Dio c’è (e forse anche Marx) ma non si vede!

Dio c’è (e forse anche Marx) ma non si vede nell’ultimo film di Aki Kaurismaki, The other side of the hope

 

La speranza riprende fiato nell’ultimo film di AKi Kaurismaki e dimostra ancora una volta che, di fronte all’ennesimo evento storico di perdita di senso e di ragione, la guerra siriana e la conseguente tragedia dei rifugiati – per dirla con Hanna Arendt – solo il bene sembra essere radicale ed universale nel mondo mentre il male è innaturale e frutto di egoismi individuali e di contingenze particolari, di deviazioni dal corso naturale dei sentimenti delle persone.

Il film, insignito del premio per la migliore regia al festival di Berlino, affronta il cocktail di drammatica attualità politica e morale in cui si mescolano follia, odio, xenofobia, razzismo e nazionalismo da una parte e umanità, solidarietà e amore tra gli essere umani dall’altra in relazione alle difficili sorti dei rifugiati siriani.

E lo fa con il solito stile di Kaurismaki, da fiaba agrodolce surreale e malinconica che non rinuncia ai suoi velati intendimenti morali, a metà strada tra il film di denuncia ed il film drammatico e sentimentale, sospesa in un vuoto temporale e spaziale, che esalta il nitore espressivo dell’essenziale (il valore dell’uomo) in contrapposizione  alla rappresentazione dell’assurdità del male nelle sue manifestazioni storiche (la guerra e le sue atrocità, l’odio e l’egoismo dei razzismi e dei nazionalismi).  

L’universalità e la atemporalità della poetica di Kaurismaki risalta anche da una “chicca” dei dialoghi del film, che rimanda ad una citazione di un capolavoro di Lubitsch degli anni 30 (To be or not to be, Vogliamo vivere nella versione in italiano) con la frase che Wikström pronuncia, ripresa dai versi de Il Mercante di Venezia (“Se ci pungete, non sanguiniamo, e se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate torto, non ci vendicheremo?”), frase che stabilisce un collegamento immediato tra quanto accade oggi con i rifugiati e gli orrori della Germania nazista.

Un giovane immigrato siriano, di nome Khaled, arriva in modo improbabile e fortuito nel porto di Helsinki in fuga da Aleppo dove i bombardamenti hanno appena distrutto la sua casa e buona parte della sua famiglia, ad eccezione di sua sorella Miriam, che egli cerca disperatamente di rintracciare per ricongiungersi con lei.

La sua vita si incrocia con quella di Wikström, un commesso viaggiatore di mezza età con il vizio del gioco d’azzardo, che dopo aver lasciato la moglie ed aver vinto una forte somma al gioco, rileva un decadente ristorante, chiamato la Pinta d’Oro ed i suoi improbabili dipendenti, ai quali, dopo essere fuggito dalla polizia che voleva rimpatriarlo, si unisce anche Khaled, che vi trova accoglienza ed un lavoro.

Il ristorante con i suoi locali, sospesi in una realtà metafisica e surreale, diventa lo spazio che ospita le vite un po’ stralunate dei protagonisti ed in cui risplende la carica di umanità e di solidarietà che li spinge ad aiutare Khaled fino a fargli realizzare il suo sogno di ricongiungersi con l’amata sorella.

Cosa accomuna le storie di persone apparentemente così diverse? In primo luogo lo scambio ed il riconoscimento di umanità, quasi asimmetrico.

Sembra, cioè che l’esule siriano abbia bisogno di ricevere gesti di solidarietà e di umanità forse meno di quanto i cittadini finlandesi abbiano bisogno di compierne.

In questo scambio apparentemente gratuito sta il primo grande messaggio del film, quasi religioso: se l’amore, la giustizia, la bontà sono al fondo di gesti disinteressati verso gli ultimi ed i bisognosi non viene da chiedersi che quei gesti originino da qualcosa di più grande che li fonda e li inspira?

Se ci sono persone che gratuitamente e con comportamenti disinteressati e naturali testimoniano la verità, la giustizia, il bene, la solidarietà e l’amore verso il prossimo in difficoltà questo non basta a presupporre l’esistenza di un fondamento da cui promanano quei gesti?

Questi gesti non sono segni dell’esistenza di una forza originaria di vita che spinge a nuovi traguardi di umanità e che è molto vicina a quello che le religioni chiamano Dio?

Il secondo messaggio del film, caro alla visione del mondo del regista finlandese, sembra essere che il denaro ed il capitalismo sono i responsabili del decadimento delle relazioni tra le persone e della mercificazione dei sentimenti umani.

Ogni gesto di aiuto e solidarietà, compreso quello del camionista che viaggia fino alla Lituania per recuperare la sorella di Khaled, è gratuito e disinteressato, o meglio è remunerato dal bisogno di condivisione di sentimenti di umanità e solidarietà  e non richiede denaro.

Questo è il messaggio più utopistico del film e forse il vero altro volto della speranza, cioè che un nuovo umanesimo si sostituisca universalmente alla corruzione delle relazioni umane causata dalla tirannia dei “rapporti di produzione”.

Forse è pura utopia ma grazie a Kaurismaki che con un film così bello e poetico non smette di raccontarlo.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress