LE SFIDE SOCIALI DELLA CHIESA: PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE E NINO COSTANZO TESTIMONIAL MORALI

 

Arriva il 29 maggio alla Facoltà Teologica di Palermo la presentazione de ‟Le sfide sociali della Chiesa” per i tipi de ‟Il pozzo di Giacobbe”: una ricerca di don Giacinto per una visione altra dalla persona come essere sociale.

Lo comunicano in una nota Paolo Battaglia La Terra Borgese e Nino Costanzo, testimonial morali dell’iniziativa culturale e sociologica che investe il capoluogo siciliano quale prima tappa d’Italia.

 

Arriva il 29 maggio alla Facoltà Teologica di Palermo la presentazione de ‟Le sfide sociali della Chiesa” in Luigi Sturzo e Igino Giordani di don Giacinto Magro edito da: ‟Il pozzo di Giacobbe”. È una ricerca, che condotta da don Giacinto, offre una visione altra dalla persona come essere sociale, dice della dimensione personale, sociale dell’essere Chiesa per il mondo.

 

Magro è un sacerdote della Diocesi di Piazza Armerina. Nasce a Delia nel ’69. E durante il suo viatico matura importantissime esperienze nel sociale. È ordinato nel 2008.

 

Unisce esperienza, impegno e pensiero nella ricerca intellettuale. Studia filosofia e teologia in diverse università e oggi lavora come direttore della Pastorale Famigliare e parroco ad Aidone in Sicilia.

 

Giacinto oggi opera con vigore nella ricerca teologica, nell’insegnamento e nella formazione dei Christi fideles laici.

 

Le sue fatiche letterarie più consultate dagli studiosi comprendono La vita oltre la morte. L’umanità pensata da Dio come unità inscindibile (2013) e L’Ave Maria. Dalla preghiera orale alla preghiera esistenziale (2015).

 

Il saggio del 29 maggio, che alle ore 18:00 si presenterà al pubblico alla Facoltà Teologica di Palermo, prende le mosse dalla testimonianza intellettuale di due Autori attenti scrutatori dei segni dei tempi nell’adesione a Cristo e nell’ascolto dello Spirito, che con la loro vita e il loro pensiero sono divenuti testimonianza, notevoli pensatori che hanno contributo al recupero del significato antropologico e sociale inscritto nella relazione tra Chiesa e mondo. La Chiesa, infatti, è l’attuazione storica del ‟mistero” (in senso paolino) di Dio Trino e della sua volontà salvifica che si attua nel tempo: da questi autori – afferma don Giacinto –, la storia è letta come spazio, per l’attuazione della salvezza in Gesù Cristo, il quale realizza in sé e mediante il suo Corpo, la Chiesa, una nuova antropologia che salva l’uomo integrale nella logica comunionale e universale.

 

Il volume – assicurano Paolo Battaglia La Terra Borgese e Nino Costanzo – è affascinante, intriga, ed è originato sia dalla testimonianza intellettuale di Sturzo e Giordani che da due domande di fondo che restano sottese ma come un filo rosso attraversano tutto il saggio: Che cos’è la persona? Come incide la Chiesa nel sociale?  

 

Una nuova antropologia agapica avvolge il lettore, poggia il suo realizzarsi nel dono, nella relazione e in divine realizzazioni, salva l’uomo integrale.

 

Nella prima parte, si coglie come in Sturzo ‟tutto è grazia, senza disincarnare l’uomo anzi radicandone in Cristo la vita individuale e sociale. Nella seconda parte, trova spazio la riflessione su Giordani, il quale fonda nella patristica la proposta concreta di un uomo agapico, parte di una società nuova in relazione continua con Gesù. La terza parte, tenendo conto del contributo d’entrambi, propone il passaggio da una concezione della salvezza di tipo individuale ad una in chiave sociale-comunionale, grazie al recupero del concetto dell’essere-per-il-mondo. Così, attraverso l’antropologia del dono, il credente, e la Chiesa, si scopre lievito di una nuova socialità basata sull’amore agapico, espressione della Trinità: un amore che unisce divino e umano. Il concetto di persona, declinato nella sua accezione esistenziale e dinamica, indica l’io come soggetto, capace di autodeterminarsi nella libertà e di realizzarsi nella relazione. Come afferma il teologo Cada nella prefazione il saggio di Giacinto Magro ‟offre un nuovo contributo qualificato perché egli propone una dinamica antropologica Cristocentrica/Trinitaria nell’azione sociale e civile propiziata a partire e nella luce dell’evento di Gesù Cristo tra la missione della Chiesa e la promozione di una umanità nuova fermentata dalla logica e dall’impegno della fraternità: nella prospettiva dell’annuncio e della testimonianza dell’avvento del Regno che è sale e lievito di trasformazione della città terrena quale promessa e caparra della città celeste”.

Il rapportarsi all’altro è costitutivo del soggetto: Non è mediante il rapporto con il proprio ‟sé”, ma è mediante il rapporto con un altro ‟sé” che l’uomo potrà raggiungere la completezza. Questo altro sé può essere limitato e relativo quanto a sé stesso, ma è in questo essere-insieme-con-l’altro che si rende possibile l’esperienza dell’illimitato e dell’incondizionato. In altri termini non c’è vera antropologia né possibilità di autentica realizzazione umana, se non dove sia recuperata la pienezza del rapporto con altri, se non dove a una visione del soggetto come autosufficiente e dominante si sostituisca una visione in cui l’esteriorità si ponga come liberante e le categorie di relazionalità come essenziali per il soggetto stesso. Solo nella relazione con ciò che è esterno alla coscienza individuale e, in particolare, nella dialogicità interpersonale, la prigionia dell’io è infranta e si coglie la realtà non come dominio, ma come incontro.

La relazione interpersonale esprime la struttura originaria dell’essere uomo, la profondità ontologica per la quale l’uomo non è solitudine, ma costitutiva apertura all’Altro e ad ogni altro e viene a realizzarsi nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro. Per don Sturzo la persona è impegnata nella ricerca del bene, per la realizzazione di sé: in questo senso, l’oggetto conosciuto diventa «verità amabile e desiderabile» che esercita un certo fascino nei confronti del soggetto conoscente. In altri termini, si vuole un bene in quanto esso risponde alle finalità del proprio essere e perché lo si è conosciuto come bene desiderabile. Pertanto, per Sturzo la conoscenza è principio di comunione: una «comunione sui generis fra il conoscente e l’oggetto conosciuto». Conoscere è completare sé stessi, è «attività» responsabile della persona che, solidale con la realtà con cui entra in relazione, focalizza con sempre maggiore chiarezza il suo orientamento verso il bene. Scrive Sturzo:

‟Se fossimo Dio, noi, conoscendoci e amandoci, formeremmo società con noi stessi pur restando noi stessi un solo (il mistero della Trinità). Ma noi siamo finiti; la conoscenza del nostro io appella subito un non io, un fuori di noi; l’amore verso di noi non è completo se non si espande fuori di noi, verso un necessario completamento”.

Mentre per Giordani l’uomo è il prodigio della creazione, il privilegio della redenzione, l’obiettivo della vita soprannaturale nella natura creata. Sturzo può considerarsi un personalista, anche se preferisce usare i termini ‟individuo” e ‟uomo” in luogo di ‟persona”. Giordani propone il concetto mistico della persona come ‟alter Christus”. Per Giordani l’uomo può cogliere sé stesso e vivere se partecipa dell’Essere di Dio che è Amore, amando. L’essere va ricompreso come dono/amore, accolto/ridonato. Secondo Pasquale Foresi l’oggetto stesso della filosofia è l’essere come dono, che ci fa prendere coscienza della nostra personale penuria d’essere: sono, in quanto sono donato a me da un Altro che mi provoca a restituire il nulla che per sè sono: Oggetto della filosofia è dunque l’essere che si dona e che è, al tempo stesso, da me ricevuto. E se il riceverlo mi dà, in certo modo, di percepire il mio non esistere, il ridonarlo, ridonandomi, mi consente di percepire l’esistere in pienezza. L’atto del filosofare si schiude così come un rapporto trinitario fra me e Dio, preludio della soluzione, unica anche sotto il profilo filosofico, che ci viene data dal cristianesimo nella misura in cui entriamo nel mistero della Trinità. Pertanto modificando la ben nota espressione di Cartesio, cogito ergo sum dobbiamo dire: ‟mi dono, dunque sono”. È piuttosto, come scrive con insistenza Sturzo ‟cooperatore” di Dio: «Non Dio solo con la sua grazia, non l’uomo solo con la sua volontà libera, ma l’uomo con Dio», in una «comunione intima» e in una «permanenza di Dio in noi e di noi in Dio», che rende possibile e anzi esige l’azione e la contemplazione insieme. Il rapporto con Dio diventa l’orizzonte in cui don Sturzo e Giordani rintracciano il senso del mondo e del proprio stare in esso: tutto è «finalizzato» a Dio, in quanto proveniente da Lui. L’uomo è il ministro e il servitore di questo ‟finalismo”, è colui che, chiamato a realizzarsi come figlio, in unione con Dio e in ‟rapportalitaˮ con gli altri, in altri termini vive come homo ‟agapicusˮ. Dio che è in Sé stesso relazione (Padre, Figlio, Spirito Santo) la riversa sull’uomo il quale è in relazione con sé stesso, con gli altri, col mondo, innanzi tutto col suo Creatore e Redentore. Tale «finalizzazione» rende l’uomo capace di vivere in rapporto con Dio, in una relazione d’amore che illumina e immette lo stile trinitario tra gli uomini. «La vera vita è amore», conclude Sturzo, perché «Dio stesso è amore». Sta qui la chiave di volta, l’intuizione teologica e al contempo l’esperienza radicale che permette a don Sturzo e a Giordani di ritrovare il senso del loro personale vissuto spirituale nel loro impegno apostolico d’impronta socio-politica.




CELLINI, PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE RACCONTA LO SCULTORE

«…durante tutta la sua vita di lavoro indefesso lo scultore, orafo e scrittore, mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli…»

 

Riuscì sempre a cavarsela – racconta Paolo Battaglia La Terra Borgese -. Era lo spadaccino più permaloso di tutta l’Italia del Cinquecento e i suoi nemici pagarono con la vita. Si prese le donne che gli piacquero.

Fu maestro d’avventure. La battaglia gli metteva allegria. Il carcere più profondo non bastava a tenerlo.

 

Ma quest’avventuriero spaccone fu soprattutto il più grande orefice del mondo. Tale era l’opinione che aveva di se stesso Benvenuto Cellini, e i collezionisti la condividono ormai da oltre 400 anni.

La storia in genere conferma le pittoresche avventure narrate nella sua Vita.

 

Benvenuto Cellini – prosegue Battaglia La Terra Borgese – nacque a Firenze nel 1500. Dal padre, fabbricante di strumenti musicali, ereditò l’abilità manuale.

Fin dall’infanzia si fermava davanti alle botteghe degli orefici, attratto dal ticchettio dei martelletti, dal soffiare dei mantici, dall’incandescenza delle braci.

S’infilava dentro per vedere lo splendore che i tagliatori di gemme traevano dalle pietre preziose ancora grezze e per osservare gli artigiani che lavoravano l’oro nella sua infinita e lucente duttilità.

 

Ben presto si fece assumere come apprendista in una delle botteghe – continua Battaglia La Terra Borgese -.

Questo scatenò un finimondo perché Cellini padre aveva deciso in cuor suo che Benvenuto dovesse diventare un musicista. È vero che quelle agili piccole dita sul flauto sapevano far sgorgare lacrime di gioia dai teneri occhi paterni.

Ma Benvenuto non era il tipo da esercitarsi con le scale tutto il giorno.

Per sfuggire alle odiate note scappava di casa e stava via parecchi mesi di seguito, guadagnandosi la vita come apprendista orefice nelle città vicine.

A 19 anni, avendo litigato più del solito col padre, s’incamminò a piedi per Roma, dove si diceva che il papa era prodigo di oro con gli artisti come le fontane della città erano prodighe d’acqua.

 

Il suo primo lavoro a Roma – riferisce Battaglia La Terra Borgese – consisté nell’adornare uno scrigno d’argento per un cardinale.

Lo fece in bassorilievo, decorandolo molto più di quanto non gli fosse stato ordinato, con fogliami intrecciati, frutta, putti e maschere grottesche. Il maestro della bottega era così fiero di questo scrigno che lo mostrò a tutta la città.

E ancor più fiero fu Benvenuto di mandare il compenso che gli spettava al padre, che continuò a mantenere generosamente finché visse. Poiché la mano di Cellini era pronta a dare come a colpire; durante tutta la sua vita di lavoro indefesso mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli.

 

A Roma guadagnò largamente e in breve ebbe una bottega sua. Da questa uscirono anelli, cammei e spille di squisita fattura, coltelli e pugnali dal manico intarsiato, cinture d’argento per le spose e una brocca d’oro per un vescovo.

Cellini fece anche fucili, per suo proprio uso, perché era schiavo della  violenta e persistente passione di andare a caccia di folaghe nelle paludi intorno alla Città Eterna.

 

Fu un colpo da maestro – precisa Paolo Battaglia La Terra Borgese – che dette inizio al susseguirsi delle eccitanti avventure di Benvenuto Cellini. Nel 1527 Roma era assediata dalle forze dell’imperatore Carlo V, al comando del connestabile di Borbone.

Cellini, che era volontario nel corpo di guardia sulle mura, scrutando attraverso la nebbia vide un gruppo di nemici che si avvicinava. Puntando l’archibugio uccise il capo del gruppo con un solo colpo.

Cellini racconta che questi, come si vide poi, era il connestabile in persona. Pura vanteria? La storia ci dice che proprio in quel giorno il connestabile fu ucciso da una sentinella sconosciuta.

 

Dopo di ciò Benvenuto Cellini ebbe il comando delle artiglierie sul mastio di Castel Sant’Angelo. Lo stesso papa Clemente VII, venne fuori a osservare la mira del Cellini che martellava le trincee del nemico.

Per un mese, con gioia a metà puerile e a metà diabolica, Benvenuto dimenticò la sua arte delicata – dichiara Battaglia La Terra Borgese –.

 

Il Critico prosegue: Finita la guerra, Cellini fu nominato maestro della Zecca Vaticana. Oltre a ciò foggiò una quantità di splendidi ornamenti per i dignitari della Chiesa. Un bottone per il piviale pontificio richiese anni di lavoro.

Grande come un piattino, raffigurava Dio Padre circondato da 15 angeli in oro sbalzato, e c’erano incastonati smeraldi, zaffiri, rubini e un magnifico brillante. Quest’oggetto fece parte del

tesoro vaticano per 250 anni, ma fu poi unito alla «indennità» pretesa da Napoleone Bonaparte nel 1797 e mani vandaliche ne estrassero i gioielli e ne fusero l’oro.

 

Non bisogna però credere che la vita di Benvenuto fosse tutta spesa a lavorare per la Chiesa – avverte Battaglia La Terra Borgese -.

Una volta gettò via il cesello per seguire un bel visetto siciliano fino a Napoli. Le modelle dell’artista Cellini, sembravano essere irresistibili per l’uomo Benvenuto.

 

Nell’odio era ardente come nell’amore. Quando il fratello fu ucciso in una rissa, Benvenuto non pensò neppure a chiamare i custodi dell’ordine: a che sarebbe servito, visto che l’uccisore era un caporale delle guardie della città?

«Presi a vagheggiare quello archivitabusiere» dice Benvenuto «come se fosse stato una mia innamorata.» Infine in un vicolo buio col pugnale si fece giustizia.

 

Alla morte del vecchio papa – racconta il critico d’arte Battaglia La Terra Borgese -, prima che fosse eletto il nuovo, a Roma non c’era altra legge fuorché l’anarchia.

Un orefice del Vaticano, suo rivale, di nome Pompeo, si mise in cerca del Cellini con dieci armati.

Benvenuto s’imbatté in questi per la strada. Nella zuffa uccise Pompeo con una pugnalata e mise in fuga i suoi scherani.

Ma la figlia di Pompeo andò sposa a un amico intimo di Pier Luigi Farnese “nipote” del nuovo papa, e per sua istigazione il Cellini veniva continuamente perseguitato.

Un assassino còrso gli tese un agguato, sicari lo seguirono a Venezia, un’altra banda lo costrinse a fuggire di notte.

Riuscì sempre a cavarsela. Ma nel 1537 fu arrestato per ordine del papa. Fu chiuso in una cella «dove fu decisa la mia morte» come egli dice.

 

Con grande astuzia – nota Paolo Battaglia La Terra Borgese – preparò la fuga. Prima rubò delle tenaglie a un operaio del carcere.

Quando i suoi apprendisti gli portarono delle lenzuola pulite, nascose quelle sudice nel materasso.

Con le tenaglie estrasse quasi tutti i chiodi dai cardini di ferro della porta lasciandone appena quanti bastavano per tenerla a posto.

Ci vollero parecchie settimane per tirarli fuori e contraffare le borchie con della cera di candele mista a ruggine onde trarre in inganno i carcerieri.

Quando tutto fu pronto s’inginocchiò e rimase a lungo in preghiera.

 

Rimanevano soltanto due ore di oscurità quando estrasse gli ultimi chiodi dai cardini e sgusciò fuori dalla cella.

Si attorcigliò sulla schiena le strisce di lenzuola annodate, usci sul bastione e di lì si calò nel cortile.

 

La notte volgeva al termine e Benvenuto – riferisce Battaglia La Terra Borgese – spiava le sentinelle aspettando il momento opportuno per superare il muro esterno.

Arrampicatosi su questo con l’aiuto di una pertica che aveva trovato per caso, assicurò le lenzuola rimaste a una pietra in cima al muro e iniziò la discesa verso la libertà.

Ma o le lenzuola o le sue mani esauste cedettero, perché Cellini cadde e si ruppe una gamba.

La legò stoicamente e si trascinò fino alla porta della città; era ancora chiusa, ma il Cellini riuscì a rimuovere una grossa pietra da sotto la porta e a infilarsi in quel buco nonostante i dolori strazianti.

Passata la porta fu assalito dai cani da difesa. Ma un servitore del cardinale Cornaro di Venezia lo riconobbe e lo portò al palazzo del suo padrone.

 

Disgrazia volle – fa notare Battaglia La Terra Borgese – che il cardinale desiderasse una sede vescovile per un suo amico e che il pontefice non gliela volesse concedere.

Così fu concluso un patto: il cardinale ottenne il vescovado e il papa riebbe il suo prigioniero.

Questa volta il Cellini fu chiuso in una segreta nei sotterranei di Castel Sant’Angelo: una fossa piena d’acqua, in cui egli giacque in delirio per parecchi giorni.

 

Ma allora, al palazzo di Fontainebleau in Francia, il re Francesco I aveva espresso il desiderio di avere come orefice di corte questo Benvenuto Cellini del quale aveva sentito fare tanti elogi. Un altro cardinale influente parlò in suo favore al papa.

Così dalla sua immonda cella il Cellini fu trasportato alla corte più brillante d’Europa – afferma Battaglia La Terra Borgese -. Qui gli furono dati splendidi appartamenti, un gruppo di aiutanti e ricevette un’ordinazione dopo l’altra per opere di grande impegno, d’oro, d’argento e di bronzo, tra cui una «saliera» d’oro – in realtà è un centro da tavola per banchetti – che è oggi il vanto di un museo di Vienna

 

Il re e la regina, il cardinale e i nobili venivano spesso a visitare la sua bottega sempre attiva.

Tutto prometteva bene.

Ma Cellini aveva fatto i conti senza la favorita del re e, sebbene fosse un esperto adulatore, aveva trascurato di richiedere l’opinione di quest’ultima. In seguito alla sottile opposizione che lei gli mosse – afferma Battaglia La Terra Borgese -, Cellini poté portare a compimento ben poco di ciò che aveva progettato per Francesco I, e nel 1545, deluso, tornò a Firenze e divenne il protetto del duca Cosimo I, ben noto patrono delle arti.

Cosimo suggerì a Benvenuto di scolpire una statua di Perseo, il leggendario eroe greco che uccise Medusa, la Gorgone anguicrinita (che ha serpenti al posto dei capelli, ndr) che impietriva chiunque la guardasse.

 

Cellini fece un modello dopo l’altro, di cera, di stucco, di marmo. Infine, dopo nove anni, riuscì a compiere una figura più grande del vero, che lo soddisfece – lo elogia così Paolo Battaglia La Terra Borgese -.

Ora si trattava di gettarla in bronzo! Questa era una delle operazioni più difficili che la scultura avesse mai tentato fino allora. Cellini doveva progettare da sé le fornaci e le forme, ed escogitare le leghe. Il duca scosse la testa e predisse un disastro.

 

Ecco come il Cellini – riporta il Critico – racconta la sua impresa, forse la più appassionante di tutta la sua vita.

 

«Alla fine gridai che fosse accesa la fornace. I tronchi di pino vi erano accatastati e la fornace lavorava tanto bene, che io fui necessitato a soccorrere ora da una parte e ora da un’altra per alimentarla.

Non resistevo più e mi saltò addosso la febbre, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto.

Quando due ore dopo tornai nella bottega trovai tutto rappreso il metallo e il tetto della bottega in fiamme.

Mandai sul tetto a riparare al fuoco e dissi a due manovali che andassino a prendere una catasta di legne di quercioli giovani, e quando queste presono fuoco, oh come quel metallo rappreso si cominciò a schiarire, e lampeggiava in quel terribile fuoco.»

 

«In un tratto è si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo. Mi avvidi che il coperchio della fornace si era scoppiato e il bronzo si versava fuori. Subito feci aprire le bocche della mia forma. Ma veduto che il metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, forse per essersi consumata la lega per virtù di quel terribile fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa dugento, e a uno a uno li gittai drento. In tal modo riuscii nell’intento e ora il mio bronzo s’era benissimo fatto liquido e la forma si empiva. Quando vidi il mio lavoro compiuto m’inginocchiai, e con tutto il cuore ne ringraziai Iddio.»

 

La statua di Perseo – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgesefu posta in una loggia in Piazza della Signoria nel cuore di Firenze. Là si erge oggi, nel bronzo immortale il vigoroso eroe che solleva la testa di Medusa.

 

Con questa sola opera Cellini prese posto tra i grandi scultori. In questo periodo fecondo fece altri lavori in bronzo e in marmo: busti, figure mitologiche e un grande crocifisso per la propria tomba (pur tuttavia aveva ucciso umani e altri animali).

 

Con l’avanzare degli anni, quest’uomo che aveva vissuto così felicemente seguendo i suoi principi, pian piano si conformò a quelli del resto dell’umanità.

A 64 anni sposò la sua domestica e cominciò ad allevare i propri figli in stato coniugale. Laddove un tempo aveva elargito le sue sostanze liberamente, ora ascoltò il parere dei savi e le investi… e così perse tutto (banchieri dell’epoca).

 

Il 13 febbraio 1571 le avventure terrene di Benvenuto Cellini ebbero termine. Eppure continuano per sempre, poiché ogni generazione le riscopre nella sua scintillante autobiografia. Per quasi due secoli il manoscritto fu perduto.

Quando venne alla luce e fu pubblicato tutta l’Europa ne rimase affascinata. Goethe, che lo tradusse in tedesco, dichiarò che costituiva un miglior quadro di quei tempi che non qualunque rigoroso testo storico.

Dumas lo divorò e poi offrì al mondo il suo allegro cavaliere D’Artagnan, il capo dei Tre Moschettieri. Da allora in poi la figura di un intrepido spadaccino, burlone, rubacuori e femminaro è balzata da cento libri ed è comparsa su mille schermi.

Il primo di tutti era stato Benvenuto Cellini – chiude così, Paolo Battaglia La Terra Borgese il suo Cellini-.




Scienza dell’Arte: estetica e metodo?

Betapress: Paolo Battaglia La Terra Borgese, ci spieghi lei cosa è la Scienza dell’Arte

 

Il metodo sperimentale, caratterizzante la scienza moderna, fu diffuso da Galileo Galilei: presuppone di esaminare costantemente che le indagini sperimentali siano connesse con le ipotesi e i ragionamenti svolti. Al pari di altre scienze, la Scienza dell’Arte è dunque anch’essa un sistema di conoscenze – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgese

 

Occorre chiarire che il termine ha un significato immediato e storicamente definito – precisa il noto critico d’arte -, e indica lo studio dei fenomeni artistici con il metodo e i presupposti delle scienze naturali, al fine di determinare, in maniera universale e necessaria, le leggi che presiedono alla vita dell’arte. Un tale atteggiamento teorico, oggi alquanto superato, considera cioè questo fatto spirituale, che è l’arte, alla stessa stregua di un qualsiasi fenomeno naturale sperimentale.

 

Oggi la Scienza dell’Arte ha fatto passi da gigante – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgese – e non è più stagionata nella trappola tecnica/rappresentazione/periodo: è avvenuta una vera palingenesi ad opera della Critica Artistica, che è la vera Scienza dell’Arte.

 

Le varie estetiche naturalistiche, fisiche, fisiologiche, psicologistiche ecc. erano tutte mosse dall’ambiziosa aspirazione di concludere in un sapere scientifico la vitalità estrema del mondo dell’arte. Il loro merito consistette nella polemica, giustificata entro certi limiti, contro alcune astrattezze speculative e posizioni mistiche in cui si perdeva la concretezza della sfera estetica – avverte Paolo Battaglia La Terra Borgese -.

 

Ma il loro limite si delinea ben chiaro allorché si tiene presente che la scienza può spiegare il mondo dei fatti, e non quello dei valori, né quello delle forme spirituali che sui fatti operano trasfigurazione e idealizzazione. Il mondo dello spirito, in altre parole, non può essere studiato col rigido metodo sperimentale perché altrimenti se ne perderebbe di vista la più profonda essenza, che è la libertà creativa. Questa è la ragione per la quale la Scienza dell’Arte non ha senso senza la Critica Artistica, che ne costituisce il diretto sinonimo e, soprattutto, la maggiore nozione, in quanto la Scienza dell’arte è solo una delle componenti della Critica Artistica.

 

Con ciò non voglio negare, chiarisce Battaglia La Terra Borgese, tuttavia, da parte delle estetiche più recenti, il valore e il contributo positivo di un certo ordine di studi. Tali ricerche vanno però condotte con metodi e procedimenti più elastici e idonei alla particolare natura dell’argomento, anche in considerazione del fatto che il metodo naturalistico di cui il positivismo si fece assertore è, nel campo delle stesse scienze, sottoposto oggi a un severo processo di revisione critica, e perciò non è più il caso di averne la cieca fiducia che se ne ebbe alla fine del XIX secolo. In secondo Luogo, le ricerche cosiddette scientifiche, di carattere psicologico, valgono a mettere in luce particolari piani ed aspetti della sfera estetica, ma i loro dati vanno integrati nella visione teoretica, cioè universale, del complesso mondo dell’arte.

 

Vanno, cioè, inserite nel quadro di una filosofia critica dell’arte e del bello.

 

Il piano in cui si risolvono dalla loro particolarità e unilateralità è dunque propriamente il piano dell’estetica.

 

Conclude Paolo Battaglia La Terra Borgese:

Nell’epoca che viviamo il termine «scienza dell’arte» vuol quindi indicare il complesso di studi d’ordine psicologico, sociologico, critico, tecnico, storico, ecc. che l’estetica conduce nella infinita ricerca di una definizione dell’arte e del bello. Il vocabolo “scienza” non va dunque inteso come un sapere che concluda a leggi definitive, ma come un metodo di seria indagine teoretica sempre aperta a nuove scoperte e a nuove integrazioni da parte della Critica Artistica.

 




Massoneria, gli auguri di Paolo Battaglia La Terra Borgese

Massoneria, gli auguri di Paolo Battaglia La Terra Borgese a Leo Taroni, nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani

Paolo Battaglia La Terra Borgese: “Da Sovrano Gran Commendatore del R.S.A.A. Leo Taroni ha ampiamente dimostrato la consapevolezza che le cariche sono un servizio e non un privilegio”.

Sono certissimo – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgese – che Leo Taroni, da nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani, recupererà, per affermarla, la normale dinamica del confronto -leale – tra Fratelli.

Perché a sentire i rumors – continua Paolo Battaglia La Terra Borgese – il dogma, che sarebbe stato imposto in seno alla maggiore obbedienza massonica italiana (il GOI), quello dello “stai zitto e obbedisci” denunciato dal Cavaliere Nero (altro che Fratelli Liberi e di Buoni Costumi!), avrebbe stressato troppo i Fratelli, li avrebbe mortificati, sviliti, snaturati; e alla fine, i Fratelli del Grande Oriente d’Italia, nel segreto dell’urna, al riparo dalle epurazioni di cui si è ampiamente occupata la stampa nazionale di questi giorni, hanno scelto il cambiamento: Leo Taroni e la sua Giunta di Governo: Gran Maestro Aggiunto Andrea Zucconi, Gran Maestro Aggiunto Giuseppe Paino, Primo Gran Sorvegliante Danilo Mourglia, Secondo Gran Sorvegliante Luigi Carlucci, Grande Oratore Silverio Magno, Gran Tesoriere Luca Templari.

Attesissima dunque la giornata di domani sabato 9 marzo per la ratifica del CEN, Commissione Elettorale Nazionale del GOI.

Intanto – precisa Paolo Battaglia La Terra Borgese – auguro a Leo Taroni e alla sua Squadra – capaci come sono – il mordente dell’acquaforte e l’acquatinta di Francisco Goya, per Risvegliare il Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani, sì… perché Il sonno della ragione genera mostri.

La mente di Taroni è prolifica e coraggiosa – chiude Paolo Battaglia La Terra Borgese – ed è anche ricca di fantasie in sinapsi, proliferative di perspicacia, di sagacia, del fare, del Giusto e Perfetto. Non mancherà a lui e alla sua Giunta, la Forza, la Bellezza e la Sapienza.

 




Al via il 3X2 nel Grande Oriente d’Italia, la più affollata obbedienza massonica italiana (di Paolo Battaglia La Terra Borgese)

Al via il 3X2 nel Grande Oriente d’Italia, la più affollata obbedienza massonica italiana

di Paolo Battaglia La Terra Borgese

Tre liste ma solo una di due vincerà il confronto.

È quanto è lecito desumere dalle dòxa di Zetetica e Cavaliere Nero.

Si vota domenica 3 marzo.

 

A muoversi da fuori il GOI, in nome della torcia luminosa della civiltà e del progresso, è perfino Giuliano Di Bernardo, già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani, che ha sponsorizzato – direttamente e indirettamente – la lista numero 1 anche durante un’intervista di Fedez, nel corso di una puntata del podcast Muschio Selvaggio.

 

Tre liste ma solo una di due vincerà il confronto. È quanto è lecito desumere dalle dòxa di Zetetica e Cavaliere Nero (forum digitali massonici riservati agli addetti ai lavori).

 

Quis similis tui in fortibus Domine?

 

La terza lista – secondo gli umori registrati in Zetetica e soprattutto in Cavaliere Nero – sarebbe in netta minoranza, e la seconda, quella sponsorizzata dall’attuale Gran Maestro, si dichiara (ovviamente) del proseguimento.

 

A chi mira al cambiamento, non resterebbe altro da fare che votare per la lista numero 1

 

Così – se le opinioni rispecchiano la realtà aritmetica esposta -, a chi mira al cambiamento, non resterebbe altro da fare che votare per la lista numero 1.

Ciò al fine di non disperdere i voti, che, senza volerlo, diversamente, se destinati alla lista numero 3, finirebbero col favorire, la lista del proseguimento poco cara ai cambiamentisti tutti.

Purtroppo, in termini di obiettivi numerici ne pagherebbe le conseguenze di risultato la terza lista, sol perché considerata in minoranza.

 

Per farla breve, secondo alcuni e per non essere di tedio ai lettori: da un anno a questa parte, la fulgida luce massonica si è dovuta confrontare adendo i metodi “profani”.

 

Ma è storia vecchia, come vecchio è il profilo delle campagne elettorali in seno al GOI, che in termini dialettici perfettamente combacia con i programmi elettorali cosiddetti profani.

 

E la salsa è sempre la stessa, quella che suga per concimare un elenco di azioni e di tematiche sempre ripetute ed uguali ad ogni consultazione elettorale.

 

Giacché da sempre è uguale il repertorio di novità (?) proposte dal candidato di turno: la sovranità della loggia, il tema delle cariche, l’indipendenza della giustizia massonica rispetto alla giunta di governo del GOI, l’organizzazione interna, le azioni nel mondo profano, i rapporti con lo Stato, la solidarietà interna ed esterna, l’ammontare dell’appannaggio da riconoscersi al G.M. e, da questi ultimi anni, la discussa Fondazione del GOI. 

 

La lista numero 1

 

Tuttavia, questa volta, udite e lette le sue promesse, se vincesse il candidato della lista numero 1, LEO TARONI, egli, mantenendo fede al suo programma elettorale, è certamente destinato a passare alla storia della massoneria italiana e non solo, per i radicali cambiamenti di cui sarà artefice, dando vita a nuove origini nel Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani.




Critica artistica: il suo significato

 

Per critica artistica si intende comunemente la riflessione dei critici d’arte più eminenti, come oggi Paolo Battaglia La Terra Borgese (in foto), Achille Bonito Oliva, Paolo Levi, Vittorio Sgarbi sull’opera dell’artista per determinarne il valore assoluto, l’individualità fantastica e per stabilire i motivi storici, pratici e contingenti, quando essa non assurge a valore, d’arte.

Comunque l’esigenza dell’autonomia dell’arte come espressione o linguaggio degli artisti, distinta dalle altre attività dello spirito è conquista moderna: nelle epoche precedenti l’arte fu limitata da pregiudizi che la subordinarono a fattori estranei alla sua natura.

Essa fu ritenuta ad es.: imitazione della natura, legata alla verisimiglianza, per cui spesso arte e abilità tecnica coincisero; espressione pedagogica e moralistica, con conseguente scala di valori di contenuto (teoria dei generi e dei sottogeneri); edonistica riproduzione del bello fisico in forma sensuale; idea del bello astratto, che alcuni popoli ebbero la fortuna di attingere, da cui il concetto parabolico dell’arte e la persuasione di irrimediabile decadimento di determinati periodi.

Questi pregiudizi portarono logicamente all’esclusione e al rigetto di interi periodi artistici che non potevano essere compresi in sì rigide determinazioni. Mancò cioè agli antichi il concetto di sviluppo storico e di libertà autonoma dell’opera d’arte ed essi non compresero mai la pienezza espressiva delle singole opere d’arte.

Il mondo greco infatti fu dominato dalla teoria dell’arte come imitazione della natura, di cui i due più grandi filosofi greci, Platone e Aristotile, gettarono le basi, il primo negando l’arte proprio perché imitazione di una natura già imperfetta, il secondo ammettendola come rappresentazione del verisimile idealizzato nei tipi delle cose; a tali teorie si aggiunsero concezioni edonistico-pedagogiche, che accentuarono il carattere intellettualistico dell’arte in età classica.

Ci rimangono tuttavia trattati tecnici, come il «Canone» di Policleto (V sec. a. C.), biografie d’artisti e descrizioni letterarie di opere d’arte nelle quali appaiono talvolta acute osservazioni critiche. Biografie di Duride Samio (IV sec. a. C.), di Senocrate di Sicione (III a. C.), descrizioni di Luciano di Samosata (II d. C.), di Pausania (II d. C.) e di Filostrato (III d. C.).

A Roma si ripetono senza sostanziale originalità i motivi teorici greci con accentuazione del carattere pedagogico. Vitruvio (I sec. a. C.) nel «De architectura» considera l’euritmia come valore estetico dei monumenti derivando il termine dei Greci. Plinio il Vecchio nel 37° libro della «Naturalis Historia» riprende il concetto dell’arte come imitazione della natura e traccia un profilo di biografie artistiche di notevole interesse.

Anche filosofi e letterati ribadiscono, senza approfondire, simili concezioni (Cicerone, Quintiliano, Plinio il Giovane ecc.).

Il Medioevo, pur accettando la concezione intellettualistica dell’età classica, per influsso del neoplatonismo di Plotino (il bello è la partecipazione del pensiero che discende dal divino) trasporta esigenze razionali anche nel processo mistico, poiché ogni attività umana è intesa in servizio di Dio, in una universale spiritualizzazione.

Perciò la concezione dell’arte si fa più libera da limitazioni di carattere naturalistico e sostituisce alla forma e al disegno, cari al classicismo, l’esaltazione del colore e della linea in tutti i suoi aspetti; ma l’arte è sempre intesa come mezzo educativo e pratico. Spunti e sporadiche annotazioni di critica d’arte si trovano in S. Agostino (sec. IV) e in S. Tommaso (sec. XIII). Tuttavia nessuna opera sistematica appare in questo periodo; solo ricettari (Teofilo sec. XII), enciclopedie e trattati di ottica (Witelo sec. XII), e tecnici (Vìllard de Honnecourt sec. XIII).

Col sec. XIV appaiono chiari segni di una concezione dell’arte rinnovantesi: Cennino Cennini in un suo trattato tecnico della pittura, il «Libro dell’arte», riporta il disegno in onore accanto al colore, in ossequio alla tradizione giottesca.

Nel sec. XV L. B. Alberti (Trattati sulla pittura, scultura, architettura) riafferma che l’arte è opera della ragione e di norme scientifiche, quali la prospettiva e si ispira ad una bellezza armonica di tipo naturalistico; la forma e il disegno tornano a prevalere; anche Leonardo nel suo trattato sulla pittura considera l’arte secondo forme tecniche e scientifiche.

Solo nei «Commentari» del Ghiberti appare un tentativo di valutazione critica degli artisti dell’antichità e del periodo gotico di notevole interesse.

Nel sec. XVI Giorgio Vasari nelle sue «Vite dei più eccellenti pittori, scultori, architetti» afferma il concetto di un progresso dell’arte risorta con Cimabue e giunta a splendida insuperabile maturità con Michelangelo e destinata quindi a certa decadenza dopo di lui: l’arte inoltre è intesa come disegno e forma: di qui l’affermazione della superiorità dell’arte toscana. A tale affermazione i difensori del colorismo veneziano, P. Aretino, L. Dolce, P. Pino insorgono con minor rigore normativo ma con vigoroso senso della validità della pittura di colore; essi sostengono il diritto di affrancamento dall’ordine razionale del disegno toscano e rigettano ogni proporzione astratta.

Nei loro trattati di architettura Serlio, Palladio, Vignola tornano alla concezione di Vitruvio, con scopi pratici ben dichiarati. Si sviluppa inoltre nel sec. XVI la concezione pseudocritica dei manieristi, che propugnano l’imitazione dei motivi tecnici dei grandi maestri del secolo; G. P. Lomazzo, ad esempio, formula un programma di vigilato eclettismo, che sarà poi teorizzato all’inizio del sec. XVII dall’Accademia degli Incamminati di Bologna con i fratelli Carracci, la cui importanza storica è grande per la comprensione dell’accademismo e dell’eclettismo dei sec. XVII e XVIII. Nella loro scia si muovono i biografi secenteschi d’artisti come il Passeri, lo Scannelli, lo Scaramuccia ecc.: sulle orme del Vasari muove invece F. Baldinucci.

Contro la concezione Vasariana nelle sue «Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni» insorge G. P. Bellori, assertore dell’imitazione dell’antichità classica e precursore del neoclassicismo: egli giudica Raffaello unico erede del verbo classico nel sec. XVI; esalta Poussin come il miglior pittore del suo tempo, ignora Caravaggio.

In Francia tal principio classicistico è sostenuto dal Felibien e dal Le Brun, teorici dell’Accademia di Francia. Anche il moralismo cattolico della Controriforma ha i suoi teorici (ad es. i Card. Paleotti e Borromeo).

Reagiscono alle pastoie accademiche il veneziano M. Boschini e il francese R. De Piles esaltando il colore contro la forma e i moderni contro gli antichi; la polemica sfocia in Francia nella famosa querelle des Anciens et des Modernes.

Il sec. XVIII vede per la prima volta affermata l’autonomia dell’arte in una nuova scienza; l’estetica ad opera del tedesco Baumgarten; in Italia G. B. Vico afferma l’essenza dell’arte come fantasia; in Francia il Diderot esalta il sentimento come espressione dell’arte in saggi e nelle recensioni dei Salons in cui egli esprime una critica spigliata e geniale anche se un po’ superficiale.

Le idee accademiche del secolo precedente continuano invece in Italia nel Ciocchi nel Bottari nell’Algarotti e finiscono nell’imponente storia pittorica del Lanzi in cui tuttavia è un serio tentativo di cogliere l’individualità degli artisti. Le teorie veneziane del 600 sono riprese dallo Zanetti.

In Inghilterra infine lo Hogarth e il Reynolds difendono l’arte contemporanea con misura britannica contro il Neoclassicismo trionfante.

Il Neoclassicismo infatti, già apparso all’inizio del secolo nel pensiero dell’inglese Shaftesbury, trova alla metà del secolo i suoi teorici in due Tedeschi, il pittore Mengs e l’archeologo Winkelmann.

Il Mengs propugna una bellezza assoluta e trascendente manifestantesi nella forma circolare e nell’uniformità del colore, il Winkelmann afferma la bellezza come ideale neoplatonico e la realizzazione di esso trova nella calma euritmia delle statue classiche; perciò essi oppongono una critica delle forme astratte e dell’arte universale all’indagine concreta di individualità artistiche.

Dal Winkelmann derivano il Milizia, il Seroux d’Agincourt, autore della prima storia universale dell’arte, il Cicognara ecc. Il Lessing chiude il secolo con il suo “Laocoonte”, affermando il concetto della bellezza in senso fisico come proporzione corporea, di cui modello è il Laocoonte classico.

Il sec. XIX eredita i problemi e i motivi non sviluppati del ‘700 e in reazione polemica col Neoclassicismo esalta l’irrazionalità dell’arte medievale e l’imitazione di essa con i movimenti dei Preraffaelliti in Inghilterra (Rossetti, Hunt, Millais) e dei Nazareni e Puristi in Germania e in Italia (Overbeck, Minardi, Tenerani) la cui importanza storica è notevole, anche se artisticamente essi segnano un fallimento.

Teorici di tali tendenze sono il WalPole il Langley, lo Hurd in Inghilterra, J. J. Heinse, H. Fussli e W. Wackenroder in Germania, A. Rio e E. Viollet-le-Duc in Francia: fra essi si segnala l’inglese J. Ruskin che concepisce l’arte come comunione mistica con la natura, come estasi, con geniali giudizi sull’arte medievale.

Questi teorici sono solo in parte influenzati dal grande pensiero idealista che, movendo dalle premesse di Kant, con Schelling concepisce l’arte come espressione dell’infinito nel finito e con Hegel l’arte come grado dello spirito assoluto in cui l’idea si manifesta sensibilmente nell’individuo.

La feconda concezione idealistica non trova eco nella critica militante, che per lo più persegue intenti accademici, ma essa appare nella critica di artisti e letterati che difendono polemicamente la libera creatività dell’artista.

Esempio tipico ci forniscono le polemiche dei Salons in Francia tra romantici e classici (Planche, Delacroix, Delecluze, Vitet, Lenormant) tra i quali spicca con la sua critica geniale Baudelaire.

La polemica si rinnova per il realismo con Thoré, Fromenbin, Champfleury, Chesneau e per l’impressionismo con Duret, Burty, Duranty, Riviere, Geffroy, Zola, etc. e per i movimenti pittorici ulteriori con Huysmans, Laforgue, Feneon, Signac, Denis, Apollinaire, Gleizes, Ozenfant, Lhote etc.

La critica ufficiale è dominata invece dalle teorie accademiche e poi dall’angusta teoria positivistica di H. Taine.

Anche in Italia la critica più viva è quella dell’ambiente dei Macchiaioli toscani con A. Cecioni, T. Signorini, D. Martelli.

Il secolo nella 2a metà vede fiorire per influsso del positivismo l’attività di filologi, archeologi e conoscitori che forniscono preziosissimo materiale d’indagine sulle fonti: Jahn, Brunn, Furtwangler, Milanesi, Frey, Kallab: altri compilano manuali di storia d’arte di singoli periodi con grande erudizione, Wolff, Muller, Pauly e Wissowa, Krauss, Kugler, Blanc, Semper, Kondakoff, Diehl, Muntz, Grimm, Justi, Dvorak; in essi debole è la base critica: emerge tra essi il Buirckhardt con il suo “Cicerone” per un’innata vivacità di giudizio. Più importanti i conoscitori; Rumohr, Passavant, Bode, Cavalcaselle, Morelli e con basi più solidamente critiche A. Venturi e B. Berenson nel sec. XX e l’americano Kingsley-Porter.

In questi ultimi appare chiara la reazione al positivismo e l’influsso della teoria della pura visibilità. Essa sorge in Germania ad opera dello scultore Hildebrand, del pittore von Marees e del filosofo Fiedler: arte è ciò che è visibile; linea, spazio, forma, colore etc. sono gli elementi che permettono il giudizio dell’opera d’arte; la teoria viene approfondita dal Wickhoff e dal Riegl; la divulgano H. Woefflin, A. Schmarsow, A. E. Brinckmann, B. Berenson, C. Bell, R. Fry, A. Stokes, J. Mesnil, H. Focillon.

La pura visibilità è superata in Italia dal pensiero di B. Croce, che concepisce l’arte come apprensione fantastica di un momento di vita fissato nella sua individualità ma rimane come base proficua di ricerca in R. Longhi, L. Venturi, M. Marangoni, R. Salvini.

La concezione critica crociana ha influenzato profondamente molti critici italiani del sec. XX, da C. L. Ragghianti a S. Bottari, da C. Baroni a G. C. Argan; un influsso profondo ha operato anche sull’austriaco J. von Schlosser. Tuttavia esporre gli aspetti della critica d’arte nel secolo XX è impresa ardua e quasi impossibile sia per le numerosissime personalità di rilievo in Italia e all’estero, sia perché l’evoluzione continua e viva del pensiero in tal campo impedisce di formulare giudizi definitivi.

Tuttavia della nobile schiera degli studiosi di arte e di critica di arte in Italia con tendenze e indirizzi diversi ricordiamo senza pretesa alcuna di completezza: F. Wittgens, M. L. Gengaro, E. Tea, A. M. Brizio, G. Nicco Fasola, M. Pittaluga, A. Franchi, A. Banti, J. Toesca tra le donne cultrici d’arte; P. E. Arias, C. Anti, L. Banti, R. Bianchi Balndinelli, A. Della Seta, P. Ducati, S. Ferri, G. Galassi, G. Lugli, A. Maiuri, L. A. Milani, P. Orsi etc. tra coloro che prevalentemente si sono interessati di archeologia e di arte classica; E. Arslan, F. Arcangeli, P. Bargellini, M. Bernardi, A. Bertini, L. Biagi, M. Biancale, F. Bologna, L. Borgese, G. Briganti, E. Carli, G. Castelfranco, E. Cecehi, L. Coletti, V. Costantini, P. D’Ancona, G. De Francovich, G. Dell’Acqua, G. De ,Micheli, A. De Rinaldis, R. Delogu, D. Dorfles, D. Fogolari, V. Golzio, E. Lavagnino, A. Marabbottini, G. Mariacher, V. Mariani, E. Modigliani, A. Morassi, O. Morisani, V. Moschini, U. Nebbia, G. Nicodemi, R. Pane, L. Planiscig, A. J. Rusconi, F. Russoli, M. Salmi, S. Samek-Ludovici, L. Serra, S. Solmi, E. Somarè, F. Zeri, B. Zevi, G. Vigni etc. tra i cultori di arte medievale e moderna.

Inoltre gli scambi di concezioni e di idee tra i singoli paesi e la diffusione della conoscenza mediante la riproduzione fotografica delle opere d’arte d’ogni parte del mondo allarga notevolmente le possibilità degli studiosi e dei critici d’arte.

Numerosissime sono le riviste d’arte, delle quali alcune hanno carattere di collaborazione internazionale, come il “Burlington Magazine” e la “Gazette des Beaux Arts”, quest’ultima cessa le pubblicazioni nel 2002. In Italia meritano particolare menzione le riviste: “L’Arte” diretta da A. Venturi poi interrotta, “Palladio”, “Bollettino d’arte”, “Arte veneta”, “Commentari”, “Paragone”, “Proporzioni” oggi fondazione, “Sele Arte” (1952-1966) oggi fondazione.

Anche cataloghi di gallerie e musei vengono redatti con intendimenti non solo filologici ma anche critici e cintici.

Negli studi di carattere filologico si tende ad un maggior rigore normativo, specie in Italia ad opera di P. Toesca, A. Ancona, G. Fiocco, S. Ortolani, R. Pallucchini, S. Bettini, C. Brandi etc.

Mostre vengono periodicamente allestite con intendimento non solo divulgativo ma anche critico; in Italia la Biennale di Venezia offre un esempio cospicuo in tal senso attraverso i suoi valorosi rappresentanti storici, da R. Pallucchini a U. Apollonio, da L. Venturi a G. Marchiori, da C. G. Argan a M. Valsecchi.

Carattere più limitato ha la critica dei quotidiani, poiché essa indulge troppo spesso alle tendenze e al gusto medio di lettori non preparati.

Il secolo XX ha visto ancora fiorire la critica d’arte espressa dagli artisti stessi, come avviene ad esempio per C. Carrà e A. Soffici in Italia, per Le Corbusier in Francia e per H. Moore in Inghilterra.

Problemi aperti di indagine critica sono ancora oggi: le tendenze critiche sociali e marxistiche, la metodologia americana, la critica esistenzialistica, la critica neo-positivista etc. su cui i giudizi sono ancora molto contrastanti; e per quanto concerne dalla seconda metà del XX secolo le esperienze artistiche non hanno più confini concettuali e di realizzazione, e più che mai la critica d’arte assume fondamentale importanza nella società:  la Treccani recita  che “L’alto grado di specializzazione e il sempre maggior peso culturale della critica d’arte nella seconda metà del secolo scorso e specialmente nel nostro dimostrano che essa risponde a una necessità obiettiva e non può considerarsi un’attività secondaria o ausiliaria rispetto all’arte stessa. È infatti impossibile intendere il senso e la portata dei fatti e dei movimenti artistici contemporanei senza tener conto della letteratura critica che a essi si riferisce”.

Comunque possiamo constatare con soddisfazione che il sec. XXI promette di sviluppare tutte le possibilità della critica d’arte in tutte le direzioni, e ciò anche grazie al contributo annesso dal critico d’arte Philippe Daverio scomparso il 2 settembre 2020.

Scrive Wikipedia: Nella storia recente in Italia si annovera una schiera di critici e storici dell’arte contemporanea quali Paolo Battaglia La Terra Borgese, Federico Zeri, Paolo Levi, Achille Bonito Oliva, Paolo Rizzi, Jean-François Bachis-Pugliese e di divulgatori quali Vittorio Sgarbi, Philippe Daverio, Gregorio Rossi, Daniele Radini Tedeschi, tutti accomunati da un professionismo mediatico, elemento indispensabile alla divulgazione dell’arte tutta del XX secolo.




Critica d’arte, Paolo Battaglia La Terra Borgese: critica artistica è la corretta definizione

 

Intervista al critico d’arte Paolo Battaglia La Terra Borgese: criticare la critica artistica

Lei, Battaglia La Terra Borgese, ha di recente affermato che la riflessione su un’opera d’arte, allo scopo di conoscerla e di giudicarla, consiste nel compito ultimo di insegnare a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Vorremmo dunque e intanto sapere, in proposito, se sia più corretto dire critica d’arte o è giusto dire critica artistica?

È migliore, e certamente più corretto, sostenere critica artistica, poiché critica d’arte nasceva dal fatto che quello del critico d’arte fosse un ruolo, un tempo, esclusivamente o prevalentemente maschile, oramai questa definizione va considerata del tutto superata, e per critica d’arte deve necessariamente intendersi un critico d’arte donna, cioè una donna la cui professione è quella di critica d’arte, così come avvocata, ministra e via dicendo. I critici, uomini o donne che siano, si occupano dunque di critica artistica.

Ma è possibile criticare la critica artistica?

Se vogliamo distinguere, anche perché è doveroso! e dal punto di vista professionale perfino obbligatoriamente etico, e soprattutto perché ricorre un dovere intellettibile per differenziare un critico d’arte da un showman televisivo o dall’intrattenitore di una mostra, possiamo a nostra volta valerci della critica finta tipica degli imbonitori: è quella che va bene per qualsiasi artista di qualsiasi tendenza, quella superlativamente descritta nel 1971 dal milanese Bruno Munari, grande artista e designer capace: “Con la sua personale tecnica e con un modo di esprimersi del tutto adeguato, attraverso segni, colori, forme e materie particolari, il Nostro ci propone, nelle sue opere, delle sensazioni elaborate secondo il suo schema, alle quali lo spettatore è libero di partecipare o meno. Il lungo e paziente lavoro, fatto sotto la guida spirituale del suo grande maestro preferito, giorno dopo giorno, nel segreto del suo luminoso studio al settimo piano di via Roma 18, lo ha condotto a queste inevitabili scelte. Le sue opere sono quindi il frutto prezioso di una ispirazione personale e di una esperienza che il Nostro ha dovuto farsi da solo, a tu per tu col mondo esterno dal quale capta il bene e il male. Non si può negare il valore artistico di queste opere proprio per le qualità specifiche che le formano. Ancora una volta il Nostro ci dimostra le sue qualità estetiche con rara coscienza ed esemplare equilibrio… I veri critici d’arte termina Munaridovrebbero protestare vivacemente contro questo malcostume che ridicolizza il lavoro serio di una categoria socialmente valida quando aiuta la gente a capire. Il danno che può provocare questa falsa critica va tutto a scapito della critica vera per cui il pubblico, non avendo la possibilità di giudicare l’opera di questi falsari, mescola falsi e buoni in un unico calderone.”

Il vero critico, quello migliore, chi è?

Quando il lavoro del critico si rivolge al pubblico, il professionista insegna a godere educando al gusto estetico di fronte a una scultura, un dipinto, un’architettura, per il progredire delle possibilità intellettuali e morali di una persona. Quello è il vero critico, e non ne esiste uno migliore degli altri, perché la critica artistica non ha mai fine: ogni professionista esperto aggiungerà sempre qualcosa all’impianto critico già costituito.

Siamo tutti in grado di comprendere l’arte?

C’è un’enorme differenza di contatto: occorre mostrare agli inesperti soltanto il valore della scena delle opere in senso lirico e concettuale, per educare al gusto e alla definizione dello stile, un po’ come fa la guida nei musei; il valore estetico e quello puramente tecnico-artistico-costruttivo deve invece essere diretto agli addetti ai lavori, per non creare all’inesperto confusione tra arte ed erudizione».

Secondo una sua battuta che abbiamo rispolverato, in Italia ci sono più pittori che Vendesi ai muri! Ci può dire quali sono i dati reali?

A proposito di muri, mi si conceda una nota a favore dei murali, dove molto frequentemente si rileva una perizia o un talento singolare. Il muralismo meglio dei monumenti, avvicina l’arte figurativa alla gente, sia perché è esso stesso che si porta agli occhi dei passanti e non il contrario, quanto perché in maniera esplosiva e catturante, con le sue superfici di grande estensione, con effetti ipnotici creati dalla magistrale bravura tecnica dei suoi autori, trasmette, risveglia e promuove la sensibilità estetica. A differenza delle decine di migliaia di c.d. opere che se pure esposte – ogni anno nelle oltre 4.200 sedi del sistema espositivo italiano dove si inaugurano 40 mostre al giorno per un totale di circa 15.000 mostre annuali – non producono bellezza. È facile intuire da questi dati che possa non trattarsi sempre di vera arte.

Siamo dunque alla mistificazione dell’arte? Possiamo dirlo?

Ad alta voce. In pochi sanno tradurre la forma in valori d’espressione, sanno cioè fondere i contenuti con la forma. Assistiamo così a un generale risibile rifiuto della forma che in realtà nasconde l’incapacità artistica dei più.

Un’ultima domanda: come acquistare un’opera d’arte in sicurezza?

A rassicurarci è la congruità del prezzo sollecitato. Occorre richiedere sempre al pittore o allo scultore che non lo esibisca palesemente il suo coefficiente d’arte, che deve immancabilmente essere certificato e calcolato da un critico d’arte di chiara fama: non sono bastevoli assegnazioni, aggiudicazioni d’asta e musealizzazioni.




OPERA D’ARTE: IL PREZZO RAPPRESENTA IL VALORE? (di Paolo Battaglia La Terra Borgese)

Come avviene nel mercato dell’automobile piuttosto che del tonno in lattina, realmente il valore economico dell’opera d’arte non è mai veramente proporzionale alla dote estetica e al dato qualitativo.

Le leggi dell’economia per le contrattazioni dei beni regolano la fruizione e trattano l’opera come un prodotto qualsiasi, per poterne budgettizzare le singole voci e arrivare alla determinazione del prezzo finale tenuto conto del sistema globale.

Dai Sofisti a Platone fino all’Aesthetica del filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, il problema del Vero rispetto al Buono e al Bello afferisce all’opera d’arte nel senso più largo delle nozioni, e Socrate avvertiva “Non necessariamente ciò che non è bello e buono è brutto e cattivo”; ma sarà Vero e reale, c’è da chiedersi?

Puro no di certo, se si parla di soldi.

Nel sistema dell’arte a noi contemporaneo, e forse da sempre, l’opera – abbiamo detto – è sottomessa ad un vero e proprio marketing come qualsiasi prodotto in vendita.

È ampiamente accettata valida a tal proposito l’esemplificazione del noto critico d’arte italiano Achille Bonito Oliva, secondo cui l’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il mercante vende, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano, il pubblico contempla.

Oggigiorno la strutturazione internazionale dell’attività artistica si edifica su rapporti ascendenti il tramaglio mondiale delle gallerie e il tramaglio mondiale delle istituzioni culturali.

La distesa culturale dove si opera con valutazioni lo studio del bello e le piazze mondiali dell’arte dove vivono le negoziazioni e le alienazioni delle opere, combinano sinergicamente la determinazione del valore degli artisti e delle loro opere; Francesco Poli docet.

Si comprende bene che, decidendo di cosa musealizzare, anche le preferenze di direttori e conservatori di museo intervengono conseguentemente sulla determinazione del valore artistico; e ancorché queste scelte siano dettate dalle finanze a disposizione esse influenzeranno inevitabilmente il mercato stesso.

Per dirla alla Oscar Wilde: oggigiorno si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente.

Testi critici, libri monografici, bibliografia, sitografia, cataloghi commentati, mostre in residenze pubbliche o prestigiose, fiere, opere musealizzate, collezionisti che contano, quotazioni ufficiali certificate da esperti di chiara fama, battute e aggiudicazioni d’asta, reference galleries e vastità dei territori di distribuzione concorrono a costituire il coefficiente di quotazione dell’artista, valore, questo, indispensabile per calcolare il prezzo esatto delle sue opere, ferme restando le variabili che incidono a seconda dei supporti utilizzati e delle capacità tecniche ed estetiche espresse nel dato degli elementi contestualizzati in ogni singolo lavoro.

Per dirla con le parole di uno degli artisti attualmente più pagati negli Stati Uniti, Jeff Koons: «l’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo», alias: il problema non è fare il quadro ma venderlo.

Il grosso problema discrasico del collezionista d’appartamento risiede invece nella volontà di tesoreggiare la creazione dell’artista, dunque nel comprare in certezza di qualità e garanzia di mantenimento di valore – quasi stesse lui acquistando una lavatrice che continui a funzionare nel tempo – separando il problema del bello dal problema dell’uomo, come rilevava Giovanni Paolo II riferendosi però agli artisti moderni.

Baudelaire, Dante e anche Eliot avvertivano che per creare il bello l’uomo deve prima cercare in tutte le forme delle manifestazioni in natura, uomo compreso, per poterne attingere.

Il collezionista commette l’errore di voler considerare l’acquisto di un’opera d’arte quale trasformazione di risparmio in capitale (opera d’arte), ma l’investimento – per sua nozione – può rivelarsi sia buono quanto sbagliato, e l’investimento giusto per definizione è collega dei prodotti per la ricrescita dei capelli: non esiste.

Perfino le grandi organizzazioni di lobbisti museali internazionali, le principali gallerie di importanza mondiale e le principali case d’asta – veri mercanti di oggi – potrebbero fallire puntando su taluni o talaltri artisti.

E l’acquisto giusto?

Il migliore affare è indubbiamente quello che fa coincidere il prezzo dell’opera col suo valore economico reale del momento.

Rivolgersi sempre a un critico d’arte di chiara fama è buona regola per verificare la legittimazione degli autori a quella fascia di prezzo e sulla possibilità nel mercato di opere di altro artista di eguale valore qualitativo ma di valore commerciale ben diverso.

Oltretutto è facile incappare in artisti che spessissimo propongono ingenuamente le loro opere al potenziale compratore a prezzi privi di qualsiasi fondamento: in termini di sottocultura, questi autori sono stati convinti dagli sfruttatori degli artisti dilettanti, a credere in una intima relazione fra quantità di mostre, numero di pubblicazioni e valore delle proprie opere.

Si tratta di galleristi ai quali non occorre nessuna competenza artistica in quanto non hanno loro nessun obiettivo di scelta e di vendita, ma hanno semplicemente il fine di affittare lo spazio dei propri locali ad artisti sprovveduti che anelano di esporre in pubblico le proprie opere, e magari vincere qualche premio; e si tratta inoltre di editori di cataloghi e libri d’arte dove gli artisti possono essere inseriti comunque a fronte di un pagamento, indipendentemente da ogni capacità vera e reale.

Per onestà di cronaca corre il dovere di segnalare che a fronte di tali attività operano nel mercato alcune gallerie impegnate realmente in un serio lavoro culturale, come pure fanno quei mercanti che sono una vera e propria garanzia per i collezionisti di una certa raffinatezza.

È qui utile infine segnalare all’artista le fiere importanti.

Casomai ritenesse opportuno parteciparvi egli sappia che la più antica è la kunstmesse di Colonia, in Germania; che oltre al noto mercatone di quadri e affini che si svolge a Venezia sotto il nome di Biennale, in Italia quella più importante e alacre in assoluto è la Fiera di Bologna, seguita per il buon livello di qualità da Artissima di Torino.

Oltre che a Colonia fuori dall’Italia nel mondo sono importanti Internationale kunstmesse di Basilea, Frieze di Londra, Armory Show a New York, ARCO a Madrid e Foire Internationale d’Art Contemporain di Parigi, e ancora in Italia Miart a Milano, oltre a fiere che si tengono ad Amsterdam, Chicago, Dubai, Francoforte, Los Angeles, Nizza, Shanghai e Stoccolma.

Da segnalare anche Manifesta per la sua peculiarità di edizione itinerante.

 

PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE




Genio Eterno: Arte come Emblema della Maestria Umana e Finestra sull’Infinito

Dopo l’accordo di Betapress con Ettore Lembo per parlare di politica, situazione internazionale e società, nasce la collaborazione tra Betapress e Paolo Battaglia La Terra Borgese, che rappresenta un affascinante incrocio di percorsi e competenze diverse, che si incontrano nel terreno comune dell’arte e della genialità umana.

Questa rubrica esplora la concezione dell’arte come massima espressione del potenziale umano, un ponte tra il reale e l’ideale, tra il temporale e l’atemporale.

“Genio Eterno” allude alla perpetua rilevanza del talento creativo e innovativo dell’uomo, che attraverso l’arte riesce a trasmettere messaggi, emozioni e visioni che rimangono attuali attraverso i secoli.

“Arte come Emblema della Maestria Umana” sottolinea l’idea dell’arte come simbolo della capacità umana di eccellere, di superare i limiti del conosciuto e del possibile, riflettendo la profondità del pensiero, la complessità delle emozioni e la grandezza della visione che solo l’essere umano può esprimere.

Questa frase intende valorizzare l’arte come testimonianza della continua aspirazione dell’uomo alla perfezione, alla scoperta e all’espressione del sé.

“Finestra sull’Infinito” evoca l’aspetto più trascendentale e universale dell’arte, la sua capacità di collegare gli individui con concetti e sentimenti che superano i confini del tempo e dello spazio, toccando l’essenza stessa dell’esperienza umana in una ricerca di significati ultimi.

L’arte diventa così una via per esplorare e connettersi con l’eterno, un mezzo attraverso il quale l’umanità può avvicinarsi alla comprensione di verità universali e alla condivisione di un senso di comunione con il tutto.

In conclusione, questo titolo mira a riflettere su come l’arte, nella sua espressione più elevata, sia un linguaggio universale capace di superare le barriere culturali e temporali, fungendo da testimone della ricerca umana di superamento, bellezza e trascendenza.

L’arte, in questa visione, è vista non solo come creazione ma come un dialogo continuo tra l’individuo e l’infinito, tra l’umanità e il suo eterno desiderio di esplorare, comprendere e comunicare l’ineffabile.

Questa alleanza intellettuale è particolarmente stimolante per il modo in cui intreccia saperi e visioni differenti, creando un dialogo multidisciplinare che va oltre i confini tradizionali dell’arte, della tecnologia e della critica.

Corrado Faletti, con il suo background di tecnologo, saggista e giornalista di indagine, apporta alla collaborazione una prospettiva unica sul ruolo che la tecnologia e l’innovazione giocano nella società contemporanea.

La sua expertise permette di esplorare come gli strumenti tecnologici possano essere utilizzati per creare nuove forme d’arte, ampliando le possibilità espressive e comunicative dell’essere umano.

La visione di Faletti sull’integrazione tra tecnologia e arte suggerisce un futuro in cui l’innovazione tecnologica non solo facilita la creazione artistica ma ne diventa un elemento costitutivo, spingendo i confini di ciò che consideriamo arte.

Paolo Battaglia La Terra Borgese, d’altra parte, con la sua esperienza di critico d’arte, sceneggiatore e mediatore culturale, introduce una prospettiva profondamente radicata nella storia e nella teoria dell’arte.

La sua capacità di analizzare e interpretare le opere d’arte attraverso il prisma della critica storica e culturale arricchisce la collaborazione, fornendo le basi per comprendere come le nuove forme d’arte si inseriscano nel continuum storico dell’espressione umana.

Paolo Battaglia La Terra Borgese, con la sua sensibilità verso le dinamiche culturali e sociali che influenzano l’arte, offre un’importante chiave di lettura per interpretare il significato e l’impatto delle innovazioni tecnologiche nel campo artistico.

La collaborazione tra Faletti e Paolo Battaglia La Terra Borgese è quindi un’esplorazione del connubio tra arte e realtà, arte e futuro.

Attraverso il loro lavoro congiunto, indagano come l’arte possa fungere da ponte tra l’umano e il tecnologico, tra il passato e il futuro.

Esplorano le potenzialità dell’arte come mezzo per riflettere sul mondo contemporaneo e immaginare futuri possibili, dimostrando come la creatività umana possa adattarsi e rispondere alle sfide poste dall’evoluzione tecnologica e sociale.

In sintesi, la collaborazione tra Corrado Faletti e Paolo Battaglia La Terra Borgese rappresenta un dialogo fecondo tra due menti creative che, pur provenendo da ambiti diversi, condividono un interesse profondo per le intersezioni tra arte, tecnologia e società.

Il loro lavoro insieme mette in luce come l’arte non sia solo una testimonianza del suo tempo, ma anche un veicolo per interrogare e comprendere la complessità del mondo in cui viviamo, aprendo nuove prospettive sul ruolo dell’arte e dell’innovazione nella definizione del futuro umano.