La “Ministra” Riscaldata

Il giallo sul titolo di studio della neo ministra Valeria Fedeli è durato poco, Lei stessa ammette candidamente, una svista, un copia incolla fatto male… e va beh, certamente in un governo come questo, ennesimo calderone di gaffe e di sberleffi agli Italiani, cosa conta un titolo di studio.

In effetti concordiamo con la ministra, il titolo di studio non conta, conta l’esperienza e le capacità che la persona che svolge il ruolo di ministro può portare nella gestione del suo mandato.

Noi non pensiamo che se una persona non è laureata sia un incompetente o un delinquente o peggio un incapace totale indegno di qualsiasi ruolo, noi siamo convinti che la capacità e l’esperienza possano davvero fare molto, sicuramente più di un  titolo di studio, che se non collegato ad esperienza e capacità, veramente non ha valore.

Noi riteniamo che un Ministro dell’istruzione debba essere un profondo conoscitore del mondo della scuola, debba avere esperienza diretta del ruolo di insegnante, debba conoscere le tematiche legate al mondo della didattica sia nazionale che internazionale, debba essere conoscitore del lavoro delle scuole non solo in relazione agli alunni ma anche alla complessità amministrativa che si cela dietro una scuola, debba avere chiaro dell’attuale stato di abbandono della scuola italiana e soprattutto del grandissimo disagio sia dei docenti che dei Dirigenti Scolastici, ma anche del personale di segreteria tutto, collaboratori scolastici compresi.

Queste cose nemmeno un laureato ad Harvard le saprebbe, e quindi chissene frega del titolo di studio del ministro, viva invece la sua esperienza.

Un’esperienza pluriennale nel mondo della scuola, ove ha ricoperto più ruoli, durante la quale ha potuto vivere direttamente e sentire quasi come un profumo tutte le componenti chimiche della scuola, comprendendone a fondo le meccaniche.

Per fare tutto questo occorre quindi avere l’esperienza della ministra, tre anni alla scuola materna, poi dal 1979 al 2012 come delegata sindacale per la CGIL, in vari ruoli legati al mondo del settore tessile, dal 2013 ad oggi senatore della repubblica per il PD…

“il mio punto di forza è l’ascolto…” ci dice la ministra, forse, ma non certo l’esperienza…

Ma quindi perché invece che scagliarsi contro i suoi titoli di studio non è stata valutata l’esperienza nella materia?

Forse perchè se andiamo a vedere l’esperienza di tutti i ministri allora ci mettiamo le mani nei capelli??? 

Forse perchè ancora una volta agli Italiani viene messo davanti un fatto compiuto?

Una volta ci dicevano o mangi la minestra o salti dalla finestra! 

Ebbene forse è ora davvero di saltare dalla finestra, probabilmente ci facciamo meno male che mangiando questa ministra riscaldata…




Vita da sindacato: quando manca la logica nelle cose

 

È ormai indiscutibile che il ruolo del sindacato ha perso di significato negli ultimi anni: da forma di rappresentanza dei lavoratori si è trasformato in lobby di interesse più o meno legittima.

Saltiamo a piè pari i vari scandali che si sono succeduti tra pensioni doppie e prebende, ma vediamo il significato della rappresentanza.

Rappresentare qualcuno significa quanto meno condividerne gli interessi e le necessità, conoscerli, e sapere come ottenere un giusto elemento di riconoscimento del diritto.

Intanto sarebbe opportuno conoscere il diritto, ovvero quanto sancito nella costituzione che dà alle classi sociali diritti e doveri.

Art. 1

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Art. 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

 

Davanti a cotanta chiarezza sembrerebbe che il sindacato abbia dimenticato uno dei pilastri sociali del nostro paese, ovvero il diritto alla tutela del cittadino lavoratore da parte dello Stato.

È infatti lo stato (o la repubblica) che deve tutelare il cittadino, difenderlo ed aiutarlo nel suo progresso sociale, fino a rimuovere eventuali ostacoli al suo benessere.

Da qui iniziano i primi scollamenti rispetto al mondo perfetto della triade di difesa del cittadino: Stato, Sindacato e politica.

La domanda è: “chi difende cosa?”

In teoria secondo la nostra costituzione il sindacato non ha ragione di esistere, perché la tutela del cittadino spetta alla repubblica e quindi alla forza politica che muove la corrente istituzionale che volta per volta agisce sulla realtà istituzionale del paese.

Eppure il sindacato è una forza significativa, muove la politica, fa cadere governi, gestisce soldi, sposta posizioni e influenza le decisioni dell’apparato amministrativo statale, nonché gestisce in modo autonomo le sue posizioni di potere.

Ora si potrebbe dire che la figura del sindacato serve per ricordare allo stato i suoi doveri nei confronti dei cittadini… ma non è un compito delle forze politiche?

Certo direte voi, peccato che anche le forze politiche difendono delle sacche di interesse che spesso non coincidono con le necessità dei cittadini, quindi ecco i sindacati.

Siffatta situazione renderebbe i sindacati elemento neutrale se non fosse che gli stessi (almeno i principali) sono espressione di forze politiche, e spesso il comportamento dello stato è influenzato più dal volere dei sindacati che da quello delle forze politiche.

Sembra un cerchio non virtuoso, ove l’unica evidenza è un errato funzionamento dello stato nei suoi principi cardine.

Siamo alla fastidiosa questione del “cui prodest?”, ovvero dove sono i vantaggi? Nella stragrande maggioranza dei casi i sindacati servono per aiutare i cittadini ad espletare funzioni amministrative quali domande, graduatorie, 730, caf, pensioni, tasse, ricorsi, o addirittura per difese e ricorsi ai vari tribunali, insomma un grande centro servizi, a cui accedi grazie al pagamento della tessera.

Una specie di sorpasso verso il basso, infatti il 67% degli italiani non ha fiducia nei sindacati (IprMarketing), li usa come centro servizi e gli stessi sindacati dichiarano tessere con una certa “facilità” (Confsal).

Viene facile pensare: “Ahi serva Italia di sindacato ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello”.

 

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forse basta la costituzione...