La verità ha tante bocche

– Oh… Come è bello… Come hai detto che si chiama?

– Oceano 

– … Oceano… E hai detto che lo hai inventato tu?

– Propriamente 

– … Che meraviglia… Ma come hai fatto?

– Ho studiato, ho viaggiato molto, ho fatto esperimenti sulla mia pelle.

Quindi ho creato l’oceano.

– Oh… 

– Non è stato facile sai?

Questo oceano è unico.

– Una volta però ho sentito parlare di qualcosa del genere… Non ricordo bene… è possibile?

– Certo che no. 

– Eppure… Mare… Si chiamava così…

– Ah il mare… Ma quello lo conoscono tutti e oltre a non essere niente di speciale è pure tutto sbagliato.

– Tutto sbagliato? Che vuol dire?

– Vedi, tu adesso sei qui con me e stai osservando l’oceano. 

L’oceano è una enorme distesa di acqua salata che io ho alimentato goccia dopo goccia inserendo pesci di vario tipo, alghe e crostacei di ogni forma

– Capisco 

– Per non parlare dei coralli e dei molluschi, riesci a vederli?

– Bhé non riesco ad avere una visione di insieme perché è la prima volta che mi trovo davanti all’oceano ma è senza dubbio impressionante.

– Beh imparerai a conoscere l’oceano col mio aiuto e vedrai che ho ragione:

dietro questa massa d’acqua c’è proprio un gran lavoro.

– Ok, ma qual è la differenza tra questo è il mare?

– Hai detto che non hai mai visto il mare?

– Mai 

– Ma ne hai sentito parlare?

– Sì ma non ricordo bene, in modo confuso

– Bene, il mare è una enorme distesa di fango marrone, ha acqua salmastra e non ha vita al suo interno. 

Le acque sono torbide e se provi a bagnarti vai incontro a morte certa.

 

– Davvero?!

– Davvero.

– Io però avevo capito che il mare era bello e faceva pure bene, ti dirò che dalle descrizioni me lo immaginavo anche un po’ come questo oceano…

– Ti hanno ingannato! 

Venditori di fumo. 

La verità l’hai davanti ai tuoi occhi: questo è l’oceano e l’ho fatto io. 

Il mare è un abbaglio per allocchi e tu stai cadendo nella trappola di chi ti vuole ignorante.

– Povero me 

– Sí povero te, ma ci sono qua io e c’è l’oceano. 

Vuoi fare un bagno?

– Posso?

– Ma certo.

– Come è bello e come fa star bene, mi sento leggero e posso fare cose che non ho mai fatto.

– Vero, ma devi stare attento; ci sono delle regole per nuotare ed io te le insegnerò.

– Come fai a conoscere queste regole?

– Le ho create io quando ho creato l’oceano.

– Sono stato proprio fortunato a conoscerti 

– Puoi dirlo forte.

E ora lascia che ti racconti con la mia voce la verità… Bada però: non avrai anche tu intenzione di creare l’oceano?

– No, in verità… E poi mi è parso di capire che l’hai inventato tu…

– Proprio così infatti…

E ora siediti qui senza muoverti e ascolta la mia verità.

—–

Racconto fantatico ispirato a chi vuol far credere di aver inventato l’Oceano e vuol metterci paura del mare.




Guardando il Vajont

La brama di denaro compra l’intelletto dei vanesi a scapito della vita degli innocenti.

Guardiamoci da noi stessi quando accettiamo condizioni che comprano la nostra anima perché le nostre coscienze dovranno sostenere il prezzo che innocenti fiduciosi hanno pagato.
Badiamo bene a ciò che siamo perché se cederemo, non saranno loro gli scemi creduloni ma noi i colpevoli predatori sanguinari.

Diga del Vajont
9 ottobre 1963
Disastro causato dalla cupidigia umana.




Cantone lascia: è lutto per lo Stato.

Lo aveva detto chiaramente “gli onesti non fanno carriera nella pubblica amministrazione”, ed anche se tutti si erano chiesti come mai lui allora era arrivato lì, oggi Raffaele Cantone ha dimostrato di essere persona coerente.

Lascia la guida dell’ANAC per tornare in magistratura ” la mia vera casa” come lui stesso la definisce.

Lo Stato ha riguadagnato un bravo magistrato, ma di certo quest’abbandono non è un significato positivo, specie quando si parla di strutture che hanno un potere di controllo sull’operato della pubblica amministrazione.

Ci sono in ogni caso delle domande da porsi:

ma se c’è una legge a che serve l’autorità? ed ammesso che serva allora ha ragione Cantone nel suo discorso chiaro in cui sostiene che le attività dell’autorità non possono essere uguali ad una tavola delle leggi scritta sulla pietra, deve essere un organismo fluido e dinamico che si adatta al mutevole e veloce cambiamento di mercato.

Cosa che sicuramente non può piacere al potere politico.

Chi ha vissuto nel piccolo quello che Cantone avrà sicuramente visto nel grande non si meraviglia di quest’abbandono, più o meno giusto, di certo lineare, il potere non può essere affiancato da organismi che sono in grado di analizzare giorno per giorno ciò che accade ed intervenire, in più con un potere esecutivo per farlo.

Chi scrive ha visto uffici di ispettori chiusi dall’oggi al domani solo perché avevano esclamato “il re è nudo”.

Certo allora nessun clamore, nessuna meraviglia, anzi quasi la soddisfazione perché quegli ispettori erano troppo sceriffi e facevano troppe ispezioni…

Il caso Cantone, certamente più eclatante e di una magnitudo assolutamente più ampia, ci lascia però comunque l’amaro in bocca, nulla cambia in questo paese.

Ora si scatenerà la polemica Cantone bravo, Cantone  cattivo, governo giusto, governo ladro, opposizione colpevole opposizione innocente, Mio Dio, che assurdità, paese lobotomizzato da se stesso.

Ci vengono in mente parole sempre attuali:

Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cantone, non a lodarlo.

Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cantone.

Il nobile Governo v’ha detto che Cantone era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cantone ne ha pagato il fio.

Qui, col permesso del Governo e degli altri – ché il Governo è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cantone.

Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma il Governo dice che fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cantone? Quando i poveri hanno pianto, Cantone ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e il Governo è uomo d’onore.

Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione?

Eppure il Governo dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, il Governo è uomo d’onore.

Non parlo, no, per smentire ciò che il Governo disse, ma qui io sono per dire ciò che io so.

Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione.

Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cantone e debbo tacere sinché non ritorni a me

La nostra convinzione è che il gesto eclatante di Cantone, pur facendogli onore, a nulla serva.

In Italia, dopo un mesetto di polemica e di sciacquio dei panni, si tornerà come prima.

La riflessione profonda che si dovrebbe introdurre è legata al meccanismo con cui lo stato ricopre ruoli chiave e ne determina i comportamenti.

Non siamo in grado di dare un profilo etico o forse chi ha questo profilo “… non fa carriera nella pubblica amministrazione…” ma è ora di cambiare, e come si cambia? solo dando l’idea dello Stato, di comunità, di unità di intenti e di obiettivi.

Oggi mancano i Simboli, e se ci sono vengono usati strumentalmente (vedi i crocifissi), perché tendiamo a dare un significato alle figure individuali, siamo nel mezzo di un mondo individuale, carico di avatar inutili di noi stessi, di profili social che spesso per nulla rappresentano  la realtà dietro la maschera.

L’amore per il proprio paese si coltiva, non nasce spontaneo come un fungo, è un processo che inizia fin da piccoli, quando si incomincia a vedere la bandiera tricolore e ci viene da cantare l’inno nazionale.

Il luogo in cui nasce quest’amore è la famiglia, la scuola, ma se lo Stato opera per distruggere la famiglia e la scuola come possono questi due incubatori diffondere l’amore per il proprio carnefice?

Occorre cambiare, servono persone intelligenti che capiscano che lo stato deve amare per essere amato, non è difficile …

Incominciamo ad aiutare i genitori, i docenti, i dirigenti, il personale della scuola, facciamo in modo che ci sia lavoro, stipendi dignitosi per tutti, smettiamola di dare i soldi a chi non crea amore per lo stato, non è difficile …

Proviamo a fare uno sforzo e pensiamo a Cesare, cosa ci viene in mente? Roma, il diritto romano, la grandezza dell’Italica gente, l’onore, la forza, insomma tutti valori positivi.

Adesso pensiamo ad oggi e proviamo a pensare a qualche nome come Cesare, dunque, ecco, ci sarebbe, spetta, come si chiamava???, ma si l’ho qui sulla punta della lingua, ecco, ecco, aspetta, ummm …

 

 

 

 

 

 

Corrado Faletti

Direttore




Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora

(…) Aspetterò la notte, se potrò vivere ancora, per andarmene un po’ a piedi sulla strada maestra che attraversa il nostro villaggio, avvolto nella mia dorata solitudine, allo scopo di capire perchè devo morire.(…)

“Pilota di guerra”- Antoine de Saint-Exupéry

Anna ha soltanto otto anni ed è una bambina molto bella, il suo corpo è esile, il viso ha lineamenti delicati, i capelli neri sono raccolti in lunghe trecce.

Quella mattina di primavera Anna non sta giocando con le amiche, i suoi genitori non hanno voluto che si allontanasse da casa, eppure sembrava una domenica come tante altre.

Nell’atteggiamento degli adulti traspare tuttavia un pò di nervosismo, parlano con tono grave e preoccupato, talvolta alzano lo sguardo al cielo voltandosi in direzione di Palermo, dalle colline la città appare nel suo lungo dispiegarsi di abitazioni fino al mare.

Improvvisamente tutto cambia: dapprima il prolungato avvertimento delle sirene antiaeree, seguito dal rumore assordante dell’incursione aerea e immediatamente dopo da quello terribile delle bombe, innumerevoli bombe, per un tempo che sembra non finire mai. Scappano tutti disordinatamente, si barricano impauriti dentro casa, le donne pregano sommessamente mentre gli uomini lo fanno in silenzio. 

Anna trema, abbracciata alla mamma tiene gli occhi chiusi, si tappa le orecchie con le mani nel tentativo di non sentire quello che accade fuori ma le esplosioni delle bombe, seppur distanti, fanno ugualmente paura. 

E’ il mese di maggio del 1943 e le truppe alleate stanno decidendo le sorti della Seconda guerra mondiale: sbarcate in Africa hanno postazioni in Marocco e in Algeria, per cui la Sicilia ed il porto di Palermo assumono un’importanza primaria ai fini strategici. 

Al comando della VII Armata vi è il generale George Smith Patton, figura fondamentale nella campagna di Sicilia che decide di sferrare sulla città l’attacco aereo finale, dopo quelli devastanti cominciati a febbraio e proseguiti in maniera sistematica fino ad aprile. 

Tra le tante sarà ricordata a lungo l’incursione aerea del 22 marzo quando alle 15,35 i bombardieri americani attaccarono il porto, fu l’ultima incursione di quel mese ma per le devastazioni subite rimase a lungo nella memoria di chi vi assistette: l’attacco vide impiegati nella missione 24 bombardieri di stanza in Algeria carichi di bombe da 500 libbre, ovvero 227 Kg di tritolo. Tutto ciò che era presente in quella zona per un’area di 13 ettari fu distrutto, dalle navi ai magazzini. La nave Volta, ovvero la santabarbara, era carica di munizioni ed esplose provocando una colonna di fumo alta 4.500 metri. Il fuso di una delle sue ancore verrà proiettato ad 800 metri di distanza finendo nel luogo dove si trova,oggi come allora, la Banca d’Italia. L’acqua sollevata dall’esplosione allagherà anche un rifugio antiaereo sito sul molo per i 24 operai portuali, che proprio li avevano sperato di trovare protezione, non vi sarà scampo.

Toccherà la stessa sorte anche agli sventurati che il 17 del mese di aprile durante l’ennesima incursione dal cielo avevano cercato scampo nel riparo aereo dietro la Cattedrale, a piazza Sett’Angeli: una delle bombe infatti riesce a penetrare nel rifugio uccidendo tutti coloro che vi si trovavano, in gran parte donne e bambini. Il numero ufficiale delle vittime di quel giorno è di trenta persone e data la difficoltà di recupero dei corpi ben presto tutto verrà ricoperto da un manto di cemento che fa ancora oggi fa sudario.

E se i numeri spesso aiutano a focalizzare meglio un concetto si pensi che nel solo mese di aprile verranno sganciate su Palermo ben 484 tonnellate di bombe.

A maggio si cambia drammaticamente strategia, l’operazione militare pianificata per quel mese è diversa dalle precedenti sia per dinamica sia per potenza, si decide infatti di sferrare sulla città un “bombardamento di saturazione” conosciuto meglio come “bombardamento a tappeto”.

 Questa micidiale tecnica doveva avere tra l’altro lo scopo non solo di terrorizzare la popolazione, creare panico e distruzione totale, ma di fiaccare il morale dei civili colpendoli anche nei luoghi simbolo della propria identità culturale e religiosa quali i monumenti e le chiese. In ultimo si sperava così di spingere la popolazione a  ribellarsi e fare pressione sul governo per la resa; il capoluogo siciliano ha questo triste primato, fu proprio Palermo la  prima città in Italia a sperimentare tutto questo.

È la mattina del 9 maggio e il comando americano decide che Palermo deve cadere: l’Apocalisse può avere inizio. 

Quella giornata Radio Londra aveva invitato la popolazione a disertare una cerimonia pubblica che era stata organizzata dalle autorità nell’attuale piazza Bologni, all’epoca piazza Italo Balbo. Si trattava di una ricorrenza particolare che non era di certo sfuggita agli americani, e cioè la “Giornata  dell’Esercito e dell’Impero”,  la scelta del 9 maggio per l’incursione aerea quindi non è certamente casuale, inoltre lo stesso giorno si sarebbe consegnata alla città una medaglia al valore di città mutilata dai bombardamenti.

L’attacco aereo arriva dall’Algeria da dove partono i caccia bimotore P38 a bassissima quota così da eludere i radar e la contraerea nemica, evitano di passare da Capo Zafferano scegliendo invece i cieli di Termini Imerese. Si dirigono quindi sull’aeroporto militare di Boccadifalco distruggendo in breve gli aerei in sosta sulla pista impedendo di conseguenza qualsiasi tentativo di reazione e di difesa aerea, sono soltanto le 11 del mattino. 

Alle 12,35  il cielo sulla città si oscura, l’urlo cupo e lamentoso di allarme delle sirene non ha tregua, sono arrivati i bombardieri americani B17 le cosiddette “Fortezze volanti” armati di bombe da 500 libbre. La prima formazione vede 222 bombardieri scortati da 118 caccia pesanti P38, è solo la prima di ben dodici ondate di incursioni, per contrastare l’attacco ben poco può la pur temibile contraerea dell’Asse poiché i bombardieri volano troppo in alto.

Alle 13,15 l’operazione è terminata, finite le bombe vengono lanciati sulla città 15.000 volantini che invitavano i palermitani a chiedere la resa dopo che su Palermo in soli 40 minuti erano state sganciate 1.570 bombe di vario calibro per un totale di 469 tonnellate di tritolo.

La stessa notte, a partire dalle 23,00 e fino alla mezzanotte, è la volta dei bimotori Wellington della RAF che finiranno il “lavoro” con ben 74 bombe e come se non bastasse verranno sganciate anche le Blockbuster, cosiddette “spianaquartieri”, bombe HC (High capacity) ovvero due ordigni da 4000 libbre (1.814 Kg) di potenza devastante. 

Ufficialmente il triste bilancio delle vittime tra i civili di quel 9 maggio 1943  sarà di 373 morti e di 421 feriti, un numero che forse può non sembrare proporzionato rispetto alla potenza di fuoco, ma bisogna tenere conto che dall’inizio dei bombardamenti la città si era lentamente svuotata dagli abitanti che avevano trovato riparo ed alloggi provvisori nei paesi limitrofi.

Per quanto riguarda il tessuto urbano nulla è stato risparmiato: abitazioni civili, caserme ma anche chiese, palazzi nobiliari ed antichi, monumenti per non parlare dei diversi  rifugi antiaerei, colpiti e distrutti, in cui trovarono la morte circa un centinaio di palermitani, e come se non bastasse i vigili del fuoco stentano a spegnere gli incendi probabilmente per l’uso di bombe incendiarie al fosforo.

Il colpo di teatro.

Il bombardamento di quel giorno su Palermo è stato definito un “colpo di teatro”, forse più che una reale esigenza dal punto di vista tattico militare questa mossa appagava il desiderio di conquista da parte degli americani della città più importante e grande dell’isola.

L’alba del giorno dopo quel 9 maggio restituisce ai palermitani una città tremendamente devastata, il centro storico con i suoi 250 ettari di estensione è quasi irriconoscibile, macerie e morti dappertutto. Il 42,3% della città secondo fonti della Prefettura è andato distrutto, centodiciannove monumenti compromessi per non parlare delle abitazioni civili, ben 60.000 persone nel solo centro storico non hanno più una casa.

 Per avere un’idea si pensi che successivamente per sgomberare la città dalle macerie  si decise di riversarle lungo il tratto di mare che la  delimita a nord ricoprendo così un’area di oltre 40.000 metri quadrati di detriti, quel tratto di città chiamato Foro Italico è divenuto oggi luogo di passeggiate e sport all’aperto.

Il 22 luglio fanno il loro ingresso a Palermo gli americani tra ali di folla festante ed incuriosita, ma le bombe non cesseranno di funestare la città e stavolta saranno quelle della Luftwaffe e della Regia aeronautica, facendo della città il bersaglio di buona parte delle forze aeronautiche impegnate nel conflitto per un totale, dall’inizio delle ostilità, di ben settanta bombardamenti.

A guerra finita nella sola Palermo tra i civili si contavano 30.000 feriti e 2.123 morti. 

Sono questi i numeri di una tragedia dalle proporzioni bibliche che non risparmiò nessuno tra uomini e donne, vecchi e bambini, vittime senza colpa se non quella di trovarsi nel posto sbagliato quando l’Europa sembrava impazzita. 

 Anna non ha mai lasciato il posto in cui è nata, non si è mai sposata ma ha avuto una famiglia che le ha voluto bene, di cui  ha sempre fatto parte integrante ed un nipote su cui riversare, ricambiata, tutto l’affetto di cui è stata capace.

 Si svolge nei primi giorni di maggio la festa religiosa più importante di quel paese che come da tradizione si conclude a notte inoltrata con lo spettacolo dei  fuochi d’artificio.

A casa di Anna assistervi dal terrazzo era una tradizione che si ripeteva ogni anno: uno spettacolo affascinante, rumoroso e suggestivo, un susseguirsi di scoppi e di boati che generavano nel cielo notturno geometrie di luci di incredibile bellezza e più aumentava il fragore più il cielo si rischiarava con colori luminosi. Tante e continue esplosioni assordanti e  tutti con il naso in su a riempirsi gli occhi di quella meraviglia. 

Ma ad ogni festa tutti gli anni in quella terrazza mancava una persona, sempre la stessa, che invece preferiva rimanere in casa.

 Quando iniziavano a sparare i fuochi, puntualmente, Anna veniva cercata dal nipote che voleva non si perdesse lo spettacolo di luci e colori, lei a quel punto della serata era sempre dentro casa e malgrado i ripetuti inviti dolcemente diceva che  avrebbe raggiunto tutti a breve, che stava per farlo, ma non era vero e non accadeva mai.

 Anna rimaneva da sola seduta in un angolo, i capelli candidi, col fare di una bimba che se ne sta in disparte come fosse in castigo, con gli occhi chiusi e le dita affusolate delle sue mani a coprire le orecchie. 

Aspettava così che la festa dei botti e dei fuochi finisse, composta e in un certo senso rassegnata, se ne stava immobile ed in silenzio immersa nei suoi ricordi, sul volto l’accenno di un malinconico sorriso. 

 




Falcone e Borsellino sempre due di Noi.

Lu 23 di maggio lu cielu da Sicilia s’ oscurau

A Capaci a terra tutta trimau

Li petri di la strata sataru e si rumperu

Falcone, la mugghieri e la scorta mureru

È questa una strofa, scritta da un mio professore, che oggi 23 maggio 2019 a ventisette anni dalla strage di Capaci io, Santi Di Leonardo, studente di anni 14, devo raccontare davanti ad una folla di gente scesa in piazza per celebrarti.

Devo raccontare di te Giovanni, di tua moglie Francesca Morvillo e degli “angeli” della scorta che in un pomeriggio di primavera siete stati traditi da quella Palermo che tanto hai amato e in cui tanto hai creduto.

Ma purtroppo qualcuno ti tradì Giovanni, e mentre passavi da Capaci per raggiungere Palermo, quel maledetto ordigno vi tolse la vita. Sono cresciuto con la convinzione che quell’ immagine di te e del tuo amico Paolo Borsellino che appare su un palazzo di Palermo, fosse destinata a diventare il simbolo della lotta contro la mafia.

Conosco il tuo operato attraverso la testimonianza di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerti.

Tutti ti rimpiangono, dalle più alte autorità al più semplice dei cittadini.

Allora ancora oggi mi chiedo, chi ti ha tradito? Perché non si trovano ancora i nomi dei veri mandanti? Giovanni ti chiedo scusa se mi rivolgo a te dandoti del tu, considerando la tua personalità e il tuo ruolo di magistrato, ma mi sento molto vicino alle tue idee di giustizia, al tuo estremo coraggio e alla tua incontestabile onestà.

È questa la tua vittoria caro magistrato, che nessuna bomba potrà mai distruggere: le nuove generazioni ti ammirano, sei un esempio per tutti noi, lo dimostrano le partecipazioni dei giovani in ogni parte dell’Italia che in tutta Italia si radunano per celebrare te, tua moglie e tutta la scorta.

Parte da Genova alla volta di Palermo la nave della legalità per manifestare che noi tutti non ti dimentichiamo.

Noi giovani, oggi 23 maggio, urliamo a gran voce chi sono i nostri eroi: tu Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, il Generale Dalla Chiesa, Boris Giuliano e tutti gli altri che hanno dato la loro vita per riscattare la nostra amatissima Sicilia da coloro che per troppo tempo l’hanno tenuta in scacco, macchiando il nome della nostra splendida terra e di noi tutti che in essa viviamo.

Giovanni il cambiamento come dicevi tu deve iniziare dal modo di pensare, e quest’oggi io non posso che applaudire tutti gli agenti della scorta che con estremo coraggio a te sono rimasti fedeli fino alla fine: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, la tua fedele compagna di vita Francesca Morvillo che accanto a te quel giorno sedeva ignara della sorte a cui andavate in contro, o forse lo sapeva ma mail la sua mano ha smesso di stringere la tua. Io vi immagino così: mano nella mano oltre tutto, per l’eternità.

Santi Emiliano Karol Di Leonardo




L’isola che non c’è e la maledizione di Kronos

LA SICILIA SENZA FUTURO

“Si narra che il più giovane dei Titani, Kronos dio del tempo, invidioso che gli abitanti della Sicilia vivessero in una terra così bella scagliò contro gli isolani una maledizione privandoli del futuro e condannandoli a vivere in un’eterno presente”. Questo è quello che si racconta.

 Sembrerebbe una di quelle affascinanti storie legate alla mitologia greca se non fosse per il fatto che è completamente inventata, non ci è stata tramandato infatti nessun racconto riguardo l’invidia di Kronos per i siciliani, da nessuna parte si parla di questa maledizione è tutto inventato di sana pianta per puro diletto, ma mi piace pensare che sarebbe potuto essere.

 Fatto sta però che, dei e incantesimi a parte, il futuro ai siciliani manca davvero ed è quello della loro lingua, o dialetto che dir si voglia, se ci si riflette un attimo, ci si accorge infatti che se un siciliano deve declinare un verbo al futuro gli è impossibile perché nella lingua siciliana non esiste il tempo del futuro.

 Un esempio? Se bisogna dire “domani andrò a mare” in siciliano diventerà “devo andare” o “domani vado” e quindi “dumani vaiu a mari”, se devo dire “domani verrò” dirò domani vengo “dumani vegnu” in questo modo il verbo è sempre al presente preceduto da un avverbio che invece indica il tempo.

 In una ormai famosa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia alla giornalista francese Marcelle Padovani e divenuta un libro dal titolo “La Sicilia come metafora” il grande intellettuale diceva con amarezza: “ E come volete non essere pessimista in una terra dove non esiste il tempo futuro?” ed il  futuro a cui si riferiva Sciascia era in questo caso proprio quello della “lingua” siciliana.

È questa una singolarità del siciliano parlato, un’anomalia che da sempre ha affascinato linguisti ed intellettuali sembra insomma che la parola futuro noi siciliani non riusciamo neanche a pronunciarla.

È come se fossimo  prigionieri  di un sortilegio che ci fa vivere in un’eterno presente, in una dimensione temporale che non contempla altro che l’oggi.

Come spiegare tutto ciò?

 Il filosofo Manlio Sgalambro asserisce che ogni isolano non avrebbe voluto nascere, l’essenza della Sicilia è spiegata per lui con la volontà di sparire. Ma congetture filosofiche a parte è veramente così?

 È innegabile che questo lembo di terra posto quasi al centro del Mediterraneo, tra Oriente ed Occidente, questa testa di ponte tra l’Africa e l’Europa partecipi in maniera rilevante alla bellezza paesaggistica e monumentale di questa parte di pianeta.

 È stato scritto che “il bello è lo splendore del vero” e basta guardarsi in giro dove tutto ciò viene espresso nella magnificenza dei monumenti barocchi, nella fantasia e nell’abbondanza dell’arte culinaria, in un paesaggio mai scontato che passa da una montagna che sputa fuoco da millenni a dorate distese di grano, da foreste rigogliose a spiagge dove il mare ha i colori di un sogno.

 Ma dietro questa immagine di una bellezza patinata e le parole suadenti da ufficio promozione del turismo traspare nei fatti e nella storia comunque  un malessere che fa dei siciliani personaggi tendenti quasi all’autodistruzione, un caso patologico di quelli da manuale.

L’intera Sicilia è una dimensione fantastica in cui è impossibile viverci senza immaginazione diceva ancora una volta Sciascia che di questa terra e dei suoi abitanti è stato un mentore arguto ed appassionato.

Già come si fa a viverci?

Lo sanno bene le civiltà che si sono succedute nei secoli che qui vivevano ed anche bene che però al futuro pensavano eccome, lasciando testimonianze che rappresentano il meglio di quanto fossero capaci, monumenti che sembrano sfidare l’eternità.

Civiltà e culture esterne hanno prodotto in quest’isola quello che neanche nei loro luoghi di provenienza hanno potuto osare immaginare, quasi fosse un’obbligo nei confronti di  una terra di conquista ma dalla quale sono stati inesorabilmente ammaliati e conquistati.

 Ma allora per pensare al futuro, per uscire fuori da questo loop temporale bisogna non nascere in Sicilia?

È questo l’unico modo per annullare la “maledizione” che non ci fa vedere oltre il presente?

La diffidenza verso quello che sarà o potrebbe essere è forse banalmente la paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce e che potrebbe divenire peggio di quello a cui ci si è già abituati.

Avvezzi a spaccare i capelli in quattro” faceva dire Tomasi di Lampedusa a  Don Fabrizio nel  Gattopardo parlando del rapporto tra i siciliani e i governanti di  turno “Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai vicerè spagnoli. Adesso la piega è presa , siamo fatti così”.

Ma il futuro non ci è stato negato da un Titano invidioso ma da qualcuno potente anch’egli, una serie di qualcuno meglio dire, che ha deciso con lucidità e cinismo che se si risolvono i problemi e le esigenze di un popolo quello stesso popolo non sarà più ricattabile ed allora conviene tenerlo perennemente sotto scacco ad ogno costo, il do ut des qui è diventata legge.

Il problema è non fare diventare legge la rassegnazione.

Prendo in prestito ancora una volta le parole del principe di Salina al piemontese Chevalley che invitava il principe a diventare senatore per contribuire a sanare quelle che già allora erano le tante piaghe, i tanti desideri da esaudire: “ I siciliani credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria” rispondeva Don Fabrizio. Un’analisi impietosa del carattere di un popolo ma troppo letteraria, non perfettamente corrispondente alla realtà che in questo caso è sempre molto più complessa di un romanzo se pure un capolavoro.

Lo sforzo dovrebbe a mio avviso essere quello di uscire fuori dalla cornice di un ritratto che in parte ci appartiene pure ma che non è detto sia quello definitivo. L’atteggiamento di diffidenza nei confronti della vita spesso ce lo si legge in faccia come se si fosse usciti fuori da un quadro di Antonello da Messina, da uno dei suoi celebri ritratti, ma quelli sono capolavori noi molto più semplicemente gente di passaggio.

Si parla sempre di riscatto dei siciliani come se fossimo nati col peccato originale di esserlo. Quelli che continuamente vengono chiamati i mali della Sicilia e che a tutti sono ben noti sono gli stessi che ci tengono prigionieri di un cliché ormai parte di un immaginario planetario duro a morire.

La parola d’ordine per chi finisce gli studi è andare via, qui non c’è nulla, nessuna prospettiva, nessuna speranza lavorativa e già da tempo l’Italia stessa è diventata stretta per chi vuole crearsi un’avvenire.

Crisi economiche, bolle finanziarie, banche che falliscono, corruzione….che se mettono in ginocchio una nazione, un’intero continenete figurarsi cosa possono provocare ad una  regione a rischio fallimento.

Cosa fare? Ah saperlo!

Per chi ha una fede ed è credente pregare, per gli altri lo stesso non si può mai sapere, vuoi vedere che…

Più seriamente penso si potrebbe  ricominciare e partire da una parola, una semplice parola dal significato bellissimo: “etica”. L’applicazione della morale nella vita di tutti i giorni, quella propensione a fare il bene senza essere dei santi, a preoccuparsi per gli altri senza essere madre Teresa di Calcutta, fare quello che si deve fare e magari farlo pure bene ed in ultimo ritornare ad indignarsi cosa alla quale sembriamo ormai anestetizzati.

Tutto ciò non è la soluzione a tutto ma potrebbe diventare l’inizio di un cambiamento, perché no?

Ed allora come nei versi di una famosa canzone degli anni 80: ”Seconda stella a destra…e poi dritto fino al mattino” alla ricerca di un’isola senza santi ne eroi,  senza ladri e guerre…insomma l’isola che non c’è!

Siamo la città più europea dell’Africa come dice qualcuno parlando di Palermo, già la Sicilia è la Svizzera africana che messa così non è poi tanto male, in questo caso basta sapersi accontentare.

 

Sandro Mammina




1937 1945: Buchenwald e la memoria.

Era l’11 aprile 1945 quando gli americani arrivarono nel campo di concentramento di Buchenwald.

Parecchi non sanno la storia di questa funesta distesa e dei drammi che si consumarono al suo interno, tra l’impassibilità di coloro che pur capendo si stringevano in un dedito silenzio.

Il Campo di concentramento di Buchenwald, istituito nel luglio del 1937, fu uno fra più grandi campi della Germania nazista.

Era il 16 luglio del 1937 quando un commando di circa 300 deportati, elevò, con attrezzi arcaici e limitati, le prime baracche del campo di Buchenwald, ricavando il legname dalla foresta di Ettersberg, foresta, che fu a suo tempo prediletta da Goethe».

(Le SS lasciarono in piedi L’albero di Goethe sotto il quale il grande poeta amava stare per scrivere le sue opere, all’interno di Buchenwald).

Questo campo, eretto da mezzi primitivi, giunse a contenere un numero pari a 238.980 anime, esso fu uno tra i lager dove si eseguì principalmente lo sterminio tramite il lavoro.

Alcune fonti rimandano ad un numero complessivo di 43.045 vittime, secondo altre fonti furono invece 56.554 secondo altre, tra essi 11.000 erano ebrei. Poco importa oggi trovare l’esatta cifra da inserire negli annuali più tristi della storia, il massacro andava fermato non conteggiato.

Il campo fu dapprima istituito come luogo di prigione cautelativa e di punizione per oppositori politici del regime nazista, criminali comuni, testimoni di Geova, tre categorie di prigionieri tedeschi.  

Se nel luglio del 1937 al suo interno si contavano 149 persone, alla fine di quello stesso anno il numero crebbe in modo sproporzionato fino a raggiungere 2.651 vite limitate tra i fili spinati di quel campo. Per le cifre che doveva contenere non poteva che essere eretto in un luogo isolato, al di fuori da sguardi indiscreti.  

Agli oppositori politici, ai criminali recidivi, ai cosiddetti “asociali”, e ai testimoni di Geova, si aggiunsero il 23 settembre 1938, prima 2.200 ebrei, deportati dall’Austria, e, immediatamente dopo la Notte dei cristalli, Kristallnacht, altri 10.000 che «furono sottoposti ad un terrore brutale», e costretti a lavorare fino a 15 ore al giorno. Al momento della liberazione il 95% degli internati non erano tedeschi.

Pur non essendo stato concepito come luogo di sterminio organizzato, vi ebbero luogo uccisioni in massa di prigionieri di guerra e molti internati morirono in seguito ad esperimenti medici ed abusi delle SS. Le impiccagioni e le fucilazioni susseguivano, e venivano comminate senza alcun processo anche per futili infrazioni alle rigide regole di vita nel campo. Buchenwald faceva parte integrante del progetto di sterminio di massa tramite il lavoro-denutrizione organizzato dal regime nazista.

A gennaio del 1945 con l’avanzata dell’Armata Rossa, il lager divenne l’ultima stazione dei trasporti per l’evacuazione dei campi di Auschwitz e Gross-Rosen. Le marce della morte che condussero a Buchenwald portarono migliaia di prigionieri, tanto che la popolazione degli internati contò in quel periodo ben 86.000 persone, una parte delle quali visse in «condizioni terribili» in una tendopoli.

Poco prima della liberazione, ad aprile 1945, le SS cercarono di sgomberare frettolosamente il campo.

Si calcola che, mandati a marciare verso mete incerte fino allo sfinimento, circa 15.000 – 25.000 morirono nella “evacuazione”.

Circa 21.000 prigionieri riuscirono però a non “mettersi in marcia” e a rimanere nel campo, grazie al rallentamento dell’evacuazione organizzato da alcuni resistenti.

Era l’11 aprile del 1945 quando il campo veniva liberato al suo interno si contarono 16.000 internati, 4.000 erano ebrei e circa 1000 bambini.

Molte cifre numeriche sono state inserite in questo articolo e non è un caso, il mio intento era quello di dare attraverso quelle cifre un’idea dell’orrore che quotidianamente ed inarrestabilmente in quegli anni avveniva. 

L’olocausto è una delle pagine dell’Umanità da cui ma si deve togliere il segnalibro della memoria.

 




Fascismo: fu vera gloria? ai posteri onesti l’ardua sentenza…

Mi scusi Egregio Signor Presidente, ma da Lei proprio non me lo aspettavo…

Esistono i fatti e le opinioni, ma non le invenzioni dei primi o la strumentalizzazione delle seconde, tanto più che siamo in piena campagna elettorale e Lei, Egregio Signor Presidente dovrebbe mantenersi super partes, in nome dell’imparzialità (ahahahah da morir dal ridere N.d.R.) del suo incarico presidenziale…

Durante le celebrazioni al Quirinale per la Giornata della memoria 2018, Ella sul ventennio Fascista ha affermato: “Sorprende sentir dire, ancora oggi, che il fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione”.

Caro Mattarella, Lei sostiene dunque che è un errore affermare che il Fascismo ebbe alcuni meriti, ma io non sono d’accordo, o meglio preferisco sbagliare che vaneggiare…

E voglio sbagliare, in nome della storia, andando a consultare i testi non solo scolastici, ma soprattutto riprendendo i fatti realmente accaduti, così come ha fatto l’illustre Alessandro prof. dott. Tamborini, da cui recupero informazioni significative, ricostruendo in modo impeccabile i fatti veri che oggi sono sparsi nei libri di storia ma mai messi in ordine perché non è interesse di una certa parte raccontare la verità.

Mi permetta anzitutto di proporLe, giusto per rispolverare la memoria Sua e dei nostri lettori, un parziale elenco delle opere fatte in un periodo in cui l’italia era considerata più di oggi.

Accerterà così che è stato fatto più in vent’anni di Fascismo che in settantanni di democrazia.

I meriti del fascismo non sono un’invenzione di qualche nostalgico, ma un dato ormai acquisito nella storiografia e nella coscienza comune, dopo lunghi decenni di rimozioni e demonizzazioni.

Prima di tutto, c’è una bella differenza tra regimi totalitari, come comunismo e nazismo, ed il regime autoritario, con il consenso del popolo, quale fu il Fascismo.

Inoltre, i milioni di esseri umani uccisi nel secolo scorso per mano del comunismo rappresentano lo stesso crimine contro l’umanità a pari merito dell’olocausto.

Sarebbe stato giusto, signor presidente, ricordare anche questo nella giornata della memoria, proprio per essere corretti ed imparziali così come il suo ruolo Le impone.

Basti pensare allo sterminio degli Armeni (1894 e 1915-16) ed a quello dei cinque milioni di contadini ucraini (1932-33) oppure ai quasi due milioni di morti in Cambogia (1975-79) per mano dei Khmer Rossi…

Ritornando al Ventennio, desidero ricordare che le Leggi razziali non erano nel Dna della dottrina fascista, come attesta il gran numero di ebrei che aderirono al fascismo fin dall’inizio.

L’ebraismo italiano era “profondamente integrato nella società plasmata dal regime fascista!” Gli ebrei fascisti non erano un corpo estraneo allo stato e i suoi più alti esponenti proclamavano “l’assoluta fedeltà degli israeliti al fascismo e al suo duce”.

Renzo De Felice, sul suo “Storia degli ebrei italiani”, scrive che gli ebrei furono fondatori, per esempio, dei fasci di combattimento di Milano, ebbero parte attiva nelle squadre di Italo Balbo e furono fra i protagonisti della “marcia su Roma”.

E’ noto che i provvedimenti a favore degli ebrei nel 1930, perfezionati nel 1931, risultarono tanto graditi alla comunità ebraica italiana che i rabbini innalzarono preghiere di ringraziamento nelle sinagoghe. E’ anche noto l’attacco lanciato dal Duce, contro le teorie nazionalsocialiste.

Riguardo alla natura del suo potere, il suo carattere dittatoriale è indubitabile ed è chiaro a partire dalla soppressione delle libertà nel 1925.

Il fascismo però non fu, nella fase del largo consenso (cioè almeno fino alla guerra di Etiopia e all’emanazione delle leggi razziali) un totalitarismo, come giustamente individuato da Hannah Arendt.

Ciò sia per motivi interni, avendo il fascismo nel suo seno anime diverse e differenti che trovavano nel Duce solo un’unità simbolica; sia per motivi esterni, cioè la forza temperante comunque esercitata dalla Chiesa Cattolica e dalla stessa Monarchia.

Quindi, lungi dal voler disconoscere la gravità di ciò che portò alle leggi razziali ed all’evento bellico, insisto nel riconoscere il valore di tutto ciò che di buono è stato all’epoca realizzato.

 Giusto per non dimenticare, le principali opere sociali e sanitarie realizzate durante il fascismo sono l’assicurazione sull’invalidità e vecchiaia, R.D. 30 dicembre 1923, n. 3184, quella contro la disoccupazione, R.D. 30 dicembre 1926 e l’assistenza ospedaliera ai poveri R.D. 30 dicembre 1923 n. 2841.

Con Mussolini nasce la tutela del lavoratore e la difesa dei diritti di donne e fanciulli R.D 26 aprile 1923 n. 653, l’Opera nazionale maternità ed infanzia (O.N.M.I.) R.D. 10 dicembre 1925 n. 2277, l’esenzione tributaria per le famiglie numerose R.D. 14 maggio 1928 n. 1312 e l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali, R.D. 13 maggio 1928 n. 928.

Nasce l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), R.D. 4 ottobre 1935 n. 182713 mentre l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), è già in vita da più di due anni…R.D. 23 marzo 1933, n. 264.

La settimana lavorativa diventa di 40 ore, R.D. 29 maggio 1937 n.1768, e nasce il sindacalismo integrale con l’unione delle rappresentanze sindacali dei datori di lavoro (Confindustria e Confagricoltura); 1923.

Sempre sotto il fascismo, vengono istituiti gli Assegni familiari, R.D. 17 giugno 1937, n. 1048, nascono le Case Popolari e si attua la Riforma della scuola “Gentile” del maggio 1923 (l’ultima era del 1859)!!!

Fiorisce l’Opera Nazionale Dopolavoro (nel 1935  essa dispone di 771 cinema, 1227 teatri, 2066 filodrammatiche, 2130 orchestre, 3787 bande, 1032 associazioni professionali e culturali, 6427 biblioteche, 994 scuole corali, 11159 sezioni sportive, 4427 di sport agonistico.)

Ma forse è la lotta contro l’analfabetismo uno dei migliori interventi del Duce: eravamo tra i primi in Europa, per il numero di analfabeti, ma dal 1923 al 1936 siamo passati dai 3.981.000 a 5.187.000 alunni – studenti medi da 326.604 a 674.546 – universitari da 43.235 a 71.512.

Come se non bastasse, Mussolini fonda il doposcuola per il completamento degli alunni ed istituisce l’educazione fisica obbligatoria nelle scuole, inaugura la refezione scolastica ed innalza l’obbligo scolastico fino ai 14 anni, inventa le Scuole professionali e la Magistratura del Lavoro.

Se poi vogliamo ricordare le opere architettoniche e infrastrutture, basti pensare alle Bonifiche delle paludi Pontine, ma anche in Emilia, Sardegna, Bassa Padana, Coltano, Maremma Toscana, alla nascita dei Parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, dell’Abruzzo e del Circeo, al potenziamento delle Centrali Idroelettriche, all’elettrificazione delle linee Ferroviarie, agli Impianti di illuminazione elettrica nelle città ed alla fondazione di 16 nuove Province.

Con Mussolini si ha Viale della Conciliazione, lo Stadio dei Marmi ed il quartiere dell’EUR a Roma.

Il Duce fonda l’istituto delle ricerche, con a capo Marconi, inventore della radio e dei primi esperimenti del radar, non finiti a causa della sua morte.

Sempre nel ventennio fascista, si ha la costruzione di molte università tra cui la Città università di ROMA, l’inaugurazione della Stazione Centrale di Milano nel 1931 e della Stazione di Santa Maria Novella di Firenze, nonché la costruzione del palazzo della Farnesina di Roma, sede del Ministero degli Affari Esteri.

In ambito politico e diplomatico, Il governo fascista emana il codice penale (1930), il codice di procedura penale (1933, sostituito nel 1989), il codice di procedura civile (1940), il codice della navigazione (1940), il codice civile (1942) e numerose altre disposizioni vigenti ancora oggi (il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il Codice della Strada, le disposizioni relative a: polizia urbana, rurale, annonaria, edilizia, sanitaria, veterinaria, mortuaria, tributaria, demaniale e metrica).

Ma giusto per non tediare il lettore con quest’overdose di riforme sociali e di conquiste civili, mi voglio soffermare su un particolare emblematico: la gestione della crisi economica conseguente al crollo della Borsa del 1929, in un periodo di crisi finanziaria mondiale.

Nel momento in cui Il mondo del capitalismo è nel caos, il Duce risponde con 37 miliardi di lavori pubblici e in 10 anni vengono costruite 11.000 nuove aule in 277 comuni, 6.000 case popolari che ospitano 215.000 persone, 3131 fabbricati economici popolari, 1.700 alloggi, 94 edifici pubblici, ricostruzione dei paesi terremotati, 6.400 case riparate, acquedotti, ospedali, 10 milioni di abitanti in 2493 comuni hanno avuto l’acqua assicurata, 4.500 km di sistemazione idrauliche e arginature, canale Navicelli; nel 1922 i bacini montani artificiali erano 54, nel 1932 erano arrivati a 184, aumentati 6 milioni e 663 mila k.w. e 17.000 km di linee elettriche; nel 1932 c’erano 2.048 km di ferrovie elettriche per un risparmio di 600.000 tonnellate di carbone; costruiti 6.000 km di strade statali, provinciali e comunali, 436 km di autostrade.

Le prime autostrade in Italia furono la Milano-Laghi e la Serravalle-Genova (al casello di Serravalle Scrivia si trova una scultura commemorativa con scritto ancora “Anno di inizio lavori 1930, ultimato lavori 1933”).

Infine, sempre nello stesso periodo si ha la Riforma bancaria: tra il 1936 e il 1938 la Banca d’Italia passò completamente in mano pubblica (non come oggi che è in mano delle banche che deve controllare N.d.R.) e il suo Governatore assunse il ruolo di Ispettore sull’esercizio del credito e la difesa del risparmio.

Fondazione di Cinecittà, primi esperimenti televisivi nel 1929, Istituzione della Mostra del Cinema di Venezia, prima manifestazione del genere al mondo, nata nel 1932, creazione dell’albo dei giornalisti, della guardia forestale, dell’archivio statale, anno 1928, nonché del Corpo dei Vigili del Fuoco, completano l’opera…

Allora, Egregio Signor Presidente, prima di parlare, non facciamo di tutta un’erba un fascio… per favore.

Antonella Ferrari

http://betapress.it/index.php/2017/12/25/litalia-e-lultradestra/