Rincorrere sé stessi

La professoressa di Italiano ci aveva insegnato a cercare in ogni cosa, in ogni argomento, in ogni analisi, tre cose positive e tre cose negative.

È un grande esercizio di imparzialità, soprattutto se inizi a farlo da adolescente.

Sempre da adolescente ho deciso lucidamente che sarei stata felice e da allora mi sono impegnata sistematicamente a vedere il buono anche dove non c’era.

Ne sono soddisfatta.

La crescita però è fatta di tante fasi e sono sempre più raffinate.

Ad un certo punto bisogna essere pronti a chiudere la fase dell’”abbraccio incondizionato” e ad iniziare la fase del dissenso.

Capire quando esercitare questo diritto è facile: ci si basa sull’esperienza diretta e sull’ascolto.

Quando scegli di trovare sempre il buono e di farti piacere le situazioni a tutti i costi, rischi di trovarti anche in situazioni sbagliate che vanno contro il tuo essere.

Ed è giusto va fatto.

E poi bisogna smettere.

A lungo andare, inizi a sentire una crepa dentro di te e questa crepa mina l’integrità il tuo IO che piano piano minaccia di crollare.

Se nel corso della vita ti sei anche impegnato ad essere la persona che volevi essere, la tua concentrazione è su di te e le bricioline poi diventano una “spina nel fianco” che non ti fanno dormire la notte e così capisci che devi uscire da quella situazione e abbandoni relazioni, incarichi e luoghi.

Va bene, è come deve essere,

si tratta dell’unico modo per costruire esperienze.

Bisogna però fare attenzione a non crollare prima di andare via perché in quel caso, si resterà corrotti.

Sulla base dell’ascolto di noi e delle esperienze raccolte, ad un certo punto della nostra vita, è importante iniziare a dire “no a priori”, perché ormai sappiamo cosa ci piace e cosa no e cosa ci fa bene e cosa no.

Così io da oggi divento un po’ più intollerante.

Dico no alle forme urlate, ai camuffamenti, alle bugie, alle furbizie, alle scorciatoie, alle aggressioni, ai pettegolezzi, alle parole non mantenute, alle licenze poetiche, alle paure e alle minacce, a ciò che mi è scomodo, lontano e opposto.

Non vuol dire che siano in assoluto sbagliate, ma che non mi piacciono e quindi non mi ci avvicinerò facilmente e non mi farò avvicinare.

Senza giudizi universali, solo personali.

Da oggi mi avvicino più velocemente a me e metto da parte le esperienze già fatte.

Vi auguro, come capita a me, di avere tante persone che vi vogliano bene, che la pensino in modo diverso da voi ma che rispettino sempre la vostra opinione pur non abbandonando la propria.




UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 

Marghera (Venezia), mercoledì 31 luglio 2019 ore 18.30, Skardy mi indica il Bar accanto al palazzo del Municipio.

Ci sediamo in un tavolino nel dehor… “un the caldo, grassie” ordina alla cameriera.

Inizia così la lunga intervista con una delle leggende della musica italiana, anzi, venessiana.

L’ultima volta che ebbi la fortuna di bere un drink con Skardy era il lontano 1994 quando io, giovane universitario, mi dilettavo nell’organizzazione di concerti e di eventi live.

All’epoca la musica era veramente “da piazza” e quell’estate ricordo che Prato della Valle a Padova era gremita di persone.

Il lettore perdoni frasi e battute in dialetto veneto che indicano la genuinità di Skardy e che permettono una comunicazione più diretta.

PERTH: Ti ho richiesto questa intervista perché innanzitutto è un onore poterti rivedere dopo più di vent’anni e soprattutto perché, come pochi altri artisti, ti ritengo, un vero e proprio punto di riferimento nella scena musicale italiana, mi riferisco alla vera arte e libera creatività, oggi invece è come se la gente fosse drogata dalla falsità di proposte musicali costruite a tavolino, una grande mercificazione di talenti usa e getta. Puoi dire ai lettori di Betapress.it cosa ne pensi?

SKARDY: Fondamentalmente credo che il mondo dell’arte e dello spettacolo sia gestito in modo ignobile, la musica è degradata da una certa politica non solo a livello locale ma “dirìa a livèo mondial”, e non conoscendola fino in fondo l’arte, il potere riduce tutto a “fumo, lustrisini, pajette ma poca sostansa”, ecco, questo è quello che penso.

PERTH: Il Veneto è una Regione magnifica, ma a volte l’opinione pubblica, fomentata da una certa politica, mostra il popolo veneto come persone legate al denaro e ai propri interessi da difendere con la spada. Come la musica che tu hai proposto in tutta la tua carriera ha mostrato invece il vero spirito veneto?

SKARDY: Il genere umano sta dimenticando la propria umanità per correre dietro al mito della ricchezza e del lusso, perché di questo si tratta, non si tratta del benessere! Il Veneto, come l’Italia, è un Paese che ha conosciuto il benessere e l’ha gettato via nella speranza di ottenere qualcosa in più. Cosa si è ottenuto distruggendo un intero sistema sociale che, pur con tutti i suoi peccati e limiti era alla base dell’armonia tra le persone? Si è ottenuto un cambio di potere, si è insediato un sistema cannibale sia dal punto di vista economico che sociale: le categorie dei più ricchi si mangiano quelle dei più poveri e di conseguenza abbiamo un mondo che, anche senza essere in guerra fisica, però è in una sorta di guerra tra individui e tra popolazioni. Prova a pensare all’ostilità che c’è adesso non solo tra le Regioni del nostro Paese ma nei confronti di popolazioni di altre etnie, trent’anni fa questo discorso non stava in piedi, anzi chi veniva da altre parti del mondo veniva considerato come un’opportunità e una ricchezza da cui trarre vantaggio. La mia musica, declinata in dialetto veneto, ha sempre tentato di comunicare con ironia questa denuncia contro la diseguaglianza sociale. Sicuramente lo spirito veneziano mi è rimasto e cerco ancora di trasmetterlo perché vedo che sta perdendosi nella storia, quando io giro per Venezia sento la gente che non è più la stessa gente che io ho conosciuto quando ero ragazzino o bambino addirittura. Il veneziano che conoscevo io era un veneziano che nell’esprimersi era una barzelletta, era una persona che trasmetteva talmente tanti modi di dire e talmente tanto umorismo che ti segnava. Al giorno d’oggi la gente parla in maniera quasi “da ufficio”, le barzellette da bar sono morte da 20 anni, vuol dire che lo spirito umano, originario, non solo quello veneziano, ma proprio lo spirito umano ha avuto dei danni, come ha avuto dei danni questo pianeta per opera dell’uomo e l’opera dell’uomo ha prodotto dei danni anche all’uomo stesso.

PERTH: Incontri molti giovani, sia al lavoro (Skardy lavora come “bideo” in una scuola di Venezia; n.d.a.) che ai tuoi concerti, cosa chiedono alla musica i giovani? Solo divertirsi oppure c’è dell’altro, secondo te?

SKARDY: Il mondo dei giovani è molto variegato, ci sono figli di generazioni che hanno avuto educazioni musicali diverse, i figli dei rockettari hanno ancora una certa predisposizione ad ascoltare la musica prodotta da musicisti e strumenti “manuali”, chi è cresciuto senza una cultura musicale, una cultura alla “bellezza artistica”, con genitori interessati a discoteche o ambienti in cui la musica elettronica, ha sostituito il vero sound, è più ricettivo ai suoni sintetici e quindi a quella musica che io chiamo “musica chimica”, prodotta dal computer. La maggior parte dei ragazzi di oggi ascolta ed è più attratta dalla musica chimica che dalla musica suonata, questo è grave perché, per quanto sia prodotta bene e per quanto ci voglia bravura a produrla, la musica cosiddetta “chimica” non avrà mai lo stesso effetto di uno strumento naturale. (Rimango sempre impressionato da questo refrain che peraltro i lettori di Music conoscono molto bene. Tutti gli artisti veri e Skardy è uno di questi, hanno a cuore la musica vera, non il prodotto di un potere che annulla le coscienze propinando una musica “usa e getta”, una musica “chimica”; n.d.a.)

PERTH: La “musica chimica”, come la definisci tu, può essere definita arte?

SKARDY: Per quanto sia perfetta la musica chimica trasmetterà sempre freddo, non come la musica suonata, la musica che ha bisogno di musicisti capaci! Io cerco sempre di fare quest esempio: sappiamo tutti quanto è buona la pizza cotta nel forno a legna, se tu mangi la pizza preconfezionata è ugualmente buona, ma non come la pizza cotta nel forno a legna. E quindi la musica elettronica la musica “chimica” sta alla pizza surgelata, come la musica suonata sta alla pizza originale. Faccio un esempio sconcio: “el vibrator xè sempre duro, ma il casso xè de carne” (Qualche amico veneto direbbe: “pura poesia”; n.d.a.). Nel senso che la musica elettronica “gà el so spessor ma no gà el caòr che gà ea musica sonada”. Al giorno d’oggi ben pochi ragazzini recepiscono questa differenza, forse se ne renderanno conto quando avranno 40 anni e capiranno cosa può essere definita arte. Io verso i 40/50 anni ho iniziato a recepire questa differenza, molto pesante, tra la musica costruita negli ultimi vent’anni e quella che c‘era prima, che magari suonava peggio ma dava più calore. Una sera ero in auto di ritorno da un concerto con Elio, ascoltavo la radio e sento un brano di un trapper di oggi e mi dicevo: non mi piace ma senti che potenza di suono, cambia il brano e parte “Smells Like Teen Spirit” de Nirvana, che nemmeno mi piacciono tanto, eppure ho sentito subito che il sangue ribolliva… ho ripensato ancora una volta all’importanza della musica suonata.

PERTH: La tua storia artistica è molto lunga e piena zeppa di collaborazioni importanti con cui hai condiviso la tua musica “made in veneto”, ci racconti qualche aneddoto? Non so Elio e le Storie Tese, piuttosto che Paolo Belli

SKARDY: Con Elio e le Storie Tese ho fatto le ultime (e definitive, due anni fa; n.d.a.) quattro date. Penso che con la fine del loro gruppo sia finito l’ultimo dei veri grandi gruppi italiani, dei veri e propri “maestri”. Se li guardi tutti, uno per uno, sono grandissimi musicisti, gli ultimi, mi vien da dire, perché se si pensa ai musicisti di adesso per prima cosa non militano in band poi sono tutti cantanti con il DJ che sintetizza e masterizza dietro alla voce ed infine ci sono i musicisti che fanno i turnisti e che suonano di tutto e con tutti. E’ un disastro. Dal Rock &Roll agli anni ’90 c’è stato fermento, oggi la musica è un disastro. Elio inoltre ci ha insegnato soprattutto come si realizzano i dischi e come ci si rapporta con il mondo discografico, anche se gli aneddoti più curiosi risalgono ai tempi in cui i Pitura Freska neanche esistevano, perché andavo a “imbragarme zente che jera parechio in alto” nel senso ad esempio che siamo andati a battere sulla macchina di Jimmy Cliff (famoso cantante reggae giamaicano; n.d.a): c’era Jimmy seduto in auto che si allenava con i bonghi e noi siamo andati lì a battergli sulla macchina, a suonare con lui…a rompere i coglioni alla gente famosa. Inoltre mi piace ricordare personaggi che avevano una certa autorevolezza artistica e che per primi ci dicevano “guarda che quello che state facendo è bello, ha un valore!” Mentre il resto della “plebaglia” disprezzava quello che facevamo, c’erano persone tra cui pittori, scrittori, anche docenti universitari, professionisti del mondo dello spettacolo che ci dicevano: “Beo! Bravi! Continué!” anche se il resto del mondo, soprattutto la critica musicale, ci considerava sotto il livello… animale. Questa è una questione importante: quando cerchi di portare un gruppo o un cantante alla ribalta la prima cosa che ti arriva sono le bastonate, nessuno viene a domandarti: “Cossa ti xè drio fàr, fame scoltàr”, no, invece ti dice “sta roba ea fa schifo!” La gente all’inizio non accetta la novità.

PERTH: Però avete avuto parecchio successo!

SKARDY: Certo! Ma ce lo siamo conquistato sulla strada, non facendoci aiutare dalle Major o da grandi produttori, siamo stati attaccati anche dalla parte più povera della popolazione, che ci dava dei “venduti” pensando che fossimo oramai in mano alla discografia che conta. Invece no, siamo sempre rimasti indipendenti e siamo andati avanti per la nostra strada.

PERTH: Quale è stato il momento esatto in cui ti è stato chiaro che da Marghera avresti potuto calcare i palchi di tutta l’Italia?

SKARDY: A San Siro quando ho visto Bob Marley (the King of Reggae; n.d.a.), quando mi è venuta in mente questa equazione, che è stata semplicissima, fulminea e geniale. Mi ricordavo un po’ l’inglese, avendolo studiato alle scuole medie, avevo 20 anni, ero a San Siro a vedere un concerto di Bob Marley, quando mi sono reso conto che parlavano l’inglese allo stesso modo in cui noi veneziani parliamo italiano, ho pensato: questo genere musicale è perfetto se ci canto sopra in veneziano e lì è iniziato tutto. Chiaro che mi ci è voluto del tempo per imparare a scrivere, per modulare i testi a seconda della musica, però se ti piace ti viene automatico e quando sono riuscito a scrivere due, tre canzoni e le ho fatto ascoltare ad alcuni amici con cui suonavamo assieme, mi hanno detto “però… potrebbe funzionare!” Avevamo una sala in cui provavamo, con il bassista abbiamo iniziato a istruire un gruppetto, siamo riusciti ad esordire qui davanti in questa piazza (Piazza del Municipio di Marghera; n.d.a.) nella rassegna “Marghera estate” del 1985. E da lì è iniziato tutto, perché quando hanno visto che nelle piazze attiravamo un buon numero di ascoltatori, iniziavano a chiamarci in tutti i locali e dove andavamo facevamo il “pienone”. Nel 1987 siamo tornati qui in piazza a Marghera i bar quella sera hanno esaurito tutte le riserve alcoliche (ride).

PERTH: A Padova nel ’94 avete fatto 20.000 persone, ricordo che c’era il Comune molto preoccupato per la sicurezza. Mi hai già risposto per la gran parte, comunque cos’è la via di San siro nella quale sei stato illuminato un po’ come Joliet Jake Blues, alias John Belushi, nel glorioso film Blues Brothers? Forse quando ti sei imbattuto con il Re del Reggae?

SKARDY: Sì infatti, io avevo già preso una bella “spettenada” l’anno prima quando mi hanno invitato a vedere Peter Tosh (altra leggenda del Reggae giamaicano; n.d.a.) che non conoscevo. All’epoca il reggae non mi piaceva, ascoltavo Led Zeppelin, Deep Purple, Santana, Pink Floyd. Alcuni amici mi convinsero ad andare al concerto di Marley a Bologna, era il 1979. La Band si è presentata sul palco con 15 elementi, una mini orchestra. Mi è piaciuto! Era un misto tra un concerto di Santana, un concerto di Funky, un concerto di Rock, non capivo bene cosa fosse, però mi piaceva. La Band “pestava”, aveva un groove pazzesco, tremendo. Sono uscito contento e mi sono ricreduto sul Reggae, suonato così mi piaceva molto. Stessa cosa per il concerto di Bob Marley! Prima del concerto si esibirono dei gruppi che non ebbero grande successo (si beccarono “ortaggi” in faccia), la terza band fu quella di un tale di nome…Pino Daniele! Anche lui prese solamente qualche applauso ma quando uscì Bob Marley esplose lo stadio. Cos’è che mi ha fatto andare fuori di testa? Che rispetto ad altri concerti a cui ero stato qui la gente non era seduta al suo posto in posizione yoga a guardare un palco, qui la gente ballava, saltava, si muoveva, è diverso, capisci? Se io sono seduto qui e vedo a 20/30 metri una “fìa che me piase” difficilmente mi alzo e vado a sedermi vicino a lei, ma se sono in piedi e sto ballando, posso avvicinarmi e con una scusa fare conoscenza. Finito questo concerto uno di noi disse: “Fioi doman ghe xè i Led Zeppelin a Zurigo, nemo?!” Sono andato e tornando dal concerto dei Led Zeppelin ho pensato che se dovevo scegliere avrei scelto Bob Marley… notare che i Led Zeppelin mi piacevano molto!

PERTH: Volevo farti una domanda relativa ai Pitura Freska, da quello che so tu non hai mai avuto piacere di dire perché è finita, tranne quello che scrivi nel sito e nei vari blog, la verità è che era finita un’epoca con loro?

SKARDY: La realtà è che il gruppo aveva iniziato in una direzione e poi è stato portato in un’altra, perché essendo tanti musicisti, ognuno voleva dare al progetto una propria direzione, qual è il segreto, secondo me? Quando hai preso una direzione e sei su una linea, devi continuare a seguirla, perché i Rolling Stones sono ancora vivi? Perché a loro piace quel genere e continuano a proporlo.

PERTH: Grande Bidello a mio avviso è un vero capolavoro. Un’opera che, con la consueta ironia che ti contraddistingue annienta i reality, vedi Grande Fratello, farai un pezzo anche contro i Talent?

SKARDY: Ma non ci penso proprio, ormai considero la televisione come la preistoria dell’intelligenza umana. Quando accendo la televisione e vedo che vengono trasmessi film degli anni ’40 e ’50, mi sembra di tornare a quando ero piccolo negli anni ’60 e probabilmente la gente era più intelligente di adesso, di conseguenza non posso parlare male di una cosa che ormai per me è il male già in partenza, c’è ben poco che salvo della televisione. Una volta guardavo “BLOB”, ora nemmeno quello, perché una volta facevano vedere il meglio e il peggio, ora vedi solo il peggio e mi fa paura. Il meglio è nascosto.  Inoltre credo che non serva, perché ormai la gente è orientata a questa insulsa mentalità e se io vado a toccare questi idoli vuoti, sono un alieno.

PERTH: Nella canzone Firulì Firulà dici di sentirti di un altro pianeta, intendi questo essere un alieno?

SKARDY: Ritorno a quello che ho detto all’inizio, non trovo più l’umanità che trovavo 30/40 anni fa, perché ormai non contano più né le parole, né quello che trasmetti come persona, ma contano i like sul telefono, contano i social, internet e tutto il resto e di conseguenza uno si sente già estromesso dal mondo se non vive dentro questo schema, se ti faccio vedere il mio telefono costa 20 euro, è mezzo rotto e non me ne frega niente di social ecc…, ovviamente essendo artista ho chi lavora per me e li segue, perché devo essere presente altrimenti iniziano a pensare che io sia morto, ma queste cose non sono la mia priorità. Ritengo che internet non venga usato nella maniera corretta secondo lo scopo per cui era stato pensato, un po’ come per tutte le scoperte o le correnti filosofiche o di pensiero, nascono per un intento e poi ne viene modificato lo scopo, Cristo ha dato vita al Cristianesimo e poi ne hanno fatto un’arma di guerra, Marx ha pensato il comunismo e poi hanno dato vita invece a uno stato militare. E’ sempre così.. si parte da uno scopo buono, poi la corruzione dell’uomo distrugge tutto.

PERTH: so che stai pensando ad un nuovo disco e spero di poterlo recensire quanto prima ma parlando di uno dei tuoi ultimi lavori è stata la rivisitazione in chiave Raggae del famoso brano “Centro di Gravità Permanente” di Franco Battiato. Qual è per Skardy il “Centro di Gravità Permanente” che gli permette di stare di fronte alle situazioni che vediamo tutti i giorni e di cui hai appena accennato?

SKARDY: Speremo de inissiar el novo disco”… dovrebbero iniziare le registrazioni dopo l’estate. Per quanto riguarda il “Centro di Gravità Permanente”, è un bel problema perché mi sembra di essere diviso continuamente in due pianeti: c’è il pianeta in cui stai bene, fai quel che ti piace e il pianeta in cui sei costretto a fare cose che non vorresti fare; io ho 60 anni e sono ancora costretto a lavorare! A 60 anni hai oramai dato tutto quel che potevi! Questo è il pianeta che non mi piace. Qual è il mio pianeta, il mio “Centro di Gravità Permanente”? Stare a casa mia, ascoltare la mia musica, andare in giro a suonare, cucinare, mi piace cucinare e avendo la moglie straniera ho dovuto imparare se volevo mangiare come dalla mamma (ride).

PERTH: Rifarai “Menarosto” la rubrica di cucina?

SKARDY: No, preferisco dedicarmi alla musica, stimolare la gente ad avere ancora interesse per la musica “suonata”, perché ritengo che la musica faccia bene, sia salutare, anche se si dice che non dia beneficio immediato, io credo che permetta un beneficio psichico e credo che il motivo per cui la gente peggiora nei rapporti, nella vita, sia che manca il beneficio psichico che dà la musica. Forse oggi con te ho parlato un po’ da matto, perché salto da Mercurio a Plutone… il mio difetto principale è di non essermi mai adeguato ai tempi odierni, parlo ancora come fossi negli anni ’70, perché il mondo doveva migliorare, se è peggiorato non è colpa mia e non vado certo a peggiorarmi per adeguarmi al mondo. Siamo in una società che ha l’obiettivo del beneficio immediato e questo vale anche per la musica, la vera ricchezza si crea nel tempo, nell’immediato puoi solo far contento qualcuno… “desso vago casa che gò da cusinàr, ciao”.

PERTH: Skardy, ti ringrazio, ciao.

 

PERTH

Perth

https://www.youtube.com/watch?v=KsCdxXtgN9o




Cantone lascia: è lutto per lo Stato.

Lo aveva detto chiaramente “gli onesti non fanno carriera nella pubblica amministrazione”, ed anche se tutti si erano chiesti come mai lui allora era arrivato lì, oggi Raffaele Cantone ha dimostrato di essere persona coerente.

Lascia la guida dell’ANAC per tornare in magistratura ” la mia vera casa” come lui stesso la definisce.

Lo Stato ha riguadagnato un bravo magistrato, ma di certo quest’abbandono non è un significato positivo, specie quando si parla di strutture che hanno un potere di controllo sull’operato della pubblica amministrazione.

Ci sono in ogni caso delle domande da porsi:

ma se c’è una legge a che serve l’autorità? ed ammesso che serva allora ha ragione Cantone nel suo discorso chiaro in cui sostiene che le attività dell’autorità non possono essere uguali ad una tavola delle leggi scritta sulla pietra, deve essere un organismo fluido e dinamico che si adatta al mutevole e veloce cambiamento di mercato.

Cosa che sicuramente non può piacere al potere politico.

Chi ha vissuto nel piccolo quello che Cantone avrà sicuramente visto nel grande non si meraviglia di quest’abbandono, più o meno giusto, di certo lineare, il potere non può essere affiancato da organismi che sono in grado di analizzare giorno per giorno ciò che accade ed intervenire, in più con un potere esecutivo per farlo.

Chi scrive ha visto uffici di ispettori chiusi dall’oggi al domani solo perché avevano esclamato “il re è nudo”.

Certo allora nessun clamore, nessuna meraviglia, anzi quasi la soddisfazione perché quegli ispettori erano troppo sceriffi e facevano troppe ispezioni…

Il caso Cantone, certamente più eclatante e di una magnitudo assolutamente più ampia, ci lascia però comunque l’amaro in bocca, nulla cambia in questo paese.

Ora si scatenerà la polemica Cantone bravo, Cantone  cattivo, governo giusto, governo ladro, opposizione colpevole opposizione innocente, Mio Dio, che assurdità, paese lobotomizzato da se stesso.

Ci vengono in mente parole sempre attuali:

Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cantone, non a lodarlo.

Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cantone.

Il nobile Governo v’ha detto che Cantone era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cantone ne ha pagato il fio.

Qui, col permesso del Governo e degli altri – ché il Governo è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cantone.

Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma il Governo dice che fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cantone? Quando i poveri hanno pianto, Cantone ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione?

Eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, il Governo è uomo d’onore.

Non parlo, no, per smentire ciò che il Governo disse, ma qui io sono per dire ciò che io so.

Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione.

Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cantone e debbo tacere sinché non ritorni a me

La nostra convinzione è che il gesto eclatante di Cantone, pur facendogli onore, a nulla serva.

In Italia, dopo un mesetto di polemica e di sciacquio dei panni, si tornerà come prima.

La riflessione profonda che si dovrebbe introdurre è legata al meccanismo con cui lo stato ricopre ruoli chiave e ne determina i comportamenti.

Non siamo in grado di dare un profilo etico o forse chi ha questo profilo “… non fa carriera nella pubblica amministrazione…” ma è ora di cambiare, e come si cambia? solo dando l’idea dello Stato, di comunità, di unità di intenti e di obiettivi.

Oggi mancano i Simboli, e se ci sono vengono usati strumentalmente (vedi i crocifissi), perché tendiamo a dare un significato alle figure individuali, siamo nel mezzo di un mondo individuale, carico di avatar inutili di noi stessi, di profili social che spesso per nulla rappresentano  la realtà dietro la maschera.

L’amore per il proprio paese si coltiva, non nasce spontaneo come un fungo, è un processo che inizia fin da piccoli, quando si incomincia a vedere la bandiera tricolore e ci viene da cantare l’inno nazionale.

Il luogo in cui nasce quest’amore è la famiglia, la scuola, ma se lo Stato opera per distruggere la famiglia e la scuola come possono questi due incubatori diffondere l’amore per il proprio carnefice?

Occorre cambiare, servono persone intelligenti che capiscano che lo stato deve amare per essere amato, non è difficile …

Incominciamo ad aiutare i genitori, i docenti, i dirigenti, il personale della scuola, facciamo in modo che ci sia lavoro, stipendi dignitosi per tutti, smettiamola di dare i soldi a chi non crea amore per lo stato, non è difficile …

Proviamo a fare uno sforzo e pensiamo a Cesare, cosa ci viene in mente? Roma, il diritto romano, la grandezza dell’Italica gente, l’onore, la forza, insomma tutti valori positivi.

Adesso pensiamo ad oggi e proviamo a pensare a qualche nome come Cesare, dunque, ecco, ci sarebbe, spetta, come si chiamava???, ma si l’ho qui sulla punta della lingua, ecco, ecco, aspetta, ummm …

 

 

 

 

 

 

Corrado Faletti

Direttore




La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

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Quando lo strafalcione diventa esame di stato, la scuola che non c’è più…

Se è vero che la scrittura è terapeutica, posso andare avanti a scrivere per giorni, prima di guarire dal “male di insegnare”.

Sì, di insegnare nella buona scuola italiana, alle prese con i nuovi esami di stato…

Forse, farei meglio a tacere per non far sapere. Ma, giuro, non ce la faccio.

E’ da trent’anni che insegno, nelle scuole statali.

Sono stata commissaria d’esame interna ed esterna, con la formula dei vecchi esami di maturità, nei 17 anni di precariato nelle superiori. Ora, sono di ruolo nelle medie, da 13 anni, con il privilegio, insegnando francese, di avere sempre almeno tre terze da portare agli esami.

Modestia a parte, penso di aver maturato un po’ di esperienza diretta di esami conclusivi del primo e del secondo ciclo d’istruzione.

Eppure, non ce la faccio ad arrendermi all’evidenza dei fatti.

Ed impiego, apposta, il termine “alunni da portare”, anziché preparare agli esami, perché, ormai, è impensabile lottare contro la dilagante ignoranza collettiva dei ragazzi della nostra epoca.

Non entro nel merito del gioco delle responsabilità della famiglia, della scuola, della società. Sono consapevole che quest’articolo, scritta da un’addetta ai lavori è una sorta di” j’accuse “al mondo della scuola, segno e riflesso dell’involuzione culturale.

Del resto, è palese l’incremento esponenziale dei nuovi analfabeti di ritorno ed il loro exploit quotidiano sui social.

Mi voglio limitare a condividere l’inventario delle migliori sparate collezionate in questi anni di esami.

Preparatevi che sembrano inventate o scaricate da Internet.

Vi assicuro che non è così.

Testimoni i i mei colleghi che hanno partecipato alla raccolta, annotando in diretta le definizioni più folcloristiche.

Vi posso garantire che ho anche ricevuto delle pressioni da alcuni di loro per non scrivere un articolo che spari sulla scuola. “Almeno tu che ci lavori, per favore…”

(osserviamo che la colpa non è solo degli alunni, ma anche di un sistema di erogazione delle informazioni che passa molto per i social, alimentando quella che si potrebbe definire una dissociazione semantica continua verso la quale i docenti sono poco preparati a reagire; occorre rimodulare i modelli di utilizzo del set informativo attraverso una nuova concezione didattica che non può non passare per una didattica dei social, in cui è necessario ridefinire gli ambiti sia di utilizzo ma soprattutto di identificazione dei contenuti. N.d.R.)

Dunque, per non offendere nessuno, vorrei semplicemente ridere con voi e dedicare quest’articolo ai grandi sapientoni che hanno inventato la certificazione per competenze.

Sono “perle” raccolte in questi giorni di esame di terza media, in un paio di istituti comprensivi di una tranquilla città di provincia, tra un’utenza scolastica italiana, di medio livello culturale e sociale.

Perché, prima di parlare di competenze, sarebbe meglio, almeno, avere qualche conoscenza!…

Passando tra i banchi, ho notato un alunno che continuava a grattarsi il braccio, con tale veemenza che, quasi, sanguinava. Incuriosita, gli ho chiesto “Cosa succede?”. Risposta:” Prof, lasci stare, quando sono in ansia, SODOMIZZO tanto !!!”. Scioccata, incalzo e replico: “Ma davvero?!?”. “Sì, prof, sodomizzo tanto, fino a sanguinare!”.

Un altro alunno, all’orale, interrogato sul Risorgimento, ha dichiarato con assoluta certezza che Mazzini era morto nell’ARMADIO.” Ah sì? Cioè? Quale armadio? E poi, com’è morto?” Risposta: “Ah, non so, sarà morto soffocato”.

Evidentemente, la mia collega di lettere, non era d’accordo. L’alunno insisteva con supponenza, sottolineando che c’era scritto sul libro… Siamo andati a vedere.

Sì, è vero, Mazzini è morto nell’armadio. Anzi, meglio, nella CREDENZA.

Non quella di legno, ma nella convinzione che l’Italia avrebbe raggiunto l’unità!!!

Ma il resto della frase era scritto nella pagina dopo…

Ma, sì, cosa sarà mai!

Del resto, il primo uomo sulla luna, Neil Armstrong, si chiama come un noto trombettista jazz, Luis Armstrong, perché sono due ANONOMI, anziché omonimi.

Ed Oscar Wilde può rigirarsi pure nella tomba, se il suo romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” è diventato quello di Doris Day, attrice e cantante statunitense.

Gli Egiziani seppellivano i loro morti sugli alberi. Ah sì? Quali?

Risposta: “Quelli che ci sono a Natale”.

“Cioè? Sugli abeti?”

” Sì, sì, proprio così”.

La mia collega non era convinta. “Ma ti pare che in Egitto ci sono gli abeti?!?”

“Prof, c’è scritto sul libro!”

Ancora?!? Ma anche stavolta, carta canta…

Gli Egiziani seppellivano i loro morti SU-PINI.

Il ragionamento non fa una piega…

Ma l’ecatombe, arriva quando il candidato, seguendo le indicazioni ministeriali deve dare prova della sua capacità argomentativa, nonché del suo spirito critico, esaminando tre documenti ricevuti dalla commissione, mezz’ora prima dell’orale. Un testo, un grafico ed un’immagine inerenti a quattro macro aree disciplinari.

(Giusto per dovere di cronaca, lavorando su due scuole mi sono fatta sei collegi docenti per preparare tutto il materiale per il nuovo esame di stato…)

Prima macro-area. GUERRA E PACE.

La colomba della pace di Picasso, diventa per il candidato un animale, che vola. E come fai a capire che è il simbolo della pace? Risposta.” Perché ha in bocca una foglia”

Eh, già! Quale sarebbe?

“A vederla così, non saprei, non è di marijuana”

Infatti, è un ramoscello d’ulivo!

L’appel de Charles de Gaulle del 1940, come è stato diffuso?

“Non so”

Dai, prova a pensarci…Non c’era Internet, la tele non l’avevano ancora inventata, quale mezzo di comunicazione si poteva usare a quei tempi?

“Il piccione viaggiatore”.

Sobbalzo sulla sedia, sono figlia di due cardiopatici, le mie coronarie non possono farcela…Mi riprendo, penso ad uno scherzo. “Dai, non fare lo spiritoso. Pensaci bene. Charles de Gaulle si trova in esilio, a Londra. Come fa a comunicare con i suoi connazionali oltre Manica?”

“Va sulla costa con un CARTELLO!”

Altro documento. Un articolo di giornale sulla prima guerra mondiale, sulle tristi condizioni di vita dei soldati in trincea, in particolare sul rancio dei soldati. I pasti, preparati nelle retrovie, arrivavano immangiabili. La pasta era colla ed il brodo era gelatina. Perché? Come facevano a consegnare il pasto ai soldati?

Risposta. “Con gli aerei”.

Sì, magari sorvolando di giorno, sopra il nemico…

La triplice alleanza e la triplice intesa, sono la stessa cosa. Tanto era tre, comunque.

Vincitori e vinti scompaiono. Non c’è cultura, né libertà che tenga.

Mussolini. La politica agraria di Mussolini… I balilla. Cosa ti fanno pensare? Ah, sì, con lui, nasce la pasta BARILLA.

Passiamo alla seconda macro-area. AMBIENTE.

Greta Thunberg ci fa un baffo! L’attivista svedese di appena sedici anni che sfida i leader mondiali nella lotta contro il cambiamento climatico, non immagina quanto i suoi quasi coetanei italiani si siano documentati.

“La Terra prima SI DEPURAVA, adesso non ce la fa più. Ed i capi di stato SE NE FISCHIANO”. Parole testuali.

Effetto STELLA. BRUCO nell’ozono.

Ma sì, voleva dire effetto serra, buco nell’ozono. E’ l’emozione che gioca brutti scherzi…

Ed intanto, l’immagine virale dell’orso polare sfinito per l’assenza di cibo provocato dallo scioglimento dei ghiacciai, diventa un orso “poco cicciottello”.

Lasciamo perdere. Passiamo ad INTERNET ed i SOCIAL.

“I giovani d’oggi passano troppo tempo davanti al computer. E dunque, GLI viene la gobba”.

“A parte che si dice, che viene LORO la gobba. Ma allora, spiegami, perché a Leopardi è venuta la gobba. A quel tempo non c’era il computer?”

 “Leopardi era gobbo perché non faceva attività fisica”.

Anche noi, ostinati a commemorare Leopardi…

Dai, lasciamo perdere. Passiamo a DIRITTI E COSTITUZIONE.

“1789. Cosa ti fa pensare?” -La presa della PASTIGLIA-

“Perché Luigi XXIV, il Re Sole, sposta la corte da Parigi a Versailles? “

Risposta “ Per cambiare aria…”

Vittorio Emanuele II è morto decapitato e Mussolini si è consegnato.

Notre Dame è il nome di un video-gioco. E nel CAVALLO DI TROIA c’era una BOMBA.

Questa sì che è libertà di pensiero!

E pure di parola, se l’autista del pullman diventa il PULMISTA.

E pensare, che non convinta ho chiesto. “Ma chi è il pulmista “?

L’alunno mi ha guardato con un bagliore di consapevolezza negli occhi e mi ha detto: “Prof, ha ragione, sa che ci ho pensato anch’ io, non dovevo chiamarlo pulmista, dovevo dargli un nome preciso!”

E quest’ alunno, con buona pace dei miei colleghi delle superiori, si è iscritto ad un Istituto Tecnico Industriale…Nel consiglio orientativo, noi prof delle medie, avevamo suggerito una scuola professionale, ma abbiamo sbagliato tutto. La famiglia sa già che il loro figlio, genio incompreso, diventerà un pilota d’aereo. Anzi, un AERISTA…

E pensare che i nostri antenati hanno tanto lottato per il diritto all’istruzione!!!

 

Antonella Ferrari

 

 

 

 




Il brutto anatroccolo siamo noi

La Storia del brutto anatroccolo

C’era una volta un uovo.

Quest’uovo un giorno si schiuse e diede alla luce il più brutto anatroccolo che si fosse mai visto.

Sgraziato, deforme e dalla voce assordante.

Piano piano persino la mamma comincio a vergognarsi di quel figlio.

Così, disprezzato da tutti e con la profonda convinzione di essere sbagliato, andò via.

Non sapeva dove ma se ne andò.

Gli amici che incontrava per strada finivano per fargli del male.

Appena sentivano che era un anatroccolo, lo prendevano in giro per la sua bruttezza e deformità.

Più di una volta cercò di morire ma c’era sempre un imprevisto che lo salvava, e un po’ era forse anche per quel suo desiderio di vita anche se doloroso da affrontare.

Si chiedeva perché fosse così sbagliato mentre al mondo esistevano creature perfette.

Alcune le incrociava alle volte per caso: creature bellissime che nuotavano e volavano con una eleganza ipnotizzante.

Una volta scoprì che si chiamavano cigni.

La visione dei cigni, il contatto con la loro bellezza, creava un tuffo al cuore del brutto anatroccolo.

Sentiva il desiderio di voler appartenere a quella razza e il dolore di non sentirsi degno di avvicinarsi.

Tutte le volte che li incontrava volare sopra di lui, i cigni gli urlavano contro per la sua bruttura.

Ci vollero stagioni e dolori.

Un giorno il brutto anatroccolo, ormai cresciuto, mentre nuotava solo e triste, si imbatté per errore in un gruppo di cigni che facevano il bagno.

I primi sentimenti furono la mortificazione e l’imbarazzo e, il primo istinto, la fuga.

Ma prima che le emozioni arrivassero pienamente e facessero fuggire il brutto anatroccolo, i cigni tornarono a parlare.

E da vicino, questa volta, capí le loro parole.

Non erano urla di disprezzo ma saluti.

I cigni dissero all’anatroccolo confuso di specchiarsi e di riconoscersi

E fu allora che capí che per tutta la vita e attraverso tutti i dolori, non era stato un brutto anatroccolo ma un bellissimo cigno.


Dedicata a tutte le persone che soffriranno sempre finché non capiscono chi sono e dove stanno quelli della loro razza.

Dedicata a chi cerca il coraggio di dire “non sono quello che pensi”.

Dedicata a chi cerca la forza di confrontarsi col proprio specchio.

 

Crediti
Audio libro de Il Brutto Anatroccolo -> clicca qui




Sono tornati i Beatles, ma si chiamano Beatbox!

Milano, Teatro Nazionale, i Beatles sono tornati, si chiamano Beatbox.

Durante un’entusiasmante serata i Beatles sono tornati per raccontare a loro storia, tre ore di canzoni dagli esordi fino al triste momento della separazione.

Uno spettacolo emozionante che scorre sulle note delle canzoni che durante un decennio hanno emozionato milioni di persone.

Mauro Sposito, Riccardo Bagnoli, Federico Franchi, Filippo Caretti sono bravissimi, sia musicalmente che nel rappresentare l’essenza della band anche e sopratutto durante le loro performance.

Il teatro era tutto esaurito a dimostrazione non solo della bravura dei quattro ragazzi, ma anche del fascino che ancora i Beatles rappresentano per tutte le generazioni, un fascino indiscusso, eterno ed immortale.

Inutile ripercorrere i motivi che hanno reso i Beatles eterni, ma c’è qualcosa nel loro sound che colpisce il nostro dna musicale, una sorta di riconoscimento naturale delle armonie da loro create, una identificazione emotiva innata a cui pochi sono immuni.

Lo spettacolo dei Beatbox è proprio una prova del DNA che riconosce in chi vi partecipa la vicinanza genetica a quel codice musicale che ti fa scattare in piedi a cantare Love me do, o Help, senza nemmeno accorgersene.

Ottima l’ambientazione e la scenografia, i costumi e la maniacale ricerca del dettaglio, perfetta la scelta delle canzoni, anche se la mancanza di qualche classico è stata notata dal pubblico in uscita, ma la cosa veramente simpatica è stata la consapevolezza di tutti, terminato lo spettacolo, di aver visto i Beatles suonare.

Per me i Beatles hanno significato la musica dei miei anni “verdi” quando ancora il vento della vita ti fletteva ma non ti spezzava, quando ancora le tue forze ti convincevano di poter andare avanti senza paura e senza timori, la loro musica mi faceva vedere il futuro come un mondo che stava diventando migliore.

Oggi è rimasta la loro musica come il segno di una possibilità ancora da sfruttare, forse non più da me, ma di certo da quei giovani che ancora sentono il dna dei Beatles, voglia di cambiare in meglio senza paura, che ancora hanno il privilegio di credere di poter essere e fare la differenza.

I Beatbox mi hanno riportato il ricordo di una speranza che ha mosso la mia anima giovanile, mi hanno ricordato che guardando avanti, correndo per le strade della vita vedevo qualcuno fermo che mi incitava a proseguire, oggi quel qualcuno devo essere io, dobbiamo riprendere quella gioia di vivere e trasmetterla ai giovani di oggi affinché loro possano continuare a correre.

Grazie Ragazzi.

 




Il riflesso condizionato ai tempi di facebook

“Se mi ami, mettiti nudo”

Il riflesso condizionato ai tempi di facebook: siamo partiti dalla campanella di Pavlov e ora scriviamo Amen sotto ai post.

 

Non so se chi legge ricorda ancora quel vecchio slogan:

“se mi ami, mettiti nudo”.

Era la pubblicità di una marca di preservativi.

Al di là del prodotto reclamizzato, la frase imprimeva nella mente di chi ascoltava uno dei capi saldi della logica occidentale: il principio di causa ed effetto.

Se vuoi che una cosa avvenga, fanne un’altra in qualche modo ad essa collegata.

Erano gli anni ’80.

Non c’erano gli smartphone, non c’erano i social e i reality sembravano ancora una aberrazione della morbosità umana.

A guardarli così potrebbero sembrare anni innocenti dal punto di vista della manipolazione mediatica adesso così di moda e inflazionata.

In realtà, però, già gli inizi del ‘900 avevano dato lustro agli esperimenti di Ivan Petrovič Pavlov famoso per l’induzione del riflesso incondizionato sui suoi cani.

E Pavlov non era certo il solo.

Fate pure un giro su internet per vedere cosa combinavano John Watson, Stanley Milgram, Bibb Latané e John Darley, Harry Harlow o il più recente Philip Zimbardo…

Durante il ‘900 una delle grande domande di chi per dritto o per traverso studiava la mente umana, era perché le persone si comportassero in determinato modo e se fosse possibile riprogrammarle.

Che la risposta fosse è stato subito chiaro.

Le uniche variabili erano il tempo e l’etica.

Persino di strumenti ce n’erano a bizzeffe e, successivamente, lo svilupparsi e capillarizzarsi dei media ha dato una mano in più.

Di certo ci si ricorda degli studi e delle riflessioni sulla propaganda di regime.

In quegli anni, l’arrivo massiccio dei media aveva concentrato molto l’attenzione sui comportamenti umani, il modo di manipolarli e sulle tecniche di propaganda.

Il ‘900 è stato il secolo durante il quale l’uomo si è chiesto come dominare la mente degli uomini.

È stato il secolo durante il quale gli studi sulla mente umana sono nati e fioriti.

Nel ‘900 nasce la psicologia (per noi normalissima ma allora rivoluzionaria).

Più la comunicazione entrava nella vita quotidiana delle persone, più i comunicatori hanno sentito il bisogno di affermare il loro potere a proprio vantaggio.

La propaganda (diventato argomento delicato) si trasformava in pubblicità dicendoci cosa comprare e cosa desiderare.

Poi, col XXI secolo ecco la nuova sfida: insegnarci come pensare e – meglio ancora – insegnarci come reagire agli stimoli emotivi (come osserva spesso il filosofo Umberto Galimberti).

Siamo tutti sotto esperimento, a volte li facciamo noi, altre li subiamo.

Siamo tutti dei cagnolini di Pavlov che reagiscono sincronicamente al suono della campanella; oppure siamo Pavlov che misura l’aumento della salivazione della cavia dopo aver lanciato lo stimolo.

Affascinante a guardarlo da fuori, annichilente se si riuscisse a guardarlo dal di dentro.

E noi che possiamo fare?

Innanzitutto accorgercene è un gran passo avanti.

Questo ci permette di guardare le cose da un passo di distanza.


Fatto questo, prese il possibile le distanze, proviamo a recuperare la più antica delle domande filosofiche: “perché?” e assolviamola dalle paure da benpensanti ben educati ben adattati che negli anni ci hanno impedito di usarla.

Senza cadere nella trappola psicologica del complottismo, proviamo a guardare le cose chiedendoci: “perché?”

Perché penso questo?

Perché desidero quello?

Perché reagisco così?

Perché faccio cosà?
Perché…?

E non sarebbe male neppure condividere queste domande con qualcuno che vuole fare lo stesso esperimento.

Non so se ci si salva del tutto però in compenso di passa il tempo molto gradevolmente e si può anche stare lontani dagli stimoli induttori che, bisogna dirlo, sono naturalmente molto ben fatti.

La prima volta che abbiamo risposto a uno stimolo, è stato perché ci è sembrato molto utile e innocuo.

I social, sotto questo punto di vista, sono un interessantissimo campo di addestramento umano.

Chi sui propri profili social non ha mai fatto degli esperimenti per vedere cosa portava maggiore approvazione?
Chi non si è naturalmente adattato alle regole non scritte che portano ad attirare più “like” o cuoricini?

Fa parte del nostro essere animali social – i 

Proprio sui social ci sono decine di campanelli attivi che ci fanno piegare al volere del nostro Pavlov di turno, che non deve necessariamente essere il sistema, a volte basta anche liberarsi da quello che una sola persona vuole indurci a fare.

Non si chiamano più “campanelli”, si chiamano “call to action” “chiamate all’azione”; ed effettivamente il nome è onesto perché si capisce che, checché se ne dica, non si tratta dell’azione che vorremmo che il nostro interlocutore facesse spontaneamente ma è proprio l’azione che vorremmo che facesse quasi a qualunque costo.

Ovviamente alla call to action reale tipo “compra adesso (anche se non ti serve adesso)” ci si arriva perché ci si è prima allenati.

E come ci si allena?

Con le buone cause: il vantaggio comune.

Chi non ha mai visto (condividendoli o meno) post del tipo “preghiamo per questa povera anima, scrivi amen nei commenti”; oppure “questa cosa è vergognosa, condividila affinché tutti lo sappiano”.

Il passo sucessivo è il vantaggio personale:

Selezioni per fantomatici posti di lavoro (la leva più forte in questo periodo sociale):

“se vuoi essere selezionato fai la giravolta, la riverenza e la scappellenza e sbagli una sola cosa sei escluso”

“compila il seguente form: qualunque candidatura giunta diversamente non verrà tenuta in considerazione”

“se vuoi ottenere del materiale esclusivo scrivi SCEMOCHILEGGE nei commenti”

Abbiamo visto tante volte tutto questo in giro.

Abbiamo fatto anche noi azioni induttive di questo tipo.

Ed è normale.

Il terreno dei social è il campo nel quale siamo più disposti a seguire le indicazioni.

Ma adesso, provando a guardare tutto questo (che è normale, che fa parte della nostra quotidianità e che, comunque, non possiamo del tutto rinnegare), ci viene da pensare “ma PERCHÉ devo fare come dicono loro?
Perché devo abituarmi a parlare, scrivere, procedere come gli altri?

Perché non posso avere un tipo di comunicazione eterogenea e imprevedibile fatta da modi diversi di rapportarsi e reagire?”

Scegliere di uscire dai social per non essere manipolati è quasi come non uscire di casa per paura di essere investiti.

Non dobbiamo orientarci alla sospensione delle attività (a meno che non abbiamo animi da eremita) ma dobbiamo abituarci a chiederci cosa davvero vogliamo fare.

 

Crediti: ?

 

Link Esperimento di Pavlov sui cani: scheda

John Watson: scheda

Stanley Milgram: scheda

Bibb Latané: scheda

John Darley: scheda

Harry Harlow: scheda

Philip Zimbardo: scheda e ancora il mio articolo La bellezza salverà il mondo

 

 

 




La vita nascosta di Javert

Javert era un uomo di legge

Egli aveva fatto della sua vita un perfetto paradigma di correttezza e giustizia,

Sapeva che esiste il giusto e il disonesto, sapeva distinguerlo chiaramente e si era schierato dalla parte del giusto.

La gente onesta amava Javert: egli impediva infatti ai ladri di rubare, agli assassini di uccidere e ai dissidenti di schierarsi contro il giusto stato.

I delinquenti odiavano e temevano Javert.

Javert era un uomo di legge.

Conosceva la legge dell’uomo e la legge di dio, non aveva altro codice.

Javert per tutta la vita ha inseguito un nemico: Jean Valjean.

Un uomo che un giorno, per fame, aveva rubato una mela ed era finito ai bagni penali.

Jean Valjean fuggì e Javert iniziò il suo inseguimento per punire il male.

Jean Valjean era un uomo buono che per fame aveva rubato, per coraggio aveva ucciso per amore aveva disatteso una promessa.

Egli portava nel cuore il peso di tutti i suoi errori e aveva dedicato la vita a porre rimedio facendo del bene.

L’inseguimento di Javert a Jean Valjean è durato tutta una vita.

Una sera Javert e Jean Valjean si trovano uno di fronte all’altro, senza scampo per nessuno dei due.

Allora Javert guarda Jean Valjean e capisce il motivo per il quale ha inseguito quell’uomo per tutta la vita; capisce che c’è qualcosa che va oltre la giustizia, capisce che oltre al bianco e al nero esiste il grigio e ne è sconvolto.

Javert fa la cosa giusta: lascia andare Jean Valjean ma non riesce a sopportare di aver lasciato scappare il nemico di quello parte di lui che non può vivere senza regole scritte dagli altri.

Javert soffre perché deve decidere in pochi minuti della sua identità.

Deve decidere se è un uomo di legge o un uomo di sentimento; se è un uomo che sa o un uomo che sente.

Sente di aver fatto la cosa giusto ma sa di aver fatto la cosa sbagliata.

Capisce allora di non essere adatto a questo mondo e risponde per l’ultima volta alla sua logica sociale.

E così Javert, sovrastato dal disagio, non capendo più cosa è giusto e cosa è sbagliato, si uccide.

[I Meserabili -Victor Hugo]


Javert spaventa e commuove.

Noi sono Javert tutte le volte che cerchiamo di distinguere il bene dal male, il logico dall’illogico, che vogliamo metterci al riparo in una società in cui le regole sono scritte da altri.

Tutte le volte che falliamo trovandoci davanti a una realtà impossibile da schematizzare.

Noi siamo Javert e sappiamo che le persone migliori sono i Jean Valjean, quelli che vivono, sbagliano e danno un senso eterno alla loro vita.




Tipi da social

In Italia il 73% della popolazione è presente on line e il 57% è attiva sui social.

Negli ultimi anni 34 milioni di persone hanno registrato un profilo on line e hanno iniziato a somigliargli.

In principio, forse, pensavamo tutti di fare in modo che il profilo creato ci somigliasse: abbiamo inserito i nostri dati e le nostre foto; dapprima con grande discrezione, poi, piano piano, non abbiamo resistito alla seduzione della possibilità di riscatto e abbiamo iniziato a voler somigliare al personaggio caricato.

I profili hanno iniziato a diventare un Avatar o, meglio un Avatara.

Avatara in sanscrito vuol dire “manifestazione”, “discesa sulla terra della divinità”, una sorta di “epifania divina”.

E così sui social abbiamo iniziato a pensare di poter esporre la nostra manifestazione divina, la parte migliore di noi: quella più bella, grazie ai filtri delle foto, quella più intelligente, grazie alle citazioni copiate e incollate on line, più influenti grazie all’auto-celebrazione.

Ma la simbologia delle divinità è alta e raffinata e non sempre facile da incarnare.

L’avatar, l’immagine, la maschera…

“Datemi una maschera e vi dirò la verità” scriveva Oscar Wilde ma questo avviene nello stato embrionale della vita social: quando l’utente muove i suoi primi passi e vive ancora un momento di pudore della personalità, quando pubblica poco e non ama condividere troppe foto, quando ancora il simbolo può trovare spazio. 

Poi, piano piano, prende dimestichezza col mezzo e viene colto dal desiderio della esposizione divina ma, inesperto del raffinato mondo simbolico delle divinità antiche, viene fatto prigioniero da un annichilente, semplice e schematico mondo delle maschere fisse delle fabulae atellanae.

In poco tempo il mondo dei social viene popolato da novelli 

Dossennus il parassita gobbo e scaltro che si atteggia a sapiente.

Pappus il vecchio babbeo lussurioso, rimbambito e avaro.

Maccus quello che “fa il cretino” e mangia di continuo.

Buccus quello con la “bocca grossa”, che parla a vanvera.

Ovviamente i nomi sono cambiati e anche (poco) le caratteristiche.

L’atellana Social moderna è popolata da

Il Guru.
Il Guru ha conquistato una propria notorietà on line, ha un più o meno folto gruppo di accoliti che leggono tutto e si dividono tra quelli che prendono a cuore i loro “insegnamenti” o quelli che le rifiutano nettamente.

Queste due fazioni popolano poi i social combattendo le loro crociate l’una contro l’altra.
La caratteristica principale dei Guru è che non seguono mai i consigli che dispensano.

Ci troviamo così davanti a esperti consulenti aziendali che non hanno aziende, maestri di vita con esistenze a pezzi, esperti di indipendenza finanziaria con buchi di bilancio imbarazzanti.

Però, a loro discolpa, si può dire che sono lì per insegnare, mica per essere coerenti…

Batman: 

Se si legge il suo profilo, si nota che c’è sempre qualcuno con cui è arrabbiato: lettori silenti che lo spiano e tramano contro la sua felicità, nemici invisibili dai quali deve difendersi, terribili ingiustizie subite.

Batman però ha sempre un avvocato dalla parte del manico e lo sguaina al momento opportuno.

Nonostante le tante prove della vita, ha fiducia nel fatto che sconfiggerà tutti grazie alla sua forza e al suo coraggio.

Forza Batman fagliela pagare a tutti!

Grandi prove per grandi uomini!

La Vrenzola

Espressione dialettale napoletana diventata di nota grazie anche ai video dei the jackal (vedi crediti a fine articolo).

Le vrenzole usano le bacheche di facebook per dare risposte pubbliche sulla propria vita privata.

Seguire i discorsi delle vrenzole non è facile perché non sempre si sa contro chi l’abbiano, ma in genere basta guardare tra i commenti dove con discrezione futurista è spiegato dove andare a cercare l’altra voce di questo romanzo epistolare moderno.

La vrenzola si differenziano da Batman perché questo sente il peso dell’essere un super eroe e sa che il suo destino è quello di combattere contro tutti i cattivi aspettando di incontrarli una notte a Gotham, la Vrenzola va dalle galline e le prendere a borsettate.

Seguire le vrenzole è come fare la settimana enigmistica: tiene allenata la mente.

Il Cronista

Con lo zelo e la professionalità dell’inviato di guerra, il cronista ci informa di tutti i suoi spostamenti e delle sue azioni.

Potrebbe cominciare postando il risveglio, poi la colazione, i bambini a scuola, il lavoro, la spesa, il cane, il gatto, il topo e l’elefante…

Di lui sai sempre tutto: quali sono le sue passioni, quale principessa della Disney è, qual è il record a Candy Crush… il suo sogno segreto (che fa di tutto per rendere vero) è avere un reality sulla propria vita privata che si sforza di far apparire perfetta ma vera: ogni tanto anche il cronista ha un problema ma lo supera con filosofia e coraggio. 

In un mondo così falso e incerto, sapere che il cronista pubblicherà ogni mattina la foto del suo caffè, è una certezza da non sottovalutare.

 

Quello intelligente.

Tra le tante certezze di facebook c’è lui: quello intelligente.

Non importa se abbia studiato all’istituto professionale e poi si sia dedicato ad una vita da impiegato al catasto. Tutto questo tempo libero gli ha permesso di informarsi di tutto e di tutti.

L’opinionista sa sempre quello di cui si parla e di cui è importante parlare: dalla trasmissione sul canale privato ai raffinati affari di alta politica.

Se ci fosse lui al potere tutto avrebbe senso.

Se non ci fosse lui on line, non conosceremmo le tendenze di opinione.

Lui ha pensieri profondi, visioni acute e ha sempre ragione anche quando … anzi no, soprattutto quando ha torto.

Tutti vorremmo essere lui.

 

Ma queste sono tutte immagini, piccoli frammenti, deviazioni dell’intero.

Sono riproduzioni semplicistiche alle quali affidiamo noi stessi per piacere di più a chissà chi.

Chissà chi per davvero, perché, in effetti proprio, non si capisce a chi piacciano questi stracci di personalità.

Però sono facili da gestire e per questo ci seducono, perché sui social pare più facile avere una personalità riduttiva e schematica che non cercare confusi la propria identità che potrebbe essere così grande che, da vicino, non riusciamo a metterla a fuoco.

 

Crediti

Fonte dati: grafici

Vrenzole:

video the jackal you tube  

fonte immagine: facebook