

E così Javert, sovrastato dal disagio, non capendo più cosa è giusto e cosa è sbagliato, si uccide.

[I Meserabili -Victor Hugo]


Javert spaventa e commuove.

Noi sono Javert tutte le volte che cerchiamo di distinguere il bene dal male, il logico dall’illogico, che vogliamo metterci al riparo in una società in cui le regole sono scritte da altri.

Tutte le volte che falliamo trovandoci davanti a una realtà impossibile da schematizzare.

Noi siamo Javert e sappiamo che le persone migliori sono i Jean Valjean, quelli che vivono, sbagliano e danno un senso eterno alla loro vita.




Tipi da social

In Italia il 73% della popolazione è presente on line e il 57% è attiva sui social.

Negli ultimi anni 34 milioni di persone hanno registrato un profilo on line e hanno iniziato a somigliargli.

In principio, forse, pensavamo tutti di fare in modo che il profilo creato ci somigliasse: abbiamo inserito i nostri dati e le nostre foto; dapprima con grande discrezione, poi, piano piano, non abbiamo resistito alla seduzione della possibilità di riscatto e abbiamo iniziato a voler somigliare al personaggio caricato.

I profili hanno iniziato a diventare un Avatar o, meglio un Avatara.

Avatara in sanscrito vuol dire “manifestazione”, “discesa sulla terra della divinità”, una sorta di “epifania divina”.

E così sui social abbiamo iniziato a pensare di poter esporre la nostra manifestazione divina, la parte migliore di noi: quella più bella, grazie ai filtri delle foto, quella più intelligente, grazie alle citazioni copiate e incollate on line, più influenti grazie all’auto-celebrazione.

Ma la simbologia delle divinità è alta e raffinata e non sempre facile da incarnare.

L’avatar, l’immagine, la maschera…

“Datemi una maschera e vi dirò la verità” scriveva Oscar Wilde ma questo avviene nello stato embrionale della vita social: quando l’utente muove i suoi primi passi e vive ancora un momento di pudore della personalità, quando pubblica poco e non ama condividere troppe foto, quando ancora il simbolo può trovare spazio. 

Poi, piano piano, prende dimestichezza col mezzo e viene colto dal desiderio della esposizione divina ma, inesperto del raffinato mondo simbolico delle divinità antiche, viene fatto prigioniero da un annichilente, semplice e schematico mondo delle maschere fisse delle fabulae atellanae.

In poco tempo il mondo dei social viene popolato da novelli 

Dossennus il parassita gobbo e scaltro che si atteggia a sapiente.

Pappus il vecchio babbeo lussurioso, rimbambito e avaro.

Maccus quello che “fa il cretino” e mangia di continuo.

Buccus quello con la “bocca grossa”, che parla a vanvera.

Ovviamente i nomi sono cambiati e anche (poco) le caratteristiche.

L’atellana Social moderna è popolata da

Il Guru.
Il Guru ha conquistato una propria notorietà on line, ha un più o meno folto gruppo di accoliti che leggono tutto e si dividono tra quelli che prendono a cuore i loro “insegnamenti” o quelli che le rifiutano nettamente.

Queste due fazioni popolano poi i social combattendo le loro crociate l’una contro l’altra.
La caratteristica principale dei Guru è che non seguono mai i consigli che dispensano.

Ci troviamo così davanti a esperti consulenti aziendali che non hanno aziende, maestri di vita con esistenze a pezzi, esperti di indipendenza finanziaria con buchi di bilancio imbarazzanti.

Però, a loro discolpa, si può dire che sono lì per insegnare, mica per essere coerenti…

Batman: 

Se si legge il suo profilo, si nota che c’è sempre qualcuno con cui è arrabbiato: lettori silenti che lo spiano e tramano contro la sua felicità, nemici invisibili dai quali deve difendersi, terribili ingiustizie subite.

Batman però ha sempre un avvocato dalla parte del manico e lo sguaina al momento opportuno.

Nonostante le tante prove della vita, ha fiducia nel fatto che sconfiggerà tutti grazie alla sua forza e al suo coraggio.

Forza Batman fagliela pagare a tutti!

Grandi prove per grandi uomini!

La Vrenzola

Espressione dialettale napoletana diventata di nota grazie anche ai video dei the jackal (vedi crediti a fine articolo).

Le vrenzole usano le bacheche di facebook per dare risposte pubbliche sulla propria vita privata.

Seguire i discorsi delle vrenzole non è facile perché non sempre si sa contro chi l’abbiano, ma in genere basta guardare tra i commenti dove con discrezione futurista è spiegato dove andare a cercare l’altra voce di questo romanzo epistolare moderno.

La vrenzola si differenziano da Batman perché questo sente il peso dell’essere un super eroe e sa che il suo destino è quello di combattere contro tutti i cattivi aspettando di incontrarli una notte a Gotham, la Vrenzola va dalle galline e le prendere a borsettate.

Seguire le vrenzole è come fare la settimana enigmistica: tiene allenata la mente.

Il Cronista

Con lo zelo e la professionalità dell’inviato di guerra, il cronista ci informa di tutti i suoi spostamenti e delle sue azioni.

Potrebbe cominciare postando il risveglio, poi la colazione, i bambini a scuola, il lavoro, la spesa, il cane, il gatto, il topo e l’elefante…

Di lui sai sempre tutto: quali sono le sue passioni, quale principessa della Disney è, qual è il record a Candy Crush… il suo sogno segreto (che fa di tutto per rendere vero) è avere un reality sulla propria vita privata che si sforza di far apparire perfetta ma vera: ogni tanto anche il cronista ha un problema ma lo supera con filosofia e coraggio. 

In un mondo così falso e incerto, sapere che il cronista pubblicherà ogni mattina la foto del suo caffè, è una certezza da non sottovalutare.

 

Quello intelligente.

Tra le tante certezze di facebook c’è lui: quello intelligente.

Non importa se abbia studiato all’istituto professionale e poi si sia dedicato ad una vita da impiegato al catasto. Tutto questo tempo libero gli ha permesso di informarsi di tutto e di tutti.

L’opinionista sa sempre quello di cui si parla e di cui è importante parlare: dalla trasmissione sul canale privato ai raffinati affari di alta politica.

Se ci fosse lui al potere tutto avrebbe senso.

Se non ci fosse lui on line, non conosceremmo le tendenze di opinione.

Lui ha pensieri profondi, visioni acute e ha sempre ragione anche quando … anzi no, soprattutto quando ha torto.

Tutti vorremmo essere lui.

 

Ma queste sono tutte immagini, piccoli frammenti, deviazioni dell’intero.

Sono riproduzioni semplicistiche alle quali affidiamo noi stessi per piacere di più a chissà chi.

Chissà chi per davvero, perché, in effetti proprio, non si capisce a chi piacciano questi stracci di personalità.

Però sono facili da gestire e per questo ci seducono, perché sui social pare più facile avere una personalità riduttiva e schematica che non cercare confusi la propria identità che potrebbe essere così grande che, da vicino, non riusciamo a metterla a fuoco.

 

Crediti

Fonte dati: grafici

Vrenzole:

video the jackal you tube  

fonte immagine: facebook

 




La bellezza salverà il mondo

È importante circondarci di bellezza?

La bellezza di un ambiente, può migliorare l’indole di un individuo?

“La bellezza salverà il mondo” faceva dire Dostoevskij al principe Myškin dalle pagine de L’Idiota.

Per qualche minuto, poniamoci il problema sollevato da questa chiosa.

La bellezza influisce su di noi? E come?

La bellezza ci migliora?

Qual è il rapporto di causa ed effetto tra ambiente e socialità?

Alziamo la posta: 

nei quartieri degradati c’è la malavita perché i quartieri sono degradati o viceversa: la malavita esiste perché prospera nel degrado?

Questa è la provocazione sollevata dal prof. Alessandro Bianchi, Rettore dell’Università Telematica Pegaso, nella sua prolusione all’evento Ri-Genera Tour.

Ri-genera è un ciclo di appuntamenti di formazione itineranti coordinato dal prof. Bianchi e dal prof. Mauro Minelli, presidente del Corso di Studi in Scienze Motorie della stessa Università.

Il tema del ciclo è stato il rapporto tra ambiente e salute.

Un ambiente bello, curato, civile, nel senso etimologico del termine, ovvero adatto al civis, al cittadino, un ambiente così fatto, può influire sulla buona condotta e sulla buona salute dell’individuo?

La responsabilità dell’urbanista, di chi architetta la sinfonia del nucleo abitativo, è forse quello di impattare così profondamente sull’anima umana da indirizzarne l’indole?

La responsabilità del nutrizionista è quello di e proteggere l’organismo dall’impatto dell’ambiente esterno preparandolo al meglio?

Forse sì.

Se è facile pensare che un ambiente salubre facilita il nostro benessere fisico, pensare che un ambiente bello e armonioso possa aiutare il nostro benessere sociale richiede uno sforzo in più.

Ma non perché non sia giusto e logico, ma perché non siamo abituati a pensarlo.

La bellezza salverà il mondo?

Forse sì, o, comunque, può essere usato come strumento impattante.

Allontaniamoci per un attimo dai contenuti fedeli della lezione e facciamo una riflessione parallela.

Nel 1969 il professor Philip Zimbardo fece un esperimento che dimostra la viralità dell’atto vandalico.

Prese due auto identiche e ne posteggiò una nel Bronx, quartiere povero e periferico, un’altra nella ricca e tranquilla Palo Alto.

Nella prima parte dell’esperimento, accadde quello che tutti ci aspettiamo possa accadere: dopo una settimana, la macchina posteggiata nel Bronx venne smantellata e depredata di ogni pezzo; la macchina posteggiata a Palo Alto restò intonsa.

La seconda parte dell’esperimento, portò ad un interessante stadio successivo.

I ricercatori ruppero un vetro della macchina posteggiata a Palo Alto; in poco tempo la stessa auto fu oggetto di furti e vandalismo che ridussero la vettura come la gemella del Bronx.

Ecco quindi che si nota che quando ci troviamo davanti a qualcosa già manomessa o sgradevole, una parte di noi si ritiene giustificata a portare avanti il disordine.

Quando una strada è piena di cartacce, ci sentiamo più giustificati a buttare anche noi un rifiuto fuori dal cestino rispetto a quando ci troviamo su una strada pulita.

Quando visitiamo città ordinate e pulite, ci sentiamo in dovere di essere ordinati e puliti a nostra volta.

Com’è bello l’animo umano che si adatta all’ambiente circostante e come è potente la vocazione di chi vuole e può, col suo operato, migliorare gli animi.




30 pensieri offensivi per le donne

Ecco l’elenco delle cose che nella società in cui viviamo offendono l’esser donna.

Di seguito riportiamo un elenco in via di incremento che un campione di 250 donne intervistate hanno raccolto nel corso degli ultimi 3 mesi.

L’elenco qui riportato non è stato presentato in ordine di importanza ma in ordine di produzione.

Questo elenco sarà oggetto di approfondimento nel corso delle trasmissioni di Betapress.it a tutela del più debole.

 

Elenco

1) Il pensiero che si debba essere sempre l’amante di qualcuno per far strada;

2) Dover ascoltare e sopportare in silenzio battute allusive da parte di uomini in qualunque momento e in qualunque contesto;

3) Pensare che il proprio valore sia monetizzabile;

4) Non poter fare un figlio se non si ha un contratto a tempo indeterminato per paura di essere licenziate;

5) Aspettare di firmare un contratto a tempo indeterminato per far figli;

6) Compensare il proprio bisogno di affetto e approvazione con la svendita del proprio corpo;

7) Sentir dire come complimento “ragioni come un uomo”… come se, in certi casi, ci volesse tanto…

8) Percepire in un uomo la sincera invidia verso chi mercifica il corpo femminile;

9) Che la tv mostri la donna come un oggetto buona solo a ballare e dimenarsi;

10) Che l’immagine passata dai media sia quella di una donna uterina e dai nervi fragili;

11) Il fatto che ancora, si ritenga che una chiave di volta del marketing sia legata al sesso;

12) Che vengano sottovalutate dagli uomini la sindrome pre-; infra- e post- mestruale;

13) Non poter dichiarare la propria omosessualità senza che un uomo non esprima i propri sogni erotici;

14) Che si usi un nudo femminile anche per pubblicizzare una saponetta;

15) Che si usino  immagini femminili ammiccanti anche per pubblicizzare un formaggio;

16) Accettare e fare propri tabù sessuali legati al contesto familiare, religioso e culturale in cui si è cresciuti;

17) Sentir chiamare un uomo per nome cognome e titolo e la donna, di pari età, titolo e grado, “ragazza, signora. signorina” … quando va bene… quando va male:  per metonimia con una parte del proprio corpo o per similitudine con nomi di animali;

18) Gli uomini che devono a tutti costi mettere le mani addosso per toccare e palmare;

19) La violenza fisica e psicologica sulle donne;

20) La stupida competitività femminile;

21) Perdere la tenerezza umana per un modello di potere;

22) Fare del valore delle bellezza un valore esteriore, canonizzato e rigoroso piuttosto che una commistione di animo, modi e gesti;

23) Sentirsi nel torto quando si subiscono molestie e violenze;

24) Dovere apparire per poter essere;

25) Pensare di dover nascondere la propria intelligenza per poter trovare un uomo;

26) La frase “essere bella è un grande limite per la carriera”: chi dice così ritiene che la propria bellezza sia oltremodo superiore alla propria intelligenza;

27) L’idea che la sola priorità di tutte le donne debbano essere il matrimonio, i figli e il marito;

28) Quando ci si separa dal marito, pretendere gli alimenti anche se ci si potrebbe mantenere da sole;

29) Confondere la sensualità con la sessualità;

30) Pensare di dover essere simile ad un uomo per poter esser ritenuta uguale o migliore: non dobbiamo essere uguali ma complementari: ciò che una donna non fa, lo farà l’uomo e viceversa.

 




Dislessia: un modo diverso di vedere le cose…

In Italia nel 2017 se ne contavano quasi 2 milioni.

Per fortuna è un esercito numeroso perché non sarebbe stato facile combattere in pochi contro tanti preconcetti.

Sono i ribelli della scrittura, i sovversivi della sillabazione, i disobbedienti delle cifre, al secolo noti come ragazzi con caratteristiche di DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), sono i disgrafici, dislessici o discalculici.

Sono tanti ma rischiano di essere ancora di più i preconcetti sul loro conto:

  • Sono malati -> poverini
  • Sono dei geni -> sono incompresi
  • Sono pigri -> ci vogliono i ceffoni
  • Vanno aiutati -> poverini
  • Sono lenti -> poverini
  • Anche Einstein era dislessico -> sono tutti scienziati
  • Semplicemente non si impegnano abbastanza -> sono pigri
  • Adesso che esiste la malattia, sono tutti dislessici -> ci vogliono i ceffoni
  • Nelle prove orali sono più bravi che in quelle scritte -> poverini
  • Hanno la testa tra le nuvole -> sono pigri
  • Non potranno mai leggere -> poverini
  • Leggono ma non capiscono -> poverini
  • Confondono le lettere -> poverini
  • Confondono la destra con la sinistra -> poverini
  • Sono dislessici perché da bambini non giocavano abbastanza per terra -> colpa dei genitori

E avanti fino all’infinito.

A chiedere in giro a cosa viene da pensare quando si parla di dislessia, se ne sentono proprio di tutti i colori.

Quasi viene da pensare che questi ragazzi siano malati, eppure non ci sono i presupposti per definirli tali.

Questi piccoli eroi, ogni giorno, combattono delle guerre senza quartiere contro l’opinione comune e il diffuso “sotuttismo” (vogliamo togliere la possibilità di dire la propria anche a chi si occupa di tutt’altro?), contro madri ansiose, insegnanti superficiali, fratelli geniali, medici pressappochisti e scuole rigide.

Super eroi circondati da tante opinioni sulla dislessia ma poche su di loro.

Ovviamente quella che ho presentato non è l’unica realtà, ma è solo quella che mi disturba di più.

Di contro, naturalmente, esistono genitori pacificanti, insegnati competenti e professionali, fratelli che sono fratelli con i quali giocare e litigare e non poli di paragone, medici preparati e scuole all’avanguardia.

Esistono anche realtà di supporto molto belle ed è con una di queste che mi sono fermata a parlare.

Loro sono Alessandro Rocco, Paola Saba e Valentina Conte, sono i volti e le voci di W la Dislessia e io sono una fan del loro lavoro perché, a guardarli all’opera e a parlare con loro, sembrano felici e al posto giusto e queste, per me, sono qualità di valore.

Operano a Vicenza ma seguono ragazzi provenienti da tutta Italia.

All’interno della loro struttura, seguono ragazzi con riconosciuta dislessia insegnano loro tecniche di lettura e metodo di studio.

Secondo il loro metodo, non si parte dal problema ma dalle difficoltà dei ragazzi.

Se si va sul loro sito (il link tra i riferimenti) si legge che hanno seguito fino ad oggi 3756 ragazzi e formato attraverso i loro corsi 6034 genitori.

Mi spiegano Paola e Alessandro che il lavoro che fanno avviene su più livelli: si lavora coi ragazzi e coi genitori.

Spesso il primo incontro è con i genitori che li contattano perché sono preoccupanti per i loro figli ai quali o è stato diagnosticato una difficoltà di apprendimento; o accusano una difficoltà scolastica (spesso dovuta alla mancanza di un metodo di studi) più o meno circostanziale.

I ragazzi faranno una valutazione con Paola o Valentina mentre i genitori, che avranno portano tutte le documentazioni del caso, dovranno affrontare Alessandro che, di solito, un po’ li richiama all’ordine.

Spesso i genitori portano dai ragazzi di W la dislessia i propri figli per farli “curare” e alla fine può capitare che siano proprio i genitori i primi a dover cambiare certi atteggiamenti, abbattere certe ansie e farsi una sorta di esame di coscienza per le proprie pretese.

Non per cambiare la diagnosi specialistica ma per aiutare i propri figli a concentrarsi sui propri talenti.

Quello che cercano di fare i ragazzi di W la dislessia, è creare l’esigenza nelle persone di continuare ad avere voglia di imparare.

Per riassumere, i ragazzi, attraverso il gioco e la relazione (non facendo i compiti) valorizzano le loro doti compensando e mirando a colmare altre lacune; i genitori imparano a gestire la dislessia dei figli e, quando ci sono, la propria ansia o fragilità genitoriali.

W la dislessia entra anche nelle scuole grazie a giornate dedicate e a incontri specifici, un modo controintuitivo di affrontare delle realtà giovani (i DSA), numerosissime e che ancora   capita che non si sappia bene come prendere.

Ci auguriamo che venga un giorno in cui, come dicono Paola, Valentina e Alessandro, si decodifichi quella D dell’acronimo DSA non come Disturbi ma come Difficoltà perché “tuo figlio non è malato”.

Riferimenti

 

 

 

 

 

 

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? W la Dislessia – tuo figlio non è malato

W i Compiti – come dire definitivamente addio i pomeriggi di urla e litigi

 




Caro Ministro, ma mi faccia il piacere…

CARO MINISTRO TI SCRIVO…

Caro Ministro ti scrivo, così mi distraggo un po’ (dalle fatiche scolastiche di insegnare nella scuola italiana dei giorni nostri…) e siccome sei molto lontano (dalla realtà che vivono alunni e prof del 2018…) più forte ti scriverò.

Non voglio mancarti di rispetto, caro ex- collega, nel darti del tu. Ma, visto che mi vieni a dire quello che devo fare con i miei alunni, penso che siamo alla pari…

La tua ultima boutade ti ha fatto una gran bella pubblicità.

Finalmente, anche i miei alunni, delle medie, sanno che c’è un Ministro e checomanda lui! Al mio:” Ragazzi prendete il diario, che scriviamo i compiti perle vacanze”, mi sono sentita rispondere:” No, prof, non si può, l’ha detto il Ministro!”.Nella mia testa ho pensato:” Ecco, bravo, bene, ci mancavi pure tu a dirmi quello che devo fare, dopo 45 anni di scuola, di cui gli ultimi 30 come insegnante!”

Vedi, caro ministro, per chi come me, ha attraversato a passi di danza, riforme e controriforme, concorsi e graduatorie, esami di stato e certificati, conoscenze e competenze, la tua boutade, mi fa ridere (per non essere volgare!). Vorrei solo, anch’io, formularti un invito, anzi darti una prescrizione: vieni a fare un giro nelle scuole!

Le classi in cui insegno (in due scuole medie del Nord“benestante”) sono eterogenee (per usare un eufemismo…). Ci sono ragazzi italiani e ragazzi stranieri (maghrebini, africani, indiani, cinesi, pakistani e bengalesi…), ragazzi integrati ed altri isolati, alunni motivati ed altri border line, scolarizzati ed analfabeti, che non capiscono una parola, giuro,una parola, di italiano.

Primo suggerimento: “Ha mai pensato di dotare le scuole di mediatori culturali per alunni stranieri? Oppure di sperimentare delle classi-ponte per la prima alfabetizzazione di chi, per età anagrafica, è alunno delle medie, ma che non legge né scrive, al pari di un bambino di prima elementare?!?”

Poi, ci sono alunni certificati di dislessìa, disgrafìa, discalculìa…Un boom! Tutti adesso! Ed allora, come insegnante, predisponi un bel P.D.P. (ovvero Piano Didattico Personalizzato con strumenti compensativi e dispensativi per aiutarli nella loro fatica scolastica). Anche quelli che scrivono sotto dettatura, fanno un dettato fonetico ortografico meglio dei compagni, copiano dalla lavagna e leggono ad alta voce. E, alla faccia di chi ha li ha certificati, non sbaglino una doppia e non confondono nemmeno una lettera!

Allora, secondo suggerimento.” Ha mai pensato di controllare il bussiness delle certificazioni false? Di controllare cosa succede quando medici compiacenti incontrano famiglie pretenziose? I medici si garantiscono l’utenza di alunni normo dotati, certificando, in modo assurdo, le loro inesistenti disabilità. E le famiglie hanno il nullaosta per la promozione dei loro figli.”

Poi, però, in sede d’esame, questi alunni, abituati a delle corsie preferenziali, devono affrontare le stesse prove dei compagni. Ed allora, tocca a noi insegnanti, fare i salti mortali per promuoverli!!!

Ma ci sono anche gli alunni disabili, e, giustamente, per loro c’è un P.E.I (Piano Educativo Integrato) per assicurare una didattica inclusiva. Ma, purtroppo, questi alunni, non sempre hanno un insegnante di sostegno preparato a gestire la loro disabilità. C’è una bella differenza tra un alunno autistico, paraplegico, psicotico o down… Per non dimenticare chi, comeprof, dopo un eterno precariato, ha finito col fare l’insegnante di sostegnoper ripiego, pur di entrare in ruolo. Oppure, prof perdenti-posto percontrazione delle cattedre, che, dopo aver insegnato per anni la propriamateria, hanno ripiegato sul sostegno pur di non perdere il posto vicino a casa…

Terzo suggerimento” Un rinnovato criterio di formazione degli insegnanti di sostegno, in modo tale che, preparati in modo specifico su diverse disabilità possano essere abbinati agli alunni giusti? E soprattutto,un controllo delle loro competenze in itinere, per farne delle figure doc della scuola e non degli insegnanti jolly!”.

 Ma questo è il meno…

 I veri problemi nelle scuole dei nostri giorni, sono i ragazzi delle comunità, quelli che sono stati allontanati dalla famiglia o che non ne hanno mai avuta una, quelli che viaggiano per la scuola con educatore o assistente sociale al seguito, e che sono in mano a giudici e psicologi a giorni alterni… Quelli che pestano i compagni e minacciano gli insegnanti. Rispondono all’appello con un rutto,girano per la classe con un coltello, fanno casino, pur di essere amati…

Quarto suggerimento” Qualche neuropsichiatra che ci dia una mano a gestirli senza imbottirli di psicofarmaci o senza dover ricorrere ai Carabinieri, esiste ancora sulla faccia della terra?!?

Poi, ci sono gli alunni doc, quelli normali. Quelli da non strapazzare con troppi compiti a casa. Quelli che durante le vacanze, senza l’obbligo dei compiti, faranno sport o visiteranno musei…Scommetto che l’unica attività svolta dalla maggior parte di loro, sarà giocare con il tablet o alla play station nel salotto di casa…

Ma, dimenticavo, anche questa è attività fisica:
oculo-manuale!!!

Quelli che hanno genitori immaturi e latitanti. Genitori che rispondono al cellulare durante il colloquio con l’insegnante, genitori che contestano i voti, che mettono in discussione la preparazione degli insegnanti, e che parcheggiano il suv sul parcheggio dei disabili. Genitori-adolescenti, più esibizionisti dei loro figli, che fanno a gara a postare foto sui social e ad insultare i prof su whatapps. Bene questi genitori, durante le vacanze giocheranno alla play, posteranno ogni scemenza e brinderanno all’ignoranza.

 Allora, giusto perché io non ci sto, io i compiti li do. E sono convinta che molti altri miei colleghi faranno come me…

Invito i miei alunni a spegnere il cellulare per accendere il cervello.

A leggere un libro, uno qualunque, ma almeno uno.

Ad intervistare un nonno, forse più saggio di quel loro idolo rap…

Ad imparare una parola nuova, un suo sinonimo ed il suo contrario, tre volte al giorno, prima dei pasti principali.

A scrivere una lettera a mano e ad imparare una poesia a memoria.

A pensare un regalo creativo. Un disegno, una canzone, un oggetto ideato apposta per chi lo riceverà.

A fare un giro in un ricovero per anziani, per misurare il tempo della vita non sul suono della campanella…

E, per i più coraggiosi, a parlare a gesti con l’ultimo arrivato, quello immigrato. Quello che nessuno vuole, ma che è qui, in Italia con me, in queste vacanze senza compiti…

Sarò una povera illusa, ma penso che la scuola sia ancora una palestra di vita. E che dunque, i compiti sono un’educazione al sacrificio,un allenamento alla fatica, un rispetto delle consegne, un’assunzione di responsabilità, una sana abitudine che fa la differenza. Perché, poi, la vita ci presenta il conto, e, forse i compiti, quelli di scuola, avevano un loro perché!

Antonella Ferrari



Il nuovo ruolo della truffa per cuori solitari le app di incontri.

Siamo ormai nel 2018 ma il mondo dei single è ancora inquieto.

Sei solo, vuoi trovare la tua  o il tuo compagno di vita?

Usa questa chat, vedrai cosa troverai …

La redazione di Betapress ha deciso di fare un piccolo viaggio all’interno del mondo delle app per single e vi posso dire che abbiamo trovato veramente il regno della truffa.

Abbiamo sperimentato molte app per single e quello che abbiamo trovato è solo truffa, truffa, truffa.

Per aiutarci in questa ricerca ci hanno aiutato Giovanni Aietta e Federica Bonini, i due nostri infiltrati speciali che si sono iscritti a tutte queste presunte app di incontri.

 

Come primo dato vi diciamo che abbiamo sperimentato 23 chat o app di incontri in circa 4 mesi ed il solo risultato che possiamo confermare è di aver speso per entrambi oltre 200 euro.

risultati validi nessuno.

 Ecco un piccolo schema:

contatti ricevuti giovanni 1486 federica 8900.

contatti falsi giovanni 1486 federica 2000.

In pratica il povero Giovanni è stato continuamente tempestato da bot di intelligenza artificiale che hanno solo prosciugato il suo conto continuando a tirarlo in conversazioni inutili, non fornendo mai contatti esterni alla app in cui giovanni era iscritto.

Per Federica sorte leggermente migliore perché qualche contatto era reale, ma poi rivelatosi pericolosamente insano di mente o dedito esclusivamente alla ricerca di sesso.

Alla fine i due nostri amici in realtà altro non erano che la nostra redazione che ha cercato di capirci qualcosa, due contatti falsi dietro i quali c’eravamo noi di betapress.

Non si preoccupino tutti gli sposati che hanno contattato Federica, ci faremo i fatti nostri e non divulgheremo l’elenco di tutti quelli che poi dalle nostre ricerche (quasi tutti) sono risultati sposati, ma pure incapaci di usare identità mascherate visto che poi da una banale ricerca sul web li abbiamo trovati quasi tutti.

Unica cosa che ci sentiamo di dire agli amici che cercano l’anima gemella: risparmiate i soldi, non usate nessun programma di incontri, sono truffe ben organizzate.

Se poi continuerete a farlo vuol dire che avete soldi da buttare.

Agli sposati che si mettono in mano a queste chat non abbiamo consigli da dare se non quello di fare attenzione perché dietro a queste chat spesso ci sono anche dei ricattatori.

A tutti comunque una considerazione: in questa società odierna il vuoto delle nostre anime sembra essere veramente insopportabile.

 

 

 

Le Chat: estensioni della fuga dal matrimonio…

 

Il mondo delle chat come espressione di vero dramma della solitudine