il Paese dei Prima

Sempre più di frequente mi sento chiedere dai genitori dei miei alunni: “Mi dica lei prof che cosa fare con mio figlio!?!”.

Bene, vorrei condividere con voi qualche osservazione, derivante dalla mia esperienza di madre e di insegnante

Negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un fallimento del ruolo genitoriale di massa che indirettamente grava sulla salute mentale e sull’equilibrio psicologico dei figli, e di conseguenza degli alunni.

Sappiamo tutti che, se mancano i punti di riferimento, i figli cresceranno senza una direzione e ci sarà chi compenserà e chi devierà, sia nella scuola che nella vita.

Ogni anno, in classe, si può verificare quanto i disturbi psicopatologici di bambini e adolescenti si stiano aggravando in termini di intensità e di frequenza…

Ebbene, non si può stare inermi a guardare questa lento ed inesorabile declino sociale, se vogliamo fare qualcosa, in termini di prevenzione, dobbiamo accettare che questa condizione inizia in famiglia e lavorare su ciò che non funziona, prima ancora di arrivare a scuola.

Spesso, ciò che si dimentica, è che la prima infanzia è una fase estremamente delicata in cui si pongono le basi solide su cui si costruirà un’identità stabile, una personalità forte, un’adattabilità del bambino, poi adolescente e infine adulto.

I primissimi anni di vita sono un periodo di plasticità neuronale e muscolare in cui il bambino è fortemente condizionabile in termini positivi e negativi. Egli impara più guardando che ascoltando, anzi, è soprattutto l’apprendimento indiretto, cioè l’esempio delle figure che lo accudiscono che lo condiziona, e sono le esperienze di vita dell’età prescolare che caratterizzeranno la formazione della sua personalità.

I bambini hanno bisogno del legame, del confronto con il genitore, delle relazioni sociali, dell’attività fisica, di esprimersi da un punto di vista psicologico e fisico sentendosi contenuti da un adulto in grado di fargli da guida, di dargli la mano quando serve e di dirgli “vai ce la puoi fare da solo” quando necessario.

Hanno bisogno di genitori-guida e non di genitori-paracadute, di adulti che non ammortizzano le cadute solo per egoismo od orgoglio personali, oppure perché si fa prima, perché è meno faticoso, perché non si ha voglia di discutere con il figlio…

Certo, è più impegnativo insegnare ad un figlio a volare con le proprie ali più che aprire il nostro paracadute emotivo con frasi tipo “ Lascia stare, faccio io, dai retta a me, ci penso io…”

Un figlio deve crescere con la consapevolezza di un legame stabile, di essere riconosciuto e accettato, di avere un porto sicuro che gli permetterà di partire, di osare, di sperimentarsi… perché sa che avrà dei pilastri su cui contare.

Ciò che invece tristemente vedo è che non si prende più in braccio un figlio per calmarlo, non ci si siede più con lui per farlo ragionare e capire cosa sta accadendo e di cosa ha bisogno, si dà uno smartphone, un tablet, una sorta di ciuccio digitale come calmante od ansiolitico.

E’ più facile, è più rapido, i bambini vengono anestetizzati davanti agli schermi e il genitore può fare i benemeriti affari suoi in santa pace.

Posso comprendere i casi straordinari di necessità, ma ciò che distrugge un figlio è la continuità, la sistematicità, non l’occasionalità. Oggi siamo arrivati anche a non far camminare più i figli, a non insegnargli neanche dove mettere i piedi.

O sono fermi davanti uno schermo, o sono dotati di scarpe con le rotelle, di hoverboard (gli skate elettrici) per cui si vedono bambini sfrecciare da soli e genitori che non si rendono conto dell’importanza di prendere la mano di un figlio e di camminare al suo fianco.

Il problema non è solo psichico, emotivo e di acquisizione di competenze psichiche, è anche fisico, mi trovo sempre più bambini che non sanno correre, saltare, andare in bicicletta, fare una capriola, che sono completamente scoordinati e non hanno il senso dell’equilibrio.

I bambini hanno bisogno di sporcarsi le mani e di sbucciarsi le ginocchia, di confrontarsi con gli altri coetanei, non solo con la tecnologia e con gli adulti. I piccoli non devono solo competere a chi è più bravo, più bello, a chi fa più cose, a chi è più talentuoso, a chi si mette meglio in posa, a chi fa i video e i selfie più belli e prende già tanti like sui social…

Hanno bisogno di litigare e di fare pace, di capire i propri limiti, di vivere l’amicizia reale, non quella virtuale, in cui gli amici sono un numero sui social, hanno bisogno di un contatto fisico, non di mandarsi i cuoricini su WhatsApp, hanno bisogno di colmare le distanze, di conoscere l’empatia e  di  vivere il rispetto.

Devono crescere sviluppando le capacità di problem solving e le capacità intellettive attraverso la sperimentazione, le prove e gli errori.

Se si vuole insegnare ad un figlio ad essere responsabile bisogna prima essere responsabili e comportarsi da genitore responsabile.

Inoltre ci si deve ricordare che “in motu vita est”, la vita è movimento. La staticità spegne, blocca e porta ad una morte psichica.

Affrontare la vita di petto e in maniera dinamica è il segreto per non ammalarsi e per non farsi schiacciare dagli eventi, anche se troppo spesso questi bambini non sanno neanche cosa sia la motivazione, la grinta, il credere in se stessi ed in qualcosa o qualcuno.

Non conoscono neanche il senso della fatica.

Rischiano di aver perso una partita in partenza, perché nessuno ha “perso tempo” ad insegnargli a giocare la loro partita.

Allora non gridiamo allo scandalo, non arriviamo sempre dopo per chiederci il perché, la famiglia deve essere una risorsa fondamentale nella crescita di un figlio da cui non si può prescindere ed è lì che dobbiamo investire se vogliano evitare di continuare a parlare di patologia, disagi e devianza e smetterla di essere il Paese del dopo, della pietà e dello scandalo, ma iniziare ad essere il Paese del prima…

 

Antonella Ferrari