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Che cosa è la “vita”?

Egualmente cos’è la “malattia” e la “sofferenza”?

In che misura la scienza può e deve interagire con esse?

Addirittura prenderne il sopravvento.

Eutanasia e genetica sono temi assai presenti, purtroppo assai spesso in modo poco competente, sui nostri media.

Questo causa domande fra noi persone che amiamo la libertà di ragionare, amiamo il dubbio, cerchiamo ed aneliamo il diritto al “comprendere”, vorremmo poter avere l’opportunità di formare in noi stessi un pensiero basato sul nostro libero raggiungimento di una “convinzione”.

Pur se, banale essere fintamente modesti, so di poter annoverare la mia piccola persona fra coloro i quali un poeta moderno ridicolizzava definendoli “dotti e sapienti”, al contrario di molti miei “colleghi” sono ancora ancorato alla terra che mi circonda e “so di non sapere”.

Mai come su questi temi, ogni qual volta cerco di approfondirli, cerco delle sintesi, raggiungo l’angoscia tipica di colui che comprende quanto questi argomenti, su cui cerco di formare una mia libera convinzione, mi annichiliscano a causa della complessità e degli innumerevoli punti di vista che contengono.

Punti di vista, elementi di approfondimento, che rendono l’uomo, l’essere umano, almeno la mia persona, inadeguato a raggiungere una sintesi.

Di fronte a questo mio “limite” si contrappone il mondo di coloro che, con immensa “semplicità”, probabilmente senza una reale consapevolezza del loro essere altrettanto limitati di chi scrive, sentono di poter “insegnare”, in alcuni casi “imporre”, le proprie certezze agli altri.

Non nascondo che provo profonda invidia nel sentirli così “sicuri” delle loro “certezze”.

Certezze scevre da momenti di “timore di commettere errori”.

Persone “fortunate”, non capendo la drammatica forza del dubbio socratico vivono con “leggerezza”.

Questa “leggerezza” sia da parte di troppi “intellettuali” sia da parte di gran parte del sistema dei media impatta sulla consapevolezza di tanti e, conseguentemente, sul senso dell’etica comune in ordine a detti temi.

Temi che meriterebbero assai maggiore attenzione nell’uso della parola e assai maggiore rispetto della intrinseca complessità in essi racchiusa.

Proprio mentre tanti sentono di possedere detti temi così in profondità da poterne parlare erga omnes, la Pontificia Accademia per la Vita sente l’esigenza di produrre un documento che, almeno, dia definizioni condivise sulle singole parole garantendo, in questo modo, un lessico comune che permetta un dialogo fra posizioni diverse.

Da un lato la posizione del credente – sia esso cristiano, di religione ebraica , mussulmano o professi la sua fede verso altre forme religiose più presenti in continenti lontani dal nostro – dall’altro la posizione laica che lo Stato ha il dovere di assumere attraverso norme che rappresentino la mediazione fra le diverse culture presenti nello stesso.

Stato, però, che non può imporre posizioni di una minoranza ad una maggioranza esclusivamente per il fatto che la seconda è meno organizzata e più silente.

Quella storicamente famosa “maggioranza silenziosa”.

Anche per queste ragioni il documento della Pontificia Accademia per la Vita che affronta l’ostico tema del “fine vita” attraverso un vademecum dal titolo ‘Piccolo lessico del fine vita’ è particolarmente interessante.

È un “metodo” che sarebbe assai costruttivo se fosse una linea guida.

Linea guida, metodo, che andrebbe applicata ben oltre il tema in oggetto.

In esso si ribadisce la posizione cristiana che esclude il diritto del singolo all’eutanasia, ma riconosce allo stesso sia il diritto alle cure palliative che quello di non voler continuare in percorsi terapeutici ritenuti dal paziente oramai inutili.

È, questo approccio della chiesa Cattolica, un atto di rispetto della cultura laica che deve essere alla base di uno Stato occidentale moderno.

Un “laicismo” orizzontale non solo alle fedi religiose ma a tutte le “fedi” che inondano il nostro Occidente oggi.

La stessa Accademia Pontificia parla di uno “spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo”.

Ecco quello che manca ai “dotti e sapienti” che ci inondano quotidianamente con il loro “sapere”, con le loro “certezze”.

Assente in loro l’umiltà del saper mediare, spesso anche del saper “ascoltare”.

In fondo il “mediare” non è altro che saper “rispettare” il pensiero altrui senza abdicare dal proprio punto di vista.

La cultura del “individuo” sta distruggendo quella del “rispetto dell’altro”.

Gli esseri umani torneranno alla felicità ed alla prosperità, soprattutto nella nostra Europa, esclusivamente se sapranno usare il “noi”.

Un “noi”, quello sì, veramente “inclusivo” se saprà sedersi a dialogare con chi è portatore di un pensiero diverso, finanche opposto, e, con questi, trovare una “mediazione”.

Ignoto Uno

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