Giugno 16, 2025

Il nuovo Codice deontologico dei giornalisti: tra regole e mancanza di senso.

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codice deontologico

Udite, Udite, Udite, C’è un nuovo Codice Deontologico per i giornalisti italiani, approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine nella seduta dell’11 dicembre 2024.

Un testo ponderoso, che abbraccia ogni aspetto della professione: dalla libertà d’informazione alle nuove sfide dell’intelligenza artificiale, dalla tutela dei soggetti vulnerabili all’equo compenso, fino alla trasparenza e ai diritti delle minoranze.

Sembra, almeno a leggerne l’indice, la summa di tutto ciò che la nostra società chiede oggi a chi fa informazione.

Eppure, dietro la perfezione delle norme, resta una domanda scomoda:

il nuovo Codice coglie davvero i problemi profondi del giornalismo italiano?

Oppure rischia di essere una bella vetrina, incapace di incidere sulla crisi reale della professione?

Ci sono molte regole nuove, ma solo per problemi antichi, in pratica un nuovo abito su un modello antico.

Sfogliando il Codice, colpisce la cura con cui si affrontano temi di grande attualità: il rispetto della privacy, la lotta agli stereotipi, la responsabilità nell’uso delle immagini e delle parole, il dovere di rettifica, la trasparenza delle fonti, la necessità di aggiornamento professionale.

Un Codice che si rivolge a una società complessa, multietnica, digitale.

 Che parla di equo compenso e solidarietà, di dignità del lavoro e di autonomia da ogni forma di pressione.

Eppure, proprio qui, tra gli articoli che regolano il comportamento del buon giornalista, emerge la prima grande assenza: la voce della precarietà.

Quella precarietà che da decenni ha eroso la dignità della categoria, trasformando la vocazione in fatica, la libertà in ricatto, la responsabilità in ansia da fattura.

Il Codice proclama il principio dell’equo compenso, ma non offre strumenti efficaci contro la piaga del lavoro sottopagato e delle false partite IVA.

Nessuna strategia concreta, nessuna difesa reale per chi ogni giorno si trova a barattare la propria indipendenza con la sopravvivenza economica.

Libertà formale o libertà sostanziale, quale oggi è la necessità per il giornalista e quindi per il bene della società?

Il testo celebra, e non potrebbe essere altrimenti, l’autonomia e l’indipendenza del giornalista.

Ma si ferma al confine della dichiarazione di principio.

Nella realtà, l’informazione italiana è spesso ostaggio di un sistema editoriale concentrato, in cui poche mani controllano la quasi totalità dei mezzi di produzione e di distribuzione delle notizie.

Gli articoli sulla trasparenza e la correttezza non toccano il cuore del problema: la dipendenza strutturale dai grandi editori, dagli inserzionisti, dai finanziatori occulti. La libertà diventa così, più che un diritto, un’aspirazione frustrata dalla forza del mercato.

Il pluralismo delle voci? Poco più che una suggestione retorica.

Nessun cenno alla crisi dei piccoli editori, delle testate indipendenti, dell’informazione locale: quella che spesso si fa presidio di democrazia, ma che rischia ogni giorno di sparire nell’indifferenza delle regole pensate per i grandi.

L’evidenza oggi è che la professione cambia, ma il giornalista resta solo, in balia di venti di guerra e di disinformazione drammatici.

Altra assenza che pesa nel nuovo codice è quella di una visione pedagogica e sociale della professione.

Il giornalismo, oggi più che mai, non può limitarsi a trasmettere fatti: dovrebbe educare, coltivare il pensiero critico, favorire la cittadinanza attiva.

Eppure, nel nuovo Codice, non c’è traccia di questa missione: il giornalista viene regolamentato, non ispirato; la sua funzione pubblica resta confinata all’osservanza delle leggi, non si fa motore di cambiamento né di formazione civile.

L’Ordine, dal canto suo, emana regole ma non si sottopone ad autocritica.

Il Codice si autolegittima, ma non si interroga sulla propria efficacia, sui limiti del sistema ordinistico, sulle carenze di rappresentanza, sulla trasparenza delle proprie dinamiche interne.

Sulla rivoluzione digitale e le sue conseguenze il codice passa a volo di uccello, veloce ma silenzioso e non in modo incisivo, pesante il silenzio sugli algoritmi

Certo, si parla di intelligenza artificiale, ma il tema viene affrontato come elemento di contesto, non come terremoto che sconvolge la gerarchia delle notizie, il rapporto con il pubblico, la centralità del lavoro umano.

Nulla si dice sulle piattaforme digitali che decidono cosa è visibile e cosa no, sulla dittatura degli algoritmi, sulla precarizzazione dell’identità stessa del giornalista in un mondo dove chiunque può “fare notizia” senza filtri e senza regole.

Allo stesso modo, nessuna parola sulle nuove forme di censura indiretta: le querele temerarie, le minacce economiche, il rischio di essere silenziati da una piattaforma o “bannati” senza appello. Il Codice protegge dal vecchio, non dal nuovo.

Il Codice si giostra tra regole e problemi del passato, ma non affonda il colpo sulla mancanza di senso, sulla mancanza di indipendenza, insomma, una rivoluzione mancata.

Il nuovo Codice Deontologico è un testo importante, aggiornato, a tratti persino raffinato.

Ma il rischio, che è molto più che una suggestione, è che finisca per fotografare un mondo che non esiste più.

La crisi della professione non è solo crisi di regole: è crisi di senso, di riconoscimento sociale, di capacità di difendere la democrazia e la libertà di tutti.

Una crisi che il Codice non osa affrontare fino in fondo.

La sensazione che resta è che la deontologia sia oggi una corazza per tempi di pace, mentre fuori infuria una guerra.

La guerra per la sopravvivenza, per l’indipendenza, per la dignità.

Finché la categoria non sarà in grado di guardarsi allo specchio, riconoscere le proprie fragilità e ridefinire il proprio ruolo nel XXI secolo, le regole resteranno, per molti, solo un’altra forma di illusione.

E il giornalismo rischierà, ancora una volta, di uccidere più se stesso con la penna che sferzare il potere di cui dovrebbe essere guardiano.

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