Chi ha mangiato la mia carota!

“Chi ha mangiato la mia carota!” di Fabio Delibra: Un Nuovo Orizzonte nella Teoria della Motivazione

In un panorama editoriale spesso affollato da ripetizioni delle stesse teorie motivazionali, “Chi ha mangiato la mia carota!” di Fabio Delibra emerge come un faro di innovazione e profondità. Questo saggio non è solo una lettura interessante, ma una vera e propria rivoluzione nel modo in cui comprendiamo e applichiamo la motivazione nella vita quotidiana e professionale.

La Rivoluzione della Motivazione Laterale

Il concetto di “Motivazione Laterale” introdotto da Delibra rappresenta il cuore pulsante di questa opera. A differenza delle tradizionali teorie che si concentrano sulla motivazione intrinseca (guidata da interessi personali e piacere) ed estrinseca (guidata da ricompense esterne), la motivazione laterale si basa sul “non sé” e sull’”altro”. Questo approccio innovativo propone che la vera motivazione possa essere trovata non solo nel beneficio personale, ma anche nel contributo positivo verso gli altri e nel senso di responsabilità verso la comunità.

Un Approccio Umanistico e Filosofico

Fabio Delibra non si limita a presentare una nuova teoria; egli arricchisce il suo discorso con influenze filosofiche profonde. Tra queste, spiccano il buddismo e il pensiero di Emmanuel Lévinas, che infondono al libro una dimensione etica e spirituale. Questa fusione di psicologia, filosofia e pratica rende il saggio un’opera multidimensionale che invita i lettori a una riflessione più profonda sul significato e sul valore delle proprie azioni.

Struttura e Contenuto

Il libro è strutturato in modo chiaro e accattivante, guidando il lettore attraverso un percorso che parte dalle teorie motivazionali del XX secolo per arrivare all’elaborazione della motivazione laterale. Ogni capitolo è arricchito da esempi pratici e riflessioni personali, rendendo la lettura non solo informativa ma anche profondamente coinvolgente.

Pratiche di Autodifesa Mentale e Meditativa

Uno degli aspetti più apprezzabili del libro è la sezione dedicata alle pratiche di autodifesa mentale e meditativa. Delibra offre strumenti concreti per mantenere l’equilibrio interiore di fronte alle sfide quotidiane e alle emozioni negative. Queste pratiche non sono riservate a esperti di meditazione, ma sono accessibili a chiunque desideri migliorare il proprio benessere mentale e emotivo.

Applicabilità Universale

“Chi ha mangiato la mia carota!” si distingue anche per la sua applicabilità universale. Non è un libro riservato solo a manager o sportivi professionisti; è una guida per chiunque desideri vivere una vita più equilibrata e motivata. L’approccio umanistico di Delibra rende il libro un prezioso compagno per tutti coloro che cercano di mantenere la propria umanità e integrità morale in una società sempre più complessa e competitiva.

Un Invito a Guardare Oltre

In conclusione, “Chi ha mangiato la mia carota!” non è solo un saggio sulla motivazione, ma un invito a guardare oltre le ricompense immediate e a trovare ispirazione in un senso di dovere e responsabilità verso gli altri. Fabio Delibra ci offre una nuova visione che ha il potenziale di trasformare non solo il modo in cui ci motiviamo, ma anche il modo in cui viviamo le nostre vite.

Per chiunque sia interessato a esplorare nuove frontiere della motivazione e a scoprire strumenti pratici per una vita più soddisfacente e equilibrata, “Chi ha mangiato la mia carota!” è una lettura indispensabile. Questo libro rappresenta una ventata di aria fresca nel campo della motivazione e promette di lasciare un segno duraturo nei suoi lettori.




Ordo ab Chao et post Tenebras Lux

 

Ormai il disordine regna sovrano ovunque e, come sempre, la fine di un ciclo storico vede come protagonista la guerra.

Giovan Battista Vico ci ha lasciato uno schema molto convincente del come i cicli storici tendano a ripetersi.

 

Quando il mondo è in preda al caos vuol dire che è in atto una transizione da un sistema che si è usurato ad uno alternativo che ancora non si è stabilizzato.

In guerra non si confrontano solo gli eserciti ma soprattutto due visioni del mondo, chi vince la partita determinerà le regole della nuova società e dunque la visione del mondo che si instaurerà con tutte le nuove regole.

 

Per riuscire a orientarsi nel caos che si è andato producendo, passo dopo passo, nel tempo e per capire quale sia la strada che vogliamo intraprendere bisogna ricominciare proprio dalle origini.

 

Il dilemma eterno che abbiamo davanti e che da sempre è alla base dei conflitti è il seguente:

 

Chi mette ordine nel caos? Dio o l’uomo? Anche se questo sembra un discorso poco adatto nell’epoca moderna in realtà, anche nel XXI secolo, tolte tutte le sovrastrutture accumulate nel corso del tempo, si arriva sempre alla stessa matrice.

 

Per cercare di trovare un punto d’incontro condiviso è necessario partire proprio dalle origini.

 

Nel racconto biblico Dio mette ordine nel caos separando la notte dal giorno, il buio dalla luce, le terre dalle acque per poi procedere alla Creazione di tutte le cose animate e inanimate esistenti in natura.

 

Ecco un primo assunto: l’uomo non ha creato il mondo, lo ha trovato già fatto… Forse su questo possiamo essere tutti d’accordo, anche senza credere nell’esistenza di un Dio Creatore.

E questo universo in cui siamo immersi ha anche un suo ordine prestabilito, i pianeti ruotano secondo regole che non sono state dettato dall’uomo, la vita sulla terra procede secondo regole che non hanno bisogno dell’intervento dell’uomo…forse possiamo essere d’accordo anche su questo altro punto.

 

Ecco già due verità che nessuno potrà mettere in discussione: l’uomo non ha creato l’universo e questo segue delle regole che prescindono dalla volontà dell’essere umano.

 

All’idea di un Dio Creatore, frutto di un pensiero primitivo secondo alcuni, è stata contrapposta una ipotesi “scientifica” quella dell’Evoluzionismo darwiniano secondo la quale la vita sarebbe sorta per caso dal nulla e da quel momento, sempre seguendo la regola della casualità, tutto si sarebbe evoluto fino a costituire il mondo come lo vediamo attualmente.

Ma anche il pensiero evoluzionista non ha potuto sciogliere l’enigma di base e cioè come si sia sprigionata la scintilla della vita che, dunque, resta ancora nel dominio del mistero.

Nonostante questa iniziale fondamentale manchevolezza, è stato costruito attorno all’evoluzionismo darwiniano tutto un castello di ipotesi “scientifiche” che giustificherebbero non solo il passato, ma soprattutto sarebbero in grado di orientare il progresso futuro in base al volere dell’uomo.

 

Forse possiamo dire, come terzo punto fisso, che né il Creazionismo né l’Evoluzionismo sono in grado di dare le prove “scientifiche” dell’origine dell’universo e della vita, almeno a tutt’oggi.

Quindi si può affermare che non esiste nessuna scienza consolidata che possa imprimere il suo sigillo di verità sull’origine della vita e del mondo.

Con queste basi condivisibili possiamo dire che nel momento in cui si affronta un qualsiasi problema sarebbe opportuno cercare di prendere in considerazione il principio di realtà, e cioè che siamo privi delle conoscenze di base, quindi possiamo dire, socraticamente, che sappiamo di non sapere.

Anche le verità scientifiche faticosamente accumulate possono eventualmente essere smentite davanti a nuove scoperte che mettono in crisi le labili certezze raggiunte.

 

Anche se la narrazione biblica dell’uomo nel suo paradiso terrestre dove tutto era disponibile, tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, sembra essere lontana anni luce rispetto al mondo moderno, in realtà a ben guardare si scopre che essa è viva e ben presente anche ai nostri giorni.

 

E’ un dato di fatto che la natura ha fornito agli esseri umani tutto quello di cui hanno bisogno per poter vivere e tramandare la vita su questa terra, ma qualcuno ha pensato che l’opera di Dio, o della natura per chi lo preferisce, potesse essere migliorata, operazione che però prevede dei costi.

Chi si adopera per migliorare la condizione umana si aspetta in cambio un guadagno.

 

Anche oggi gli esseri umani ignorano spesso i doni offerti da madre natura andando alla ricerca di artifici nella speranza di migliorare la vita e ciò avviene solo perché qualcuno ha pensato di poter migliorare l’opera di Dio in cambio di denaro.

La formula che viene utilizzata a tale scopo prende il nome di progresso.

Qualche innovazione frutto dell’ingegno dell’uomo sicuramente è servita a migliorare la vita di tutti un esempio sono gli acquedotti che portano l’acqua pulita direttamente nelle case e con essa anche l’igiene che serve per tutelare la salute.

Qualche altra invenzione può essere considerata utile ma non indispensabile come lo è l’acqua, poi però esistono anche le invenzioni che sono decisamente dannose.

Basta pensare a come l’industria farmaceutica voglia portare in molti paesi dell’Africa prodotti genici sperimentali mentre ci sarebbe bisogno semplicemente di portare l’acqua, per parlare di quanto è accaduto con la recente pandemia da Covid 19.

La domanda che sorge allora è perché invece di dare alle popolazioni ciò di cui hanno realmente bisogno si cerca di dar loro cose inutili se non dannose?

Il tentativo di dare una risposta a questa interessante domanda riguarda tutti noi e ognuno può dare il suo contributo per capire il fenomeno.

Prof. Dina Nerozzi
Neuropsichiatra




“Cosa ti piace davvero?”

Se lo sai, hai un Destino!

Un “destino” di nome Roberta

“Din!” Tintinna la notifica di whatsapp all’arrivo di un nuovo messaggio. È un aggiornamento di Roberta Callegari, titolare della libreria Wälti e organizzatrice di eventi culturali a Lugano. Ho un tuffo al cuore. Le rispondo prontamente che ci sarò, e che mi piacerebbe intervistare lo Scrittore. Presto fatto. In pochi minuti mi conferma l’appuntamento per il giorno dopo. 

Igor Sibaldi ritorna in Città per presentare uno dei suoi ultimi libri, pubblicato a maggio di quest’anno per Mondadori: “Ribellarsi al destino – Impara a non rassegnarti e prendi sul serio i tuoi desideri”. Sono queste parole a risuonare in me, come accade fra diapason tarati alla stessa frequenza. Un “destino” di nome Roberta ci permette di incontrarci in una saletta del LAC, affacciata sul chiostro della Chiesa Santa Maria degli Angioli.

È la prima volta che lo incontro di persona e, seduta accanto a lui, non posso non notare il colore cangiante e rarissimo dei suoi occhi. 

“Perché Suor Soubrette?” Mi chiede con un sorriso. 

Gli rispondo porgendogli una copia del mio libro, che avevo portato con me completo di dedica personalizzata. “Igor”, così mi fa sapere di voler essere chiamato, è un uomo “down to earth”. Semplice e schietto. Mi sento a mio agio. Gli anticipo cosa ho pensato di scrivere a mo’ di introduzione all’articolo. È d’accordo. Ed ecco, in sintesi, di cosa parleremo. 

Sommario

Cos’è il Destino? Nel Sibaldi pensiero è una sorta di gabbia dorata – l’immagine è mia, nel tentativo di esprimervi il suo messaggio in metafora – posata su certezze assolute imposte da famiglia, società, sistema educativo, psicologia, morale, progresso… Le sbarre sono costituite da limitazioni sia interiori, sia collettive. Chiusi lì dentro, ci si è assuefatti a un linguaggio intriso di “Devi… Non devi… Puoi… Non puoi…” e il tremendissimo “bisogna”, con cui non ce la si può prendere perché non c’è nessuno con cui confrontarsi. Bisogna e basta. Ecco. Nella prigione dorata del Destino, definito dall’Autore come “sensazione che una qualche forza sconosciuta stia limitando la mia libertà”, vivono, anzi, sopravvivono gli “adeguati”. Questi ultimi sono, purtroppo, la maggioranza silenziosa di chi non osa farsi domande, né mettere alcunché in discussione.

Ed ecco che Igor porge una chiave a chiunque desideri rispondere al suo appello: “Puoi uscire di lì, a patto che tu risponda alla domanda: ‘Cosa ti piace DAVVERO?’”. 

E qui, la massa si divide in due gruppi: quelli che rispondono con certezza, in pochi secondi, hanno un destino, cioè avvertono una sensazione di limitatezza, accorgendosi di desiderare qualcosa che ancora non sono, non fanno, non hanno… Gli altri, quelli che ci pensano troppo, si chiedono se possano o non possano, debbano o non debbano, desiderare alcunché al di fuori della gabbia dei puoi, devi e bisogna.

La chiave comunque è stata offerta a chiunque voglia trovare, al di fuori del sistema, un’autentica libertà.

Ma c’è un prezzo da pagare: per intraprendere il suo viaggio dell’Eroe alla conquista del vero Sé e dei propri Desideri, il “disadeguante” deve trovare la forza per mollare tutto e, se necessario, ripartire da zero. E dove può ricavare questa energia? Secondo Igor nei suoi “difetti”, che assurgono al ruolo di Mentori.

Gli avversari invece sono sempre i suoi limiti, auto o etero imposti che siano.

Il premio finale, il “successus”, è dell’Eroe che rinuncia a chi era ed è, per lasciar posto a chi sarà. L’importante è che, durante il suo non facile percorso, impari a fidarsi di ciò che gli può accadere. E qui, Igor mette in evidenza come il verbo inglese “happen”, accadere appunto, condivida la sua radice con il sostantivo “happiness”, felicità. Come a dire: sei felice se non ti accontenti e ti fidi di ciò che ti può succedere.

Incontro con Igor Sibaldi

J.L.: Cosa vuol dire “desiderare”?

I.S.: Il contrario di “considerare”. Considerare vuol dire “tener conto delle autorità”. Desiderare vuol dire “non mi importano le autorità”. Le autorità possono essere i governi, la massa, la tradizione, i genitori. Considerare vuol dire “Io considero tutto, sono una persona prudente e attenta.” De-sidero, De-siderare: “Me ne vado via, ignoro le autorità e ragiono con la mia testa.” 

J.L.: Da dove vengono i desideri?

I.S.: Dal futuro. 

J.L.: Possiamo considerarli indizi di chi siamo realmente?

I.S.:. No. Di chi saremo. 

J.L.: In che modo hanno a che vedere con la nostra chiamata?

I.S.: La nostra chiamata è il futuro nostro che comincia a battere un po’ i piedi: “Insomma, arrivi o non arrivi?” Tutti pensano che il futuro non ci sia, ma il futuro c’è eccome! Ci sono tanti futuri. E il futuro più importante è quello che si chiama di solito “chiamata”, che ispira i desideri. 

J.L.: Che cosa intendi qui per difetti?

I.S.: I difetti sono, secondo me, le proteste all’adeguamento. La massa dice: “Bisogna fare questo e quest’altro sennò non vai bene, sennò non sei normale.” Difetto è dire: “No, io non sono normale e neppure voglio esserlo.”

J.L.: Chi ha stabilito siano difetti? 

I.S.:  La tradizione. E la morale. Morale nel senso: usi e costumi di una determinata epoca… Che naturalmente sono diversi dagli usi e costumi dell’epoca precedente e di un’epoca futura. 

J.L.: In base a quali parametri di riferimento?

I.S.: In base al criterio di adattamento. Quella che si chiama “pressione selettiva”. O sei così, o non ti prendo in considerazione. Se hai ancora il Nokia, non ti guardo neanche. È un difetto avere un Nokia, naturalmente. 

J.L.: (in un sospiro gli confido di averne uno, appena acquistato)

I.S.: (sorride)

J.L.: C’è chi ha fatto dei difetti un pretesto per inseguire un ideale di perfezione… Un’altra prigione?

I.S.: Purtroppo sì. Perché l’ideale di perfezione, se uno lo precisa prima di raggiungerlo, è ancora passato. C’è un passo bello della Bibbia, Genesi capitolo 12, in cui Dio si rivolge ad Abramo che è già anziano, e gli dice: “Cambia vita”. Gli dice: “Vieni e ti porterò in un paese che io ti indicherò quando sarai partito. Cioè, non partire per un programma già pronto, altrimenti non mi interessi.” Il problema degli ideali è che sono basati su quello che uno sa adesso, e sono delle preclusioni a tutte le possibilità future. 

J.L.: Chi e cosa sono gli avversari interiori?

I.S.: Sono numerosissimi. Tutti quelli che popolano il nostro passato. Quasi tutti, naturalmente. Possiamo benissimo elencare ai primi posti i nostri genitori. Gli amici, i fidanzati, gli insegnanti… E così via… Poi, naturalmente, tutte le persone che gli altri rispettano e che noi pensiamo di dover rispettare. Il peggiore di tutti, il più cattivo, non è una persona, non è una figura umana, ma è il senso di colpa. 

J.L.: Conviene affrontarli, combatterli e vincerli o conviene piuttosto ignorarli? 

I.S.: Ignorarli è impossibile. Bisogna per forza venirne a capo. Tanto per citare ancora la Bibbia, c’è questa interpretazione consueta della storia di Caino e Abele, che vuole che Caino sia un contadino e che Abele sia un pastore. Nel testo originale non è scritto così. Nel testo originale Caino è un esploratore, e Abele è un costruttore di recinti. E sono fratelli. E Caino non sopporta di avere come punto di riferimento, come personalità critica che lo giudica, un costruttore di recinti. E l’unica possibilità di disfarsene è, secondo la Bibbia, eliminarlo. Tanto non si elimina mai Abele. Ritorna sempre. La cosa curiosa è che, dopo l’assassinio di Abele, Caino non chiede scusa. (Ride) E Dio non lo punisce. 

J.L.: Non lo punisce?

I.S.: No. Anzi. “Vai via da qua”, gli dice. Caino ha preso dalla mamma, che è Eva. Che è quella che ha disobbedito. E quella volta Yahveh dice: “Fuori di qui.” E loro (Adamo ed Eva ndr) han detto: “Va bene. Non vedevamo l’ora di uscire. Non ne potevamo più di stare qui dentro, in questo giardino sbarrato…” E con Caino fa lo stesso, lo manda via. E poi Yahveh ci pensa e dice: “Speriamo che nessuno lo superi, Caino, perché se incontra uno più forte di lui, quello lì sarà ancora peggiore.” Allora spara un incantesimo su Caino, che nessuno può superare la disobbedienza di Caino perché sennò, diventa troppo preoccupante. “Che nessuno tocchi Caino!” Di solito si pensa che voglia dire: “Nessuno se la prenda con il criminale!” Non è questo, è un’altra cosa. La Bibbia è piena di sorprese. 

J.L.: Potremmo fare dei nostri avversari interiori dei mentori? Degli alleati, invece che dei nemici?

I.S.: No. Sono draghi. I draghi sono animali interessantissimi, nella mitologia. Talmente interessanti che sono gli unici animali fantastici che compaiono nelle leggende dei santi. Vedi San Giorgio… Non ci sono unicorni, non ci sono fate, non ci sono gnomi, elfi… I draghi ci sono. Sono veramente una grande scoperta dell’umanità, i draghi. Inspiegabile. La paleontologia è del diciottesimo, diciannovesimo secolo. Cioè fino a fine Settecento e inizio Ottocento non sapevamo come fossero i dinosauri. La paleontologia è recentissima, come scienza. I draghi, nel Medioevo, addirittura nell’età greca, erano già “dinosauri”. Li avevan già visti! Ma come han fatto gli antichi a immaginare un dinosauro se i dinosauri sono scomparsi decine di milioni di anni prima che comparisse l’uomo? Questo è un bel problema che nessuno ha risolto… Interessante dal punto di vista mitologico è che il drago rappresenta sempre il passato. Il passato che non vuole passare. L’eroe a un certo punto deve uccidere questo drago. E quando uccide il drago, trova i tesori. Un tesoro lo trova Sigfrido, subito, nell’invulnerabilità. Uccide il drago e diventa invulnerabile. Il drago di Tolkien è seduto su un tesoro. Se uno riesce a eliminare il passato, trova un tesoro. È difficilissimo d’altra parte…

J.L.: Quali sono gli avversari collettivi e come possiamo riconoscere, combattere e vincere anche loro? 

I.S.: I peggiori di tutti – è una cosa che nessuno conosce – ne parlo tanto, ma vedo che non prende, questo argomento, anche se secondo me è appassionantissimo – è il conscio collettivo. Si parla tanto di inconscio collettivo. In Svizzera c’era Jung, che scopre l’inconscio collettivo. Il conscio collettivo è peggio. Il conscio collettivo è quello che si pensa di solito. È quello che è bene sapere per essere presenti, contemporanei. Non solo sapere ma anche pensare, ragionare, considerare… Questo è il conscio collettivo. Il conscio collettivo è un nemico potentissimo. Il conscio collettivo è fatto di “noi”. Il noi ha una caratteristica come pronome culturale: ha un nemico che non può tollerare, un nemico mortale del noi, mortale nel senso che il noi lo fa sempre fuori, che è l’io. Cioè il noi non tollera l’io. Il conscio collettivo è un noi. E l’io deve fare i conti con questo noi. Di solito resiste un pochino durante l’adolescenza, e poi cede e diventa un noi. L’io diventa come loro. Cioè io non sono più io, ma io divento una parte di un noi, che può essere tradizionalista, contestatario, innovatore, ribelle, però è sempre un noi. È una mentalità plurale, in cui l’io non è sopportabile. Il noi è quello che fa le guerre… Ci sono grandi esempi. L’esempio principale è nei Vangeli di Gesù, che continua a ribadire l’importanza dell’io… I Vangeli sono un romanzo di lotta fra l’io e il voi. Gesù ha sempre qualcuno che chiama “voi”. Voi, voi, voi, voi… Poi è venuto San Paolo che è molto più politico: “Sì, ‘io’ fino a un certo punto, l’io deve formare una bella rete di ‘noi’, che io dirigo…” (ride)

J.L.: … E ha posto le basi della chiesa, come la conosciamo oggi.  

I.S.: “Trasumanar significar per verba non si poria” – dice Igor, citando Dante nel primo canto del Paradiso – “Trasumanare” non si può dire per parole. Ma se uno l’ha provato, capisce quello che sto dicendo. È bello quel passo del Paradiso. Dice: “Io non te lo posso spiegare. Ti dò l’idea. Però se non l’hai provato lasciamo stare, fai finta di niente. Se l’hai provato però, ci capiamo bene. Quello che non ti posso spiegare neanche tu puoi spiegarlo, ma se l’hai provato ci capiamo.” Si comunica sempre nonostante le parole. Prima speravo che si comunicasse attraverso le parole, adesso si comunica nonostante le parole. Si comunica sempre per una forma di telepatia. Durante le conferenze… In tutte le forme d’arte è così. Se uno legge un libro, sono una serie di parole messe su una pagina. Se non c’è un pochino di telepatia, se non c’è un contatto che passa non attraverso le parole, ma nonostante le parole, non c’è dialogo. 

J.L.: “Adeguàti”. Si nasce con questa predisposizione all’adeguamento, o ci si adegua nel tempo? 

I.S.: Nooo… Cinque anni di elementari. Tre anni di medie… Cinque anni di superiori… Sono tredici anni di addestramento. Nessun animale ha un addestramento così lungo. Il gatto dopo un anno sa già tutto quello che c’è da sapere. L’uomo ha bisogno di tredici anni di ammaestramento. Tredici anni, per farlo diventare “adeguato”. Evidentemente c’è una resistenza terribile. Altrimenti le scuole durerebbero due anni, tre anni al massimo…

J.L.: E ribelli, si nasce o si impara a esserlo?

I.S.: Si nasce, come dimostra qualsiasi conversazione con un bambino che abbia meno di tre anni, basata sul “perché”. L’adulto fa resistenza. Una persona ribelle o rivoltosa è una persona che chiede perché. Quelli che non chiedono, si sono adeguati. Un bambino chiede perché. Poi comincia ad adeguarsi quando si accorge che l’adulto non è che non risponde perché non sa, non risponde perché non capisce. Prima grande delusione verso i tre, quattro anni. Poi verso i cinque, sei anni un’altra scoperta triste è che le parole del linguaggio comune non sono sufficienti. Non sono sufficienti a dire tutto quello che si potrebbe dire. Il vocabolario attivo di una certa epoca, specialmente della nostra, è scarso. Quindi per descrivere certe sfumature di sentimento, certe sfumature di percezione, non basta. È una scoperta molto rattristante, molto triste, che vuol dire che non potrò mai esprimermi… A meno che non diventi un artista. Però non tutti sanno che c’è questa scappatoia. Dopo comincia l’addestramento della scuola, e tutto il resto.  

J.L.: Come possiamo imparare a ribellarci al nostro destino?

I.S.: Si tratta di imparare, perché nessuno dei corsi attualmente immaginabili, scolastici, universitari e così via, tratta di questo argomento. Sono tutti corsi che si basano sull’adeguamento a qualcosa. Il destino può essere il destino collettivo, che è quello della maggioranza delle persone, o può essere il destino personale. Ci sono sempre i limiti. Limiti condivisi o limiti non condivisi. Le persone per bene, le persone non disturbate diciamo, tendono ad adeguarsi, all’inizio, per evitare problemi. Poi bisogna per forza reimparare, da adulti, quello che si sapeva già da bambini. Che si può chiedere perché. E i perché più utili sono quelli che non hanno risposta. Il grosso problema sono le domande che hanno già risposta… A scuola ti fanno domande che hanno la risposta pronta, e lo stesso quando sei tu a fare domande. Questo, dal punto di vista intellettuale, è una sciagura… Uno vince, fa punti, quando trova domande che non hanno risposta. Per ora. E ci vuole qualche settimana, qualche mese… E durante qualche settimana, qualche mese uno cresce tantissimo, grazie al fatto che ha trovato la domanda che finalmente non ha risposta. I cosiddetti “ribelli” al proprio destino e al destino collettivo, sono quelli che trovano le domande migliori. Naturalmente hanno una trappola, che è una qualche ideologia già pronta, che strumentalizza i ribelli. Cioè, c’è gente che fa domande domande domande, e c’è chi dice: “Ti dò io le risposte… Ma tu devi votare me. Devi seguire me, comperare i miei libri e i miei gadget.”

J.L. Come possiamo imparare a fidarci di ciò che ci può succedere?

I.S.:  Difficilissimo. Fidarci di quello che i latini chiamavano “successus”, quello che gli Inglesi chiamano “happiness”: essere in buoni rapporti col verbo “happen”, il verbo succedere. Difficilissimo. Tutti gli animali lo sanno fare. Gli animali, avendo una memoria molto spaziosa e non facilmente offendibile, si fidano di quello che può succedere. Devono cacciare, non hanno il supermercato… L’uomo, l’umanità, specialmente oggi, teme tantissimo quello che può succedere. Solo che è bene sapere che la parola “fortuna” viene dal vocabolo “forse”, che è lasciare un’incertezza sul futuro. Se uno non lascia e non ama questa incertezza, di fortuna non ne ha. E poi naturalmente se non si fida di quello che può succedere gliene capitano di tutti i colori. Perché deve dimostrare a se stesso che ha ragione a non fidarsi. E allora mi fido, ed ecco che mi dimentico le chiavi della macchina da qualche parte. Mi sono fidato, ed ecco che mi fidanzo con quella là. Ma porca miseria, se non mi fossi fidato… E sono tutte strategie di auto delusione per dimostrarci che è vero il modo di dire che chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che perde, non sa quello che trova. 

J.L.: Come facciamo a capire se siamo autenticamente liberi?

I.S.: Se sorridiamo. Naturalmente, non per cortesia. C’è una contrazione dei muscoli involontari dei muscoli delle guance, che porta al sorriso. Quello lì è un riflesso fisiologico, un sintomo di libertà. 

J.L.: Successo e essere felici vanno di pari passo o può anche essere che la felicità non sia, necessariamente, inclusa nel pacchetto “successo”?

I.S.: Ma… Dipende, perché in Italiano essere felici è una forma di contentezza. La felicità non è contentezza. Filologicamente non c’entra niente. Contento è uno che decide di farsi contenere, nella sua situazione. E tanti si rassegnano a essere contenti e pensano di essere felici. Invece felice sarebbe una persona che non si rassegna, che non si lascia contenere, che vuole sempre molto, molto di più ed è entusiasta di volere questo molto di più. 

J.L.:  Qual è il ruolo della mente, in questo viaggio eroico di uscita dalla morsa del Destino?

I.S.: Consigliera. 

J.L.: Qual è il ruolo giocato dalla fede?

I.S.: Grande freno. 

J.L.: Ok. Mettiamola su questo piano. A me piace molto e mi ispira distinguere sempre la spiritualità dalla religiosità. La spiritualità, perlomeno nella mia sensazione, è qualcosa che puoi sperimentare se non ti sei adeguato. La religiosità, invece, è qualcosa alla quale ti attieni magari per non sentirti in colpa o per mille altri motivi, quando ti adegui. Quindi, parlando di fede spirituale e non religiosa, dici lo stesso che è un grande freno?

I.S.: Sì. La differenza tra spiritualità e religiosità è una differenza di concretezza. La religione è chiara. La parola è chiara. Il verbo “religare” vuol dire “legare” la vite al sostegno. Che cresca lì e non cresca altrove. Chiaro. Spiritualità è molto vago. Spiritualità è vaghissimo, come termine. Perché si basa sulla parola spirito e nessuno che io conosca conosce il significato della parola spirito, nessuno per esempio sa definire la differenza tra spirito e anima. Dire “spiritualità” è come dire “nuvolette”. Il termine è volutamente modesto per motivi editoriali. Perché dire “spiritualità” è più evocativo. In realtà quello che sarebbe spiritualità, sarebbe filosofia. Solo che se uno dice filosofia come genere letterario, i lettori si scoraggiano. E allora si chiama “spiritualità”. Spiritualità è un po’ più disimpegnato di religione, bisogna vedere che cosa intendono le persone per spiritualità. Spiritualità vuol dire, penso, interesse per realtà che una persona può sperimentare da sola, per conto suo, senza maestri o con maestri temporanei. Allora questo va bene. Naturalmente la fede diventa un’ancora, l’ancora è utile quando si vuole stare in porto. Quando uno vuole stare in porto la fede è utilissima. Quando una persona si stufa di stare in porto, allora la fede diventa un intralcio. 

J.L.: Quali sono, secondo te, i valori più importanti con i quali equipaggiarci per uscire dalla morsa del destino… Se credi che possano esserci d’aiuto… 

I.S.: Ce n’è uno solo. La scoperta.

J.L.: E il ruolo del coraggio e della paura, nel risvegliarsi e rendersi conto che qualcosa andrebbe cambiato? 

I.S.: Coraggio è una parola molto sopravvalutata. È un epifenomeno. La paura scatta quando uno si trattiene. Basta non trattenersi e non c’è neanche bisogno di coraggio. 

J.L.: Come possiamo trovare la forza – uso questo termine per evitare la parola “coraggio”, che mi hai appena smontato – di mollare tutto? Su cosa si può fare leva se si vuole offrire a un essere umano l’opportunità di conquistare questa autentica libertà di cui si è parlato all’inizio? 

I.S.: Una volta avevo un amico molto caro, che era un pittore, anziano. È molto interessante parlare coi pittori mentre dipingono. Sono intelligentissimi in quel momento. Così come sono ispirati nel pennello, sono ispirati nelle parole. E gli chiedo: “Ennio – si chiama Ennio Toniolo – perché non ho il coraggio di guardare le nuvole? A me piacciono tantissimo le nuvole, però se le guardo dopo qualche secondo abbasso lo sguardo. Come mai..?” “Perché non sei abbastanza. Nuvole sono, tu non sei abbastanza…Ovvio.” Mi dice. “E come si fa a essere?” Lui mi dice, dipingendo: “Non si fa. Si è.” (Ride). 

J.L.: E questo essere è in continuo divenire…”

I.S.: Sì, essere vuol dire sentire che ti manca qualcosa. Quando una persona “è”, qualsiasi cosa sia, non c’è dubbio che appena accetta l’idea di essere qualcosa, si accorge che è troppo poco. E quindi comincia a divenire. 

J.L.: Come sei riuscito tu, a ribellarti al tuo destino? Sei nato in un contesto che ti ha permesso più libertà in questo senso? 

I.S.: Un po’ sicuramente il contesto. Perché metà famiglia russa, metà famiglia italiana… Avere due patrie vuol dire non averne nessuna, per essere fatalmente diversi. E poi la noia. La grande amica. Appena arriva la noia, è un regalo. Se una persona è sensibile alla noia, è salva. 

 




Caro lettore la critica è attività giornalistica.

Rispondo ad un nostro caro lettore che mi segnala che a volte la critica a questo paese è immotivata.

Mi dica Lei caro lettore se questo paese è scevro da possibilità di critica, che in realtà non andrebbe diretta a questo paese, ma a chi lo governa.

Mi trovo a scrivere queste righe con un misto di amarezza e amore profondo per la nostra amata Italia, una terra che, nonostante tutto, continuo a sentire nel cuore come una parte fondamentale della mia stessa essenza.

È impossibile non notare il degrado morale e politico che ha pervaso la nostra nazione negli ultimi decenni.

La corruzione dilagante, la perdita dei valori tradizionali, l’indebolimento delle istituzioni e la crescente disuguaglianza sociale sono tutte piaghe che minano la grandezza di questo paese che, un tempo, era faro di civiltà e cultura per il mondo intero.

La gloriosa storia della nostra patria sembra essere dimenticata, sepolta sotto un cumulo di decadenza e superficialità.

Non posso nascondere il mio disprezzo per ciò che l’Italia è diventata.

Mi rattrista vedere come il nostro spirito nazionale sia stato eroso da una globalizzazione sfrenata e da un relativismo morale che tutto abbraccia e nulla valorizza.

Siamo diventati una nazione che sembra aver perso il senso di sé, incapace di riconoscere la propria identità e i propri meriti.

Eppure, nonostante tutto, amo profondamente questo paese.

Amo l’Italia non solo per la sua storia gloriosa, ma per ciò che essa rappresenta nella sua essenza più pura.

Le nostre nobili tradizioni, la nostra cultura millenaria, la nostra arte sublime, la nostra lingua melodiosa, sono tutte testimonianze di una grandezza che non può essere cancellata da nessuna crisi contemporanea.

Amo l’Italia dei grandi pensatori, dei poeti, dei musicisti, degli artisti che hanno plasmato il volto della cultura mondiale.

Amo l’Italia dei patrioti, di coloro che hanno combattuto e sacrificato la propria vita per un ideale di libertà e unità.

Amo l’Italia delle persone comuni, dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori che, con il loro impegno quotidiano, hanno costruito e continuano a costruire le fondamenta della nostra società.

Critico l’Italia dei maneggioni, dei raccomandati, dei politici incapaci, delle istituzioni insulse ed inutili.

Credo fermamente che, nonostante le difficoltà attuali, l’Italia abbia in sé la capacità di risollevarsi.

Le nostre radici sono profonde e solide; la nostra cultura è un patrimonio che nessuna crisi può davvero distruggere.

Dobbiamo riscoprire i valori che ci hanno resi grandi, rispolverare l’orgoglio di essere italiani e lavorare insieme per costruire un futuro che sia all’altezza del nostro glorioso passato.

Il mio amore per l’Italia è una fiamma che non si spegnerà mai, alimentata dalla speranza che un giorno, non lontano, potremo vedere una rinascita della nostra grande nazione.

Fino a quel momento, continuerò a lottare, a criticare, a sperare e ad amare questo paese con tutto me stesso.

E le aggiungo, amato lettore, che la critica, quando diviene strumento per il miglioramento, è sicuramente Attività giornalistica con la A maiuscola.

 

se ha due lire da splendere compri pure il mio ultimo libro potrebbe essere un aiuto a capire come mai siamo giunti qui.

 

 

 

Il vero partito deve essere l’Italia

 




“Una famiglia di stelle”

“Ballando, cantando e sfilando con le stelle”

In “Suor Soubrette”, la mia autobiografia, racconto di come sia riuscita, nonostante e grazie agli impedimenti di varia natura, a realizzarmi nelle mie sacrosante aspirazioni.

Ad alcune di queste ho dovuto rinunciare perché meno “urgenti”, ma non per questo meno importanti. E comunque, finché c’è vita, c’è speranza. 

Il mio messaggio ai ragazzi di ogni età è “Fregatene e risplendi!”: un incoraggiamento ad affrontare e vincere le sfide che la vita ci offre – sotto forma di pareri non richiesti, per quanto autorevoli, tutt’altro che costruttivi – sul non sempre facile sentiero dell’auto realizzazione. 

“Campioni si nasce o si diventa? O tutte e due?”

 In che misura l’ambiente familiare è determinante, affinché un figlio possa realizzarsi pienamente nelle proprie aspirazioni? Esiste un’isola felice, una famiglia ideale, naturalmente imperfetta, dove si respiri un clima di rispetto reciproco e i figli vengano educati all’amore per l’Arte e la Bellezza? 

Per rispondere a questa e ad altre domande ho raggiunto Pinuccia Matta e Raffaello Lucchese, titolari di una prestigiosa realtà dell’antiquariato luxury giunta ormai alla quarta generazione e soprattutto genitori di due splendidi virgulti di diciotto e tredici anni rispettivamente: Simone ed Eleonora. 

 “Un vivaio di stelle”

Al loro arrivo sul pianeta, i due fratellini hanno trovato ad accoglierli il clima ideale per poter fiorire in accordo con la loro natura. Mamma e papà, infatti, li hanno sempre lasciati liberi di seguire le loro inclinazioni e, si sa, un fiume scorre sempre in direzione della propria foce. Così, giorno dopo giorno, i due ragazzi lavorano in vista della realizzazione dei loro sogni, desideri e aspirazioni. 

La famiglia Matta Lucchese, a quanto pare, ha adottato un approccio educativo dal quale prendere ispirazione, come genitori, per educare i propri figli alla consapevolezza del loro intrinseco valore. Raggiungo quindi la mamma e i ragazzi per un’intervista che ha per tema il “come” incoraggiare giovani visionari a fregarsene delle nubi grigie – leggi: critiche non costruttive, profezie non felici, opinioni non richieste all’insegna di un’incredula prudenza –  e a risplendere come stelle, costi quello che costi.

“Intervista a mamma Pinuccia”

J: “Pinuccia, come siete riusciti a riconoscere i doni e i talenti dei vostri ragazzi?” 

P: “Per quanto riguarda nostro figlio Simone l’abbiamo capito subito: aveva solo sei mesi quando durante i nostri viaggi in auto, nel suo seggiolino, si muoveva a ritmo di musica per tutto il tempo. Era così divertente guardarlo. Mio marito e io ci dicevamo che sarebbe diventato un ballerino. Stupendo! Eleonora invece cantava con la sua vocina sottile, da usignolo. E poi, si muoveva con una tale grazia… Poi, a cinque anni, Simone ci fece capire in modo inequivocabile che il ballo avrebbe avuto il primo posto nella sua vita. La sua trasmissione preferita era ‘Ballando con le stelle’. Caso vuole che Alessandra Mason e Dima Pakhomov, entrambi formatori degli ospiti del programma, avessero aperto la loro scuola a Chivasso, a due passi da noi. Portammo nostro figlio a incontrarli e da lì, sarebbe cominciato tutto. Comunque, è una gioia per noi genitori scoprire e assecondare i talenti dei nostri figli!”

J: “La danza e il canto sono talenti già presenti nella vostra famiglia, o prerogativa dei vostri ragazzi?”

P: “Credo abbiano preso da me. Avevo doti canore ed ero brava anche nella danza. E poi, nella mia famiglia c’è chi suona la tromba, chi la chitarra, chi la fisarmonica: insomma, la vena musicale è sempre stata presente. Ora che ci penso, anche la mia nonna amava danzare. Decisamente, i miei figli hanno preso dalla mamma.” 

J: “Simone ed Eleonora hanno entrambi intrapreso carriere nel mondo dello spettacolo. Simone come ballerino, Eleonora come cantante e indossatrice. Come vi sentite rispetto alla scelta dei vostri figli di non seguire le vostre orme?”

P: “Crediamo che la felicità sia nell’essere se stessi e amare ciò che si fa a prescindere da quello che un genitore  fa. Devono scegliere liberamente.”

J: “C’è qualcosa a cui avete dovuto rinunciare, per amore del successo dei vostri figli?”

P: “Certo, ci sono sacrifici da fare, ma si fanno insieme e se si fanno, comunque, è sempre per amore.”

J: “Come vi ponete rispetto alla concreta possibilità che debbano viaggiare e magari, un giorno, trasferirsi altrove, per potersi realizzare appieno nelle rispettive professioni?”

P: “Ne saremmo ben felici. Magari li seguiamo.”

J: “Il mondo dello spettacolo è tutt’altro che semplice. La concorrenza è molta e a volte, il talento da solo non basta. Sono necessarie preparazione e perseveranza, per essere pronti a cogliere l’Occasione buona. Quali sono, a vostro parere, le sfide che i vostri ragazzi dovranno affrontare?”

P: “Le sfide nella vita ci sono sempre, in ogni ambiente lavorativo. L’importante è che i nostri  figli imparino a riconoscerle e ad affrontarle.”

J: “Eleonora, a soli tredici anni, sta ottenendo attenzione e riconoscimenti bellissimi…”

P: “Eleonora ha ricevuto dei premi prestigiosi, uno dei quali dal Maestro Meozzi – già mentore di Andrea Bocelli – che l’ha notata a Sanremo durante il talent. Anche il Maestro Vincenzo Capasso, autore di canzoni per Mina, l’ha premiata con un brano scritto appositamente per lei, che uscirà a breve. Comunque, ha già pubblicato il suo primo inedito, scritto da Alex De Vito e Claudio David.”

J: “Quale consiglio dareste, tu e tuo marito, ai genitori che desiderassero riconoscere, valorizzare e assecondare i talenti dei loro figli, accompagnandoli a trasformare le loro passioni in carriere vere e proprie?”

P: “Direi loro: ‘Assecondate le passioni dei vostri figli, date loro sempre forza e coraggio; fate loro capire che con la fede si vola in alto.'”

 

“Un usignolo in passerella”

Raggiungo quindi Eleonora, che sta facendo le sue prove di portamento davanti allo specchio. Ha indossato un vestito della sua mamma e ora sta sfilando come se indossasse una corona regale. 

Prima di intervistarla, vi racconto un po’ della sua storia. Breve, vista la sua tenera età.

Ad appena dodici anni, interpretando “Le tasche piene di sassi” di Giorgia, Eleonora si è aggiudicata due prestigiose vittorie: la Finalissima del Talent Vision 2024, Speciale Sanremo, del Patron Domenico Trotta e il Premio Battiato Sezione Junior, del Patron Daniele Morelli. 

In vetta alle classifiche degli eventi collaterali al Festival della Canzone Italiana a Sanremo, Eleonora ha ricevuto, come già anticipatoci dalla mamma, attestazioni di stima e incoraggiamento da illustri personaggi della musica leggera italiana.

Nel frattempo sfila, sicura di sé, sulle passerelle, confermandosi promessa non solo della musica, ma anche della moda italiana.

“Intervista ad Eleonora”

J: “Eleonora, come ci si sente ad aver vinto tanti premi e riconoscimenti a soli tredici anni?”

E: “Mi sento molto orgogliosa di me stessa e ovviamente molto felice.” 

J: “Indossatrice e cantante. Sono due carriere bellissime! Erano questi i tuoi sogni da bambina? O ne hai altri da realizzare?”

E: “Fin da bambina mi è sempre piaciuto cantare e sfilare, indossando i vestiti di mamma. Quando canto e sfilo, mi sento bene con me stessa. Oltre a questo amo recitare e quindi, vorrei fare anche l’attrice.” 

J: “Quale delle due passioni hai scoperto per prima? La canzone o la moda?”

E: “Fin da quando avevo quattro anni amavo sfilare, poi è venuto il canto. All’inizio, riguardando i video che giravo, non mi sembravo molto portata. Poi però, col tempo, sono migliorata sempre di più. Infine si è aggiunta la recitazione.” 

J: “Capita a volte di seguire le orme del nostro personaggio famoso preferito. Nell’ambito della canzone italiana, chi è l’artista che ti piace di più, al punto da ispirarti a intraprendere la stessa carriera?”

E: “Non ho personaggi preferiti in assoluto. Mi piacciono e mi ispirano Giorgia e Mina. Delle cantanti più recenti scelgo invece Annalisa, Elodie e Gaia. Mi piacerebbe diventare come la Carrà. So che è difficile, perché è un mito.” 

J: “Qual è il tuo messaggio per le ragazze della tua età che vogliano realizzare il sogno della loro vita?” 

E: “Non mollare mai e non avere paura degli ostacoli. A volte si cade nella vita, ma è proprio questo a insegnarci a rialzarci più forti di prima, così da poterli superare.” 

J: “… E un consiglio che daresti loro?”

E: “Di non dare retta a chiunque cerchi di scoraggiarli dicendo che non ce la possono fare. Anzi. Di considerare questi ‘attacchi’ come spinte per fare ancora di più e raggiungere i loro traguardi.”

“Galeotto fu Ballando con le stelle” 

Come già anticipato Simone, che ha appena raggiunto la maggiore età, è campione di danza sportiva assieme all’inseparabile partner Isabel Rossotto. La coppia ha trionfato ai Campionati mondiali che si sono tenuti a Malmedy, in Belgio, a novembre dello scorso anno, laureandosi vicecampione mondiale di danza latinoamericana nella categoria “Latin Youth”. Un plauso è dovuto ai maestri che li hanno accompagnati a conseguire la prestigiosa vittoria: i già citati Alessandra Mason e Dima Pakhomov, reduci entrambi dall’esperienza televisiva “Ballando con le stelle”.

“Intervista a Simone”

J: “Ad appena diciotto anni, sei vicecampione del mondo di danza sportiva. Com’è cambiata la tua vita, se è cambiata, dopo la conquista di un premio così ambito?”  

S: “Nella mia vita non è avvenuto un grandissimo cambiamento. Più che altro, successo dopo successo, gara dopo gara, piano piano ho sempre ottenuto risultati migliori. In tredici anni di ballo, gli sforzi e i sacrifici fatti mi hanno permesso di ottenere questo bellissimo risultato.” 

J: “Com’è iniziato il tuo amore per la danza?”

S: “Il mio amore per la danza è iniziato all’età di cinque anni. La mia famiglia era solita guardare il programma televisivo ‘Ballando con le stelle’. A me piaceva tantissimo! Fortuna vuole che due insegnanti di ‘Ballando con le stelle’ abbiano aperto una scuola di ballo vicino a casa mia. Hanno quindi fatto un’esibizione a Verolengo, dove abitiamo, e siamo andati a vederli. Il giorno stesso abbiamo chiesto informazioni per poter iniziare.” 

J: “Quali sfide hai dovuto affrontare e quali sacrifici hai dovuto fare, per arrivare a essere vicecampione mondiale di danza sportiva latinoamericana?”

S: “Il mio sacrificio è stato non arrendermi mai. Rinunciare, a volte, a partire per le vacanze… Allenarmi tutti i giorni con un unico pensiero: raggiungere il risultato.” 

J: “A cosa hai dovuto rinunciare, rispetto ai tuoi compagni di classe?”

S: “Un ragazzo che non abbia intrapreso una carriera agonistica o comunque sportiva avrà sicuramente più tempo libero nel pomeriggio. Non solo, secondo me una persona che non ha intrapreso una carriera del genere può essere meno organizzata. Io per gestire quello che faccio devo farmi un piano, organizzare le mie giornate in modo da conciliare gli allenamenti con lo studio… Sento comunque di non aver perso nulla. Anzi. Mi sento fortunato, in quello che ho fatto.  Sarei forse uscito qualche volta in più con i miei amici, ma non cambierei le mie scelte.” 

J: “Di tutte le discipline in cui eccelli, qual è quella che ti appassiona di più? Jive, Samba, Cha cha cha…?”

S: “Il mio preferito è il cha cha cha. Di questo ballo mi piace il ritmo, e poi è allegro.”

J: “Tu e Isabel siete una coppia affiatatissima. Come vi siete conosciuti e com’è nata l’idea di danzare insieme?”

S: “Il primo anno ballavo con un’altra ballerina, con cui ho fatto una competizione. Poi, nella mia scuola di ballo, è arrivata Isabel. I miei maestri hanno subito notato la sua bravura e ci hanno proposto di fare una prova. Ci siamo trovati bene e abbiamo subito avuto successo. Dopo meno di un anno abbiamo vinto i campionati italiani insieme. Abbiamo continuato e balliamo insieme ormai da dodici anni.” 

J: “Recentemente hai vissuto una bella avventura newyorchese. Ce ne vuoi parlare?” 

S: “Fuori dall’ambito del ballo ho avuto la fortuna di accedere a un bando scolastico: una simulazione diplomatica per studenti universitari alla quale ho potuto accedere nonostante io sia  ancora uno studente liceale. Mi sono divertito tantissimo! Ho avuto modo di capire come funziona l’ambiente diplomatico e come si comporta un ambasciatore… Mi è stata data una nazione, avevo un compagno di delegazione che ho conosciuto lì, un ragazzo fiorentino molto simpatico.  Insieme abbiamo fatto amicizia anche con altri ragazzi italiani, americani e di altre nazionalità. Sono certo che saremo amici per lungo tempo.”

J: “Cos’è per te il successo?” 

S: “Per me è qualcosa di soggettivo. Può essere il raggiungimento di un obiettivo giornaliero, come ad esempio riuscire a fare qualcosa che non si riusciva a fare… O di un obiettivo il cui raggiungimento richiede più tempo… Il risultato di una gara di ballo, nel mio caso, o il successo con una ragazza, un buon voto a scuola. Dipende da tanti fattori. Secondo me, il successo può essere raggiunto da chiunque, in ogni momento.” 

J: “Che consiglio daresti ai ragazzi che, come te, abbiano un sogno da realizzare?” 

S: “Il consiglio che posso dare è di credere in se stessi, non arrendersi mai, e soprattutto non farsi influenzare dagli altri. Ciò che più mi ha dato forza è proprio il credere in me stesso. Più credi in te stesso, più riesci a ‘vedere’ il raggiungimento del tuo Obiettivo.” 

Morale…

Per concludere, lascerei la parola finale alla mamma delle due stelle.

“Crescere i figli non è facile. Penso che sia il mestiere più difficile del mondo.” Ammette Pinuccia. E prosegue: “Vederli esprimersi in questo modo, è bello. Ti fa sentire contenta di ciò che hai fatto finora, anche se con tanti sacrifici, che sono stati comunque ripagati con la loro dolcezza, il loro affetto, la loro tenacia, il loro modo di affrontare la vita.”

 

 




CELLINI, PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE RACCONTA LO SCULTORE

«…durante tutta la sua vita di lavoro indefesso lo scultore, orafo e scrittore, mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli…»

 

Riuscì sempre a cavarsela – racconta Paolo Battaglia La Terra Borgese -. Era lo spadaccino più permaloso di tutta l’Italia del Cinquecento e i suoi nemici pagarono con la vita. Si prese le donne che gli piacquero.

Fu maestro d’avventure. La battaglia gli metteva allegria. Il carcere più profondo non bastava a tenerlo.

 

Ma quest’avventuriero spaccone fu soprattutto il più grande orefice del mondo. Tale era l’opinione che aveva di se stesso Benvenuto Cellini, e i collezionisti la condividono ormai da oltre 400 anni.

La storia in genere conferma le pittoresche avventure narrate nella sua Vita.

 

Benvenuto Cellini – prosegue Battaglia La Terra Borgese – nacque a Firenze nel 1500. Dal padre, fabbricante di strumenti musicali, ereditò l’abilità manuale.

Fin dall’infanzia si fermava davanti alle botteghe degli orefici, attratto dal ticchettio dei martelletti, dal soffiare dei mantici, dall’incandescenza delle braci.

S’infilava dentro per vedere lo splendore che i tagliatori di gemme traevano dalle pietre preziose ancora grezze e per osservare gli artigiani che lavoravano l’oro nella sua infinita e lucente duttilità.

 

Ben presto si fece assumere come apprendista in una delle botteghe – continua Battaglia La Terra Borgese -.

Questo scatenò un finimondo perché Cellini padre aveva deciso in cuor suo che Benvenuto dovesse diventare un musicista. È vero che quelle agili piccole dita sul flauto sapevano far sgorgare lacrime di gioia dai teneri occhi paterni.

Ma Benvenuto non era il tipo da esercitarsi con le scale tutto il giorno.

Per sfuggire alle odiate note scappava di casa e stava via parecchi mesi di seguito, guadagnandosi la vita come apprendista orefice nelle città vicine.

A 19 anni, avendo litigato più del solito col padre, s’incamminò a piedi per Roma, dove si diceva che il papa era prodigo di oro con gli artisti come le fontane della città erano prodighe d’acqua.

 

Il suo primo lavoro a Roma – riferisce Battaglia La Terra Borgese – consisté nell’adornare uno scrigno d’argento per un cardinale.

Lo fece in bassorilievo, decorandolo molto più di quanto non gli fosse stato ordinato, con fogliami intrecciati, frutta, putti e maschere grottesche. Il maestro della bottega era così fiero di questo scrigno che lo mostrò a tutta la città.

E ancor più fiero fu Benvenuto di mandare il compenso che gli spettava al padre, che continuò a mantenere generosamente finché visse. Poiché la mano di Cellini era pronta a dare come a colpire; durante tutta la sua vita di lavoro indefesso mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli.

 

A Roma guadagnò largamente e in breve ebbe una bottega sua. Da questa uscirono anelli, cammei e spille di squisita fattura, coltelli e pugnali dal manico intarsiato, cinture d’argento per le spose e una brocca d’oro per un vescovo.

Cellini fece anche fucili, per suo proprio uso, perché era schiavo della  violenta e persistente passione di andare a caccia di folaghe nelle paludi intorno alla Città Eterna.

 

Fu un colpo da maestro – precisa Paolo Battaglia La Terra Borgese – che dette inizio al susseguirsi delle eccitanti avventure di Benvenuto Cellini. Nel 1527 Roma era assediata dalle forze dell’imperatore Carlo V, al comando del connestabile di Borbone.

Cellini, che era volontario nel corpo di guardia sulle mura, scrutando attraverso la nebbia vide un gruppo di nemici che si avvicinava. Puntando l’archibugio uccise il capo del gruppo con un solo colpo.

Cellini racconta che questi, come si vide poi, era il connestabile in persona. Pura vanteria? La storia ci dice che proprio in quel giorno il connestabile fu ucciso da una sentinella sconosciuta.

 

Dopo di ciò Benvenuto Cellini ebbe il comando delle artiglierie sul mastio di Castel Sant’Angelo. Lo stesso papa Clemente VII, venne fuori a osservare la mira del Cellini che martellava le trincee del nemico.

Per un mese, con gioia a metà puerile e a metà diabolica, Benvenuto dimenticò la sua arte delicata – dichiara Battaglia La Terra Borgese –.

 

Il Critico prosegue: Finita la guerra, Cellini fu nominato maestro della Zecca Vaticana. Oltre a ciò foggiò una quantità di splendidi ornamenti per i dignitari della Chiesa. Un bottone per il piviale pontificio richiese anni di lavoro.

Grande come un piattino, raffigurava Dio Padre circondato da 15 angeli in oro sbalzato, e c’erano incastonati smeraldi, zaffiri, rubini e un magnifico brillante. Quest’oggetto fece parte del

tesoro vaticano per 250 anni, ma fu poi unito alla «indennità» pretesa da Napoleone Bonaparte nel 1797 e mani vandaliche ne estrassero i gioielli e ne fusero l’oro.

 

Non bisogna però credere che la vita di Benvenuto fosse tutta spesa a lavorare per la Chiesa – avverte Battaglia La Terra Borgese -.

Una volta gettò via il cesello per seguire un bel visetto siciliano fino a Napoli. Le modelle dell’artista Cellini, sembravano essere irresistibili per l’uomo Benvenuto.

 

Nell’odio era ardente come nell’amore. Quando il fratello fu ucciso in una rissa, Benvenuto non pensò neppure a chiamare i custodi dell’ordine: a che sarebbe servito, visto che l’uccisore era un caporale delle guardie della città?

«Presi a vagheggiare quello archivitabusiere» dice Benvenuto «come se fosse stato una mia innamorata.» Infine in un vicolo buio col pugnale si fece giustizia.

 

Alla morte del vecchio papa – racconta il critico d’arte Battaglia La Terra Borgese -, prima che fosse eletto il nuovo, a Roma non c’era altra legge fuorché l’anarchia.

Un orefice del Vaticano, suo rivale, di nome Pompeo, si mise in cerca del Cellini con dieci armati.

Benvenuto s’imbatté in questi per la strada. Nella zuffa uccise Pompeo con una pugnalata e mise in fuga i suoi scherani.

Ma la figlia di Pompeo andò sposa a un amico intimo di Pier Luigi Farnese “nipote” del nuovo papa, e per sua istigazione il Cellini veniva continuamente perseguitato.

Un assassino còrso gli tese un agguato, sicari lo seguirono a Venezia, un’altra banda lo costrinse a fuggire di notte.

Riuscì sempre a cavarsela. Ma nel 1537 fu arrestato per ordine del papa. Fu chiuso in una cella «dove fu decisa la mia morte» come egli dice.

 

Con grande astuzia – nota Paolo Battaglia La Terra Borgese – preparò la fuga. Prima rubò delle tenaglie a un operaio del carcere.

Quando i suoi apprendisti gli portarono delle lenzuola pulite, nascose quelle sudice nel materasso.

Con le tenaglie estrasse quasi tutti i chiodi dai cardini di ferro della porta lasciandone appena quanti bastavano per tenerla a posto.

Ci vollero parecchie settimane per tirarli fuori e contraffare le borchie con della cera di candele mista a ruggine onde trarre in inganno i carcerieri.

Quando tutto fu pronto s’inginocchiò e rimase a lungo in preghiera.

 

Rimanevano soltanto due ore di oscurità quando estrasse gli ultimi chiodi dai cardini e sgusciò fuori dalla cella.

Si attorcigliò sulla schiena le strisce di lenzuola annodate, usci sul bastione e di lì si calò nel cortile.

 

La notte volgeva al termine e Benvenuto – riferisce Battaglia La Terra Borgese – spiava le sentinelle aspettando il momento opportuno per superare il muro esterno.

Arrampicatosi su questo con l’aiuto di una pertica che aveva trovato per caso, assicurò le lenzuola rimaste a una pietra in cima al muro e iniziò la discesa verso la libertà.

Ma o le lenzuola o le sue mani esauste cedettero, perché Cellini cadde e si ruppe una gamba.

La legò stoicamente e si trascinò fino alla porta della città; era ancora chiusa, ma il Cellini riuscì a rimuovere una grossa pietra da sotto la porta e a infilarsi in quel buco nonostante i dolori strazianti.

Passata la porta fu assalito dai cani da difesa. Ma un servitore del cardinale Cornaro di Venezia lo riconobbe e lo portò al palazzo del suo padrone.

 

Disgrazia volle – fa notare Battaglia La Terra Borgese – che il cardinale desiderasse una sede vescovile per un suo amico e che il pontefice non gliela volesse concedere.

Così fu concluso un patto: il cardinale ottenne il vescovado e il papa riebbe il suo prigioniero.

Questa volta il Cellini fu chiuso in una segreta nei sotterranei di Castel Sant’Angelo: una fossa piena d’acqua, in cui egli giacque in delirio per parecchi giorni.

 

Ma allora, al palazzo di Fontainebleau in Francia, il re Francesco I aveva espresso il desiderio di avere come orefice di corte questo Benvenuto Cellini del quale aveva sentito fare tanti elogi. Un altro cardinale influente parlò in suo favore al papa.

Così dalla sua immonda cella il Cellini fu trasportato alla corte più brillante d’Europa – afferma Battaglia La Terra Borgese -. Qui gli furono dati splendidi appartamenti, un gruppo di aiutanti e ricevette un’ordinazione dopo l’altra per opere di grande impegno, d’oro, d’argento e di bronzo, tra cui una «saliera» d’oro – in realtà è un centro da tavola per banchetti – che è oggi il vanto di un museo di Vienna

 

Il re e la regina, il cardinale e i nobili venivano spesso a visitare la sua bottega sempre attiva.

Tutto prometteva bene.

Ma Cellini aveva fatto i conti senza la favorita del re e, sebbene fosse un esperto adulatore, aveva trascurato di richiedere l’opinione di quest’ultima. In seguito alla sottile opposizione che lei gli mosse – afferma Battaglia La Terra Borgese -, Cellini poté portare a compimento ben poco di ciò che aveva progettato per Francesco I, e nel 1545, deluso, tornò a Firenze e divenne il protetto del duca Cosimo I, ben noto patrono delle arti.

Cosimo suggerì a Benvenuto di scolpire una statua di Perseo, il leggendario eroe greco che uccise Medusa, la Gorgone anguicrinita (che ha serpenti al posto dei capelli, ndr) che impietriva chiunque la guardasse.

 

Cellini fece un modello dopo l’altro, di cera, di stucco, di marmo. Infine, dopo nove anni, riuscì a compiere una figura più grande del vero, che lo soddisfece – lo elogia così Paolo Battaglia La Terra Borgese -.

Ora si trattava di gettarla in bronzo! Questa era una delle operazioni più difficili che la scultura avesse mai tentato fino allora. Cellini doveva progettare da sé le fornaci e le forme, ed escogitare le leghe. Il duca scosse la testa e predisse un disastro.

 

Ecco come il Cellini – riporta il Critico – racconta la sua impresa, forse la più appassionante di tutta la sua vita.

 

«Alla fine gridai che fosse accesa la fornace. I tronchi di pino vi erano accatastati e la fornace lavorava tanto bene, che io fui necessitato a soccorrere ora da una parte e ora da un’altra per alimentarla.

Non resistevo più e mi saltò addosso la febbre, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto.

Quando due ore dopo tornai nella bottega trovai tutto rappreso il metallo e il tetto della bottega in fiamme.

Mandai sul tetto a riparare al fuoco e dissi a due manovali che andassino a prendere una catasta di legne di quercioli giovani, e quando queste presono fuoco, oh come quel metallo rappreso si cominciò a schiarire, e lampeggiava in quel terribile fuoco.»

 

«In un tratto è si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo. Mi avvidi che il coperchio della fornace si era scoppiato e il bronzo si versava fuori. Subito feci aprire le bocche della mia forma. Ma veduto che il metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, forse per essersi consumata la lega per virtù di quel terribile fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa dugento, e a uno a uno li gittai drento. In tal modo riuscii nell’intento e ora il mio bronzo s’era benissimo fatto liquido e la forma si empiva. Quando vidi il mio lavoro compiuto m’inginocchiai, e con tutto il cuore ne ringraziai Iddio.»

 

La statua di Perseo – spiega Paolo Battaglia La Terra Borgesefu posta in una loggia in Piazza della Signoria nel cuore di Firenze. Là si erge oggi, nel bronzo immortale il vigoroso eroe che solleva la testa di Medusa.

 

Con questa sola opera Cellini prese posto tra i grandi scultori. In questo periodo fecondo fece altri lavori in bronzo e in marmo: busti, figure mitologiche e un grande crocifisso per la propria tomba (pur tuttavia aveva ucciso umani e altri animali).

 

Con l’avanzare degli anni, quest’uomo che aveva vissuto così felicemente seguendo i suoi principi, pian piano si conformò a quelli del resto dell’umanità.

A 64 anni sposò la sua domestica e cominciò ad allevare i propri figli in stato coniugale. Laddove un tempo aveva elargito le sue sostanze liberamente, ora ascoltò il parere dei savi e le investi… e così perse tutto (banchieri dell’epoca).

 

Il 13 febbraio 1571 le avventure terrene di Benvenuto Cellini ebbero termine. Eppure continuano per sempre, poiché ogni generazione le riscopre nella sua scintillante autobiografia. Per quasi due secoli il manoscritto fu perduto.

Quando venne alla luce e fu pubblicato tutta l’Europa ne rimase affascinata. Goethe, che lo tradusse in tedesco, dichiarò che costituiva un miglior quadro di quei tempi che non qualunque rigoroso testo storico.

Dumas lo divorò e poi offrì al mondo il suo allegro cavaliere D’Artagnan, il capo dei Tre Moschettieri. Da allora in poi la figura di un intrepido spadaccino, burlone, rubacuori e femminaro è balzata da cento libri ed è comparsa su mille schermi.

Il primo di tutti era stato Benvenuto Cellini – chiude così, Paolo Battaglia La Terra Borgese il suo Cellini-.




Salone del Libraccio

AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO, C’E’ CHI HA SCAMBIATO LA CULTURA PER SOPRUSO E ANARCHIA…
…PER FORZATA IMPOSIZIONE, PER UTILE PALCOSCENICO DOVE IMPORRE – NON SENZA PREVARICAZONE O VIOLENZA – TESI E GIUDIZI SCARSAMENTE GIUDIZIOSI: SERVE SBRAITARE, AGITARSI E CERCARE LO SCONTRO CON Leho appreso che FORZE DELL’ORDINE?
Stamani, quasi in diretta con la Presidente dell’Associazione ETICA, Barbara de Munari, ho appreso che il Salone del Libro “”…stava avendo dei problemi inaspettati dopo che la polizia ha respinto la manifestazione pro- Palestina. Una scrittrice ha deciso di non presentare il proprio libro, ma organizzare un’assemblea; diverse case editrici hanno coperto i loro stand; tre scrittori sono stati identificati dalla polizia.
La manifestazione pro Palestina di sabato 11 davanti a Lingotto Fiere sta avendo ripercussioni inaspettate per l’organizzazione del Salone del Libro di Torino: “… Abbiamo deciso di organizzare questa assemblea per raccontare bene i fatti – dicono dal palco gli ospiti – è in corso un genocidio che va avanti da mesi, anzi da anni”. Esplicito anche il riferimento ai fatti di sabato: “… alla repressione si risponde così, riprendendosi gli spazi, i tempi, facendo risuonare le voci di chi viene zittit?” “”.
Scrittori e scrittrici identificati dalla polizia.
Gli stand delle case editrici chiusi: Meltemi editore, Mimesis Edizioni, Eris Edizioni, Lumien Edizioni, Milieu, Edizioni Bepress e Agenzia X hanno deciso, in solidarietà con i manifestanti, d’interrompere per circa un’ora la loro attività commerciale.
La causa palestinese è salita sul palco anche dell’Arena Robinson di Repubblica: Elena Cecchettin ha indossato una maglietta con scritto “Stop al genocidio” durante il suo monologo sulla violenza.
Cronaca, senza commento: non c’è nulla da commentare – ma come è tutto pesante…
A queste parole di Barbara de Munari ho sentito l’esigenza di dare un seguito: personale sì, ma fors’anche interprete di un sentire e di uno sgomento comuni.
Situazione pesante e scabrosa, quella verificatasi al Salone del Libro di Torino – ma anche molto tesa in altre parti d’Italia -. Purtroppo, appellarsi alla intelligenza, alla tolleranza, al discernimento delle persone – come in genere si cerca di fare – è vano esercizio.
Ma se dall’alto non si risolve il punto di vista sulla situazione, avremo sempre tifoserie (anche le più serie sono tali, finché non si mette un ‘punto’ ben preciso. e definitivo: così identificando la questione con le sue caratteristiche e il suo nome).
Si tergiversa, si stenta a decidere, ci si incontra e si tentenna in continue riunioni da un capo all’altro del mondo senza parole certe e definitive, così che si è sempre nella zona grigia dell’indecisione e dell’inconcludenza.
E’ così che è stata data linfa a nuove forme di assemblearismo, dove giovani (non so quanto informati della questione…) piantano tende, vandalizzano scuole e università, dimostrano con violenza evitando ogni confronto e affidandosi alla lettura urlata e trabbiosa di proclami (forse già pronti in polverosi cassetti) ; altrettanta nuova linfa è stata data – non volendo, voglio sperare! – a posizioni di forte contrasto contro Israele, persino ricalcano beceri e violenti modelli di tipo antisemita.
Credo che sia impossibile non rilevare che ci troviamo in un vortice molto agitato (da altri) che ha prodotto effetti destabilizzanti a macchia d’olio. Effetti che anziché essere fermati, affrontati e fatti regredire, vedono una staticità assoluta e assurda (al netto del solito via vai di comis, del solito bla bla, denso di etichette. pacche sulle spalle e di strizzate d’occhi, come in un tragico gioco delle tre carte).
Dispiace immensamente che Scrittori, aziende, professionisti, case editrici, vedano compromesso in tutto o in parte il proprio lavoro: lavoro e attese che vanno da un appuntamento all’altro, di anno in anno.
Assurdo! Com’è assurda, peraltro apparentata alla destabilizzazione in corso su scala mondiale, quella che eufemisticamente viene definita ‘strategia per nuove visioni e nuovi equilibri geopolitici’. Mentre la gente si scanna, nel Mondo, con grande godimento di chi – da tutto ciò – ne ricava lucro, profitto e lauto guadagno, così arricchendosi anche grazie a una forte rendita di posizione, solo per il fatto di ‘esserci’, ‘starci’.
Proprio da parte di chi attraverso la Cultura e le Arti, lì a Torino, deve alzarsi forte un grido che non passi inosservato, sepolto da conformismi vari.
Che soubrette, ‘nanerottoli’ che mirano solo ad apparire senza ‘essere’, e finti intellettuali, tacciano: perchè dev’essere un grido cui associarci tutti, affinché non ci si ritrovi attanagliati in una nuova era di terrorismo, un’era preda dei rigurgiti di una violenza cieca e vile che ritenevamo sepolta e che nulla di buono propone per il futuro.
Un futuro il cui orizzonte è sempre più scuro.
Squarciato dai bagliori di guerre, dai lampi di scoppi, dal rosso degli incendi: il tutto segnato dall’intolleranza, dall’odio etnico, dall’insofferenza a ogni dialogo o confronto.
Un futuro affatto degno per i nostri figli, per i nostri nipoti, e per noi stessi… gli ultimi portatori sani di Tradizioni, Valori, Amore Fraterno e Universale.




“Tutte per Donna Sufì”

Sophia Loren a sedici anni.
Ritratto di Sophia Loren, attrice italiana dall’aspetto glamour. Indossa un abito senza spalline, una collana e orecchini di diamanti. Su sfondo bianco, scattato intorno al 1950. (Photo by Silver Screen Collection/Getty Images)

Tutte le strade portano alla realizzazione di un Sogno

Chi non ha avuto almeno un sogno da bambino? 

Poi, strada facendo, c’è chi se ne è scordato, chi lo ha perso fra i grovigli dei più urgenti impegni quotidiani, chi ne ha fatto un hobby preferendogli un lavoro “vero”, chi invece lo ha inseguito fino a raggiungere la vetta del successo e da lì, brillando, illumina il sentiero di chi è ancora in viaggio.

La storia che sto per raccontarvi vede per protagoniste cinque donne, ciascuna nel proprio ruolo, tutte impegnate nello stesso bellissimo progetto: celebrare in un radiodramma lo splendore di una stella di prima grandezza del migliore cinema italiano e internazionale: Sophia Loren. 

Lei, che il suo Sogno lo vive da decenni, può ispirare i sognatori che ambiscano a distinguersi nell’arte cinematografica.

Ed ecco i nomi dei personaggi coinvolti in quest’opera, in ordine di apparizione.

Francesca Giorzi: Responsabile della fiction radiofonica della RSI, la Radio della Svizzera Italiana con sede a Lugano.

Jasmine Laurenti: (la scrivente) giornalista culturale per betapress.it, scrittrice nonché “voce” di Nunziatina, cameriera dell’attrice Sophia Loren nella sua residenza ginevrina.

Francesca Quattromini: attrice amatoriale napoletana, mia provvidenziale “coach” in accento partenopeo.

Margherita Coldesina: Attrice e scrittrice di poesie nonché autrice, regista e coprotagonista del radiodramma dedicato all’intramontabile figura di Sophia Loren.

Mariangela D’Abbraccio: nota e pluripremiata attrice italiana di cinema e teatro, “voce” della Signora Loren.

La cosa che più amo del mestiere di attrice è il suo sorprendermi in modi sempre nuovi e arricchenti.

Questo radiodramma, scritto, diretto e interpretato per la Radio Svizzera Italiana dall’artista ticinese Margherita Coldesina, ne è un esempio. Intorno al suo bellissimo lavoro dedicato a Sophia Loren, ci siamo riunite nello studio otto, presso la sede di Lugano Besso, il 23 aprile scorso; ciascuna con il proprio bagaglio esperienziale, ciascuna in cammino verso la realizzazione del proprio Sogno.

La Chiamata

Ma andiamo per ordine. 

Tutto comincia, per la sottoscritta, il 19 marzo, quando ricevo una chiamata da Francesca Giorzi, responsabile della fiction radiofonica della RSI a Lugano.

“Jasmine, c’è questo personaggio carino, una cameriera napoletana… Come sei messa con l’accento partenopeo?”

“Grazie per aver pensato a me! Sai Francesca, il dialetto napoletano non rientra fra le mie specialità. Temo di non potervi aiutare, stavolta…” 

“Le battute non sono tante, e poi hai più di un mese per prepararti…”

“Vabbè, dai, ci provo.” E mentre lo dico, mi vedo lanciarmi fra le braccia di un tanghero argentino, io, che del tango ignoro pure i passi base. 

Il Mentore

Comincio a passare in rassegna le donne di Napoli che conosco. Mi viene in mente Chiara Sparacio, vicedirettore di Betapress.it, che è di origine siciliana ma vive a Napoli. È lei a mettermi in contatto con la giovane attrice Francesca Quattromini. Quest’ultima si presta gentilmente ad aiutarmi. Le propongo di lasciarmi un vocale su whatsapp, mentre legge le mie battute con accento partenopeo. Il gioco è fatto. Ho la sua traccia. Mi metto subito a “studiare”. Tanto, ho tutto il tempo che mi serve. 

Le Compagne di Viaggio

E arriva il grande giorno, alla radio.

Nella grande sala dove si registrano i radiodrammi, Margherita Coldesina è in postazione nelle vesti di autrice dell’opera, regista e attrice coprotagonista nella parte di… Se stessa!

Sin dalla più tenera età, lei scrive e recita. Il suo sogno è realizzarsi come attrice nel grande cinema. Come chi mira all’eccellenza, prende ispirazione da un’icona del cinema internazionale: Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Sophia Loren.

Ha appena sedici anni quando, sullo scaffale più alto di una videoteca, “incontra” la sua ignara mentore. Consuma, letteralmente, il nastro delle videocassette di novantatré su centoundici film, che vedono la sua stella polare brillare sul set accanto ad altri astri di fama mondiale.

Accanto a lei c’è Mariangela D’Abbraccio: stimata attrice napoletana, figlia e nipote d’arte, ha lavorato coi migliori in ambito cinematografico e teatrale. È lei che darà voce a “Donna Sufì”.

Da parte mia, Nunziatina, ce l’ho messa tutta per calcare le intonazioni suggeritemi da Francesca Quattromini nel suo vocale. Mi sento abbastanza pronta, ma l’incognita è grande. Margherita ha avi partenopei, Mariangela è un’attrice napoletana verace, Francesca pure… In “scova l’intruso” individuarmi è un gioco da ragazzi. 

E va bene, lo confesso: sono un’infiltrata, veneta da parte di padre e di madre. Non ho scampo, ma farò del mio meglio. Sudo freddo. 

La trama del radiodramma

Il radiodramma, che ha il sapore di un sogno lucido, profuma di caffè e ragù come si fanno a Napoli. Si svolge a Ginevra, nell’abitazione della mitica Sophia. Accanto a lei c’è la cameriera, “Nunziatina Esposito nata a Pozzuoli di anni sessantasette”, intenta a preparare il pranzo. 

A un certo punto suona il campanello e, per andare ad aprire, lascia il ragù sul fuoco. Trova una ragazza riversa sul pianerottolo, a “quatt’e bastune”: Margherita, appunto, nei panni della fan della celebre attrice. Le è bastato suonare il campanello e sentire la voce della domestica in arrivo per svenire, letteralmente, per la troppa emozione. Svenimento provvidenziale, il suo: la Loren, per consentire alla giovane donna di riprendersi, non solo decide di accoglierla in casa, ma anche di invitarla a pranzo.

Segue un divertente dialogo fra Sophia e Nunziatina la quale, scocciata per l’imprevisto che l’ha costretta a lasciare incustodito il suo ragù, se ne ritorna in cucina. 

Quindi serve a tavola e lascia le due donne a conversare, gustando il loro piatto di pasta. Tra una forchettata e un sorso di buon vino, Sophia e Margherita si scambiano memorie e aneddoti, via via arricchiti da dettagli inediti rivelati dalla Loren alla sua sempre più entusiasta ammiratrice.

Alla ricerca della Verità

Prima di registrare si fa una prova.

In sala nello studio otto siamo in tre: Margherita nei panni di se stessa, Mariangela nel ruolo di Sophia e la sottoscritta come Nunziatina. 

No, non va: il mio accento suona eccessivo, caricaturale. Ed è così che accade con i non nativi: per fingere di esserlo, si sforzano. Del resto, è quello a cui ci siamo abituati nel teatro goldoniano. Se gli attori non sono veneti, fingono di esserlo e si sente. Insomma: dobbiamo escogitare qualcos’altro. Un lieve accento francese? Un po’ mi dispiace, lo ammetto, per l’impegno che ci ho messo e anche per l’attrice di Napoli, Francesca Quattromini, che tanto gentilmente mi aveva aiutata. Del resto, comprendo che l’obiettivo è la naturalezza, non l’accento napoletano a tutti i costi. Così, si arriva alla conclusione che è meglio accennarlo appena. Interiorizzarlo, addirittura. Il risultato è più che dignitoso. Margherita è felice. Mariangela, sorridente e rilassata, annuisce. Francesca Giorzi entra in sala e ci scatta delle foto, immortalando la nostra avventura.

Funziona. Tiro un sospiro di sollievo. 

Mentre torno col pensiero a quei momenti, realizzo che noi donne eravamo spettatrici del graduale manifestarsi del sogno di Margherita.

L’Autrice infatti, come nelle migliori favole, aveva posto le premesse per avverare ben tre desideri: scrivere per la radio, incontrare di persona il suo Mito e, calcandone le orme, imporsi all’attenzione del grande cinema. 

Le auguro di cuore di seguire il brillìo della sua Stella fino a prenderne il testimone, sulla Vetta riservata a pochi eletti.

Mentre il suo viaggio è in corso, la raggiungo per un’intervista. 

 

L'attrice e scrittrice ticinese Margherita Coldesina

Il Sogno di Margherita Coldesina: “Non c’è nessuna porta”

J.L.: Chi è Margherita, oltre le parole che scrive e interpreta?

M.C.: È quella persona che la sta aspettando alla fermata successiva a quella in cui scende sempre.

J.L.: Qual era il suo sogno da bambina?

M.C.: Fare l’attrice oppure il falegname.

J.L.: A che punto è della sua realizzazione?

M.C.: Il falegname dell’anima sta scolpendo tutte le facce dell’attrice, compresa quella vera, incorruttibile anche dall’arte o dalle richieste di interpretare questo e l’altro personaggio.

J.L.: Aldilà del fatto che sia la leggenda vivente del cinema italiano e internazionale, perché proprio Sophia?

M.C.: Mi ha scelto lei, lei intesa come parte del tutto. Sophia è il frammento di un universo che ho conosciuto intimamente in altre vite, è un espediente incaricato di ricordarmi chi sono e perché sono qui sulla Terra con questa brama di calarmi in ruoli senza cinture di sicurezza allacciate. Quando entro in qualcosa, io ci entro del tutto, mi sporgo da me stessa e rischio tutto.

J.L.: Nella fiaba a lieto fine della tua icona, quali sono i momenti della sua vita privata e professionale che più ti ispirano nei momenti più sfidanti del tuo percorso?

M.C.: È nata sbagliata, con un padre che non l’ha riconosciuta. E invece di subire gli eventi conseguenti a un’infanzia fatta di miseria e fame, ha imbrigliato la sua sofferenza con le redini della disciplina e ha liberato il purosangue che sentiva intuitivamente di essere. E prima o poi, se sei un purosangue, corri talmente veloce che cambi il mondo e chi assiste alla tua corsa. Il coraggio, quando è incarnato, sconvolge, cambia le persone.

J.L.: So che, per poter scrivere di lei, hai passato in rassegna circa tremila tra giornali dell’epoca, riviste, rotocalchi e documenti d’archivio. E poi, le ore che hai trascorso a guardare novantotto dei suoi più che cento film e non una, ma più volte. Infine, ti ci sono voluti due anni per trovare il suo indirizzo di casa a Ginevra. Quanto è importante la perseveranza, nella realizzazione di un sogno?

M.C.: Direi che è l’unico requisito. Ma prima viene il talento. E la cosa bella è che ognuno ne ha uno. Una cosa in cui brilli ce l’hai tu, lui, la barista, quel bambino che gioca a calcio, la signora imbronciata qui vicino che beve un Martini. E col talento, se lo addestri, diventi un supereroe.

J.L.: E se il radiodramma fosse un modo per profetizzare il tuo incontro con Sophia nella vita reale? 

M.C.: Ne sono convinta. Ma, come dicono i saggi: “Tua è l’azione, ma non il frutto dell’azione.” Vedremo.

J.L.: Nell’opera riveli, di Sophia, l’aver vissuto il trauma del non riconoscimento da parte del padre. Se, come ipotizzi, è stato il dolore per quel rifiuto primordiale a spingerla sulla scala di un Successo planetario… Cos’è a spingere te a raggiungere la vetta del tuo successo?

M.C.: Anche io ho un Edipo consistente, mettiamola così. È sempre tutta una faccenda d’amore impastata con la tragedia, la vita. È come venire al mondo: funesto ed epifanico, no?

J.L.: A un certo punto, mentre si rivolge alla cameriera che minaccia di buttare il ragù rimasto a cuocere troppo a lungo, attribuisci alla Loren la frase: “Non l’hai patita tu la fame come me e mia sorella… E zia Dora, e mamma che cercava disperatamente tutto il giorno qualcosa da mangiare per noi, e mica si arrendeva.” E ancora: “Non un mito, ma una diva, sì. Coi piedi bene a terra, perché ho conosciuto la povertà, quella vera, ma ho anche vissuto un mondo dello star system che oggi ve lo sognate.” Sono parole che rendono l’idea di un’infanzia così umile e dura, che sembrerebbe impossibile poter soltanto immaginare, per la protagonista, un radioso futuro. Quanto può incidere e in che modo, secondo te, un critico esordio, sul buon esito di un destino? 

M.C.: Se non hai fame, non seminerai la terra, e non raccoglierai; se ti arrendi a soggiornare nella parte di te più diurna e ti rifiuti di sbirciare cosa c’è nascosto nel precipizio che ogni giorno ti sussurra all’orecchio le emozioni più violente, e le paure, e ciò che è inammissibile per te confessare, allora la vetta che ti è dato conquistare sarà rassicurante come una collinetta, al massimo un monte. Io punto alle stelle: quando arriverò in cima all’Everest cercherò una scala per il cielo e mi appenderò alla coda di un astro.

J.L.: Ecco, come vedi la tua ascesa nello Star System? Ritieni che al giorno d’oggi sia ancora possibile, per un’attrice, cogliere delle Opportunità, pur rimanendo fedele a se stessa e ai propri valori?  

M.C.: Credo che non esistano le epoche, esistono le proprie oscurità dalle quali emanciparsi; e non esistono le opportunità, esiste l’autolegittimazione a illuminare col proprio talento il mondo.

J.L.: Se il primo giro di boa artistico Sophia l’ha fatto grazie al sodalizio con il regista Vittorio De Sica, qual è il regista con cui stringeresti il tuo sodalizio artistico, per il tuo giro di boa?

M.C.: Se fossero vivi: Cassavetes e Visconti. Amo Woody Allen e Carlo Verdone, per restare sulla Terra. Ma anche centinaia di altri. Non è questione di registi, è questione di missione: so che mi verrà incontro chi favorirà l’esercizio di questo mandato che sento di avere.

J.L.: Quanto è importante, per te, il riconoscimento pubblico, come lasciare l’impronta delle proprie mani sulla Walk of Fame o l’assegnazione di un prestigioso premio? 

M.C.: Il mio piccolo io dice tantissimo, non vedo l’ora; il mio sé evoluto sorride. Indovina quale dei due è lecito ascoltare? Quale dei due ti rende più grande (e, di conseguenza, magicamente, artisticamente una bomba)?

J.L.: Sai, ho un debole per la mia bimba interiore. L’ho trascurata troppi anni per non tifare per lei. Oggi è a lei che dò la precedenza. E alla voce del Creatore, che tuona quando serve. Ma torniamo a Margherita. Riusciresti a conservare la tua semplicità, nonostante il Successo? 

M.C.: Chi mi conosce dice di sì. Vedremo, magari comprerò quattro limousine e girerò malvestita purché griffata, diventerò arrogante e smetterò di leggere i grandi maestri d’Oriente. Ma sospetto di no…

J.L.: La scena madre de “La Ciociara”, quella in cui Sophia, nei panni di Cesira, inveisce contro gli stupratori della figlia, è stata girata una volta sola. Com’è immedesimarsi in un ruolo al punto da viverne le emozioni in modo così vero, da non dover ripetere la scena una seconda volta? Come si fa a interpretare un ruolo in modo così autentico?  

M.C.: La bravura di un attore non è frutto di magia: è, banalmente, direttamente proporzionale al suo progresso spirituale in quanto essere umano, tutto lì.

J.L.: Nel tuo radiodramma Sophia dice: “Niente rende una donna più bella della convinzione di essere bella. Te lo devi sentire dentro, qui, nel petto.” Sono parole effettivamente sue, o gliele hai attribuite tu e se sì, in che modo rispecchiano il tuo approccio nei confronti dell’aspetto esteriore di una donna?

M.C.: Sono parole che le ho messo in bocca io, perché Sophia – se la guardi nelle interviste in TV appare in maniera eclatante – è così luminosa e ammantata di fascino perché dentro di sé ha costruito un edificio virtuoso. Una donna bella è bella solo perché è bella dentro, “sennò non ti innamori”. A dispetto di ciò che appare in superficie, la bellezza è meritocratica.

J.L.: Sophia, per te, non è soltanto il trionfo di curve e istinto: è l’emblema dell’incontro fra intelligenza e cuore: lì dove si incontrano il talento e l’opportunità. Come si fa a mettere d’accordo intelligenza e cuore?

M.C.: Avendo coraggio.

J.L.: E come si fa a riconoscere l’Opportunità della vita, quando si presenta?

M.C.: È ineludibile, suppongo. Io di sicuro la riconoscerò come riconoscerei un figlio.

J.L.: Per Sophia il coraggio è – parlando di Picasso – “Sapere di poter corrispondere perfettamente a ciò che vuole il costume dell’epoca – nel suo caso il realismo, e lui disegnava perfettamente – e decidere di spingersi oltre.” Cos’è il coraggio per Margherita?

M.C.: Avere una fede incrollabile nella missione che sento albergare in me. Esserne all’altezza. Proseguire, qualsiasi cosa (non) accada.

J.L.: Alla Loren fai dire: “Il cinema, cosa credi? Non è mica una passeggiata. Il cinema pretende; dà tanto, ma pretende.” A che cosa Margherita è disposta a rinunciare, per amore del suo Sogno?

M.C.: Alla versione di me che ha un minimo dubbio.

J.L.: Prima di lasciarci, vorrei tu dedicassi un pensiero a tutte le donne che stanno avanzando verso la realizzazione del proprio Sogno. 

M.C.: “La chiave è che non c’è nessuna porta.” È una delle mie ultime poesie, sicuramente una fra le mie preferite, ed è anche la frase-guida di un progetto di danza che sto sviluppando insieme a mia sorella Alessia, meravigliosa ballerina, donna e mamma.

J.L.: Ecco, appunto! Stai lavorando a nuovi progetti dietro le quinte? Ti va di anticiparci qualcosa?

M.C.: Quanto tempo abbiamo??!

J.L.: Eh, mi sa che è ora che raggiunga Francesca! (Saltando sul treno per Napoli) Ne parliamo la prossima volta, se ti va! (Esclamo, con voce portata, dal finestrino del treno in corsa).

 

Margherita Coldesina: Attrice, Scrittrice e Autrice di Radiodrammi per la Radio Svizzera Italiana

Il Sogno di Francesca Quattromini: “Illuminare il mondo”

Come già detto, a Francesca ho affidato le battute di Nunziatina, affinché le leggesse con accento napoletano in un vocale da inviarmi su whatsapp.

Riascoltando il suo messaggio più volte, sono riuscita – proprio io, veneta dal paleolitico da parte di padre e di madre – a interpretare il ruolo di una nativa di Pozzuoli che, in Svizzera da decenni, conserva ancora un’ombra delle proprie origini, nel modo di parlare spiccio e ironico.  

Attrice “non professionista” come tiene a precisare, recita da quando aveva tredici anni. Oggi va per i trentotto, ed è sempre attiva nel teatro amatoriale e nella produzione di audio fiction. Per lei la gavetta è quasi più importante del raggiungimento della… Vetta. 

La raggiungo per una breve chiacchierata e, visto che ci sono, le chiedo se ha un Sogno nel cassetto. Tutto quello che so, al momento, è che il 9 giugno prossimo, al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (Napoli), sarà protagonista della commedia in due atti di Salvatore Barruffo “Un mistero al cimitero”. 

J.L.: A tredici anni hai preso parte a un laboratorio teatrale e da lì, non hai più smesso di recitare…

F.Q.: A undici anni, con le mie amiche, giocavo a interpretare i personaggi di alcuni film. È da lì che è nata, in me, la voglia di recitare. Poi un giorno mia madre venne a sapere che, vicino a dove abitavamo, si svolgeva un laboratorio teatrale. È lì che si è accesa in me la passione per il teatro, che amo con tutta me stessa.

J.L.: Hai preso parte a delle audio fiction con Yuri Salvatore (figlio dello scomparso artista napoletano Federico Salvatore, famoso per la sua canzone “Sulla Porta” ndr). Cosa ti ha lasciato questa esperienza come “voce”? Ti ha aiutata a crescere anche come attrice teatrale e se sì, in che modo?

F.Q.: Sono contentissima di aver preso parte a due audio fiction di Yuri Salvatore. Ha fondato la compagnia “Le Voci di Dentro”, di cui fanno parte attori di tutta Italia. Ogni attore manda a Yuri la registrazione della propria voce, così che possa essere aggiunta alle altre nella creazione dell’audio fiction. Aver potuto collaborare con lui mi ha arricchita tantissimo. Per noi attori, infatti, abituati ad avvalerci della gestualità e della mimica facciale per esprimere emozioni, riuscire a farlo con la voce soltanto è cosa non da poco. E poi, tieni conto che “Le Voci di Dentro” è nato proprio nel 2020, nel periodo più difficile per noi artisti, che non potevamo fare praticamente niente. Il suo è stato un modo per non far morire l’arte.

J.L.: Che consiglio daresti a chi volesse fare l’attore teatrale?

F.Q.: Il consiglio che gli darei è di non correre e fare la gavetta. Purtroppo i giovani d’oggi, anche per colpa dei talent, vogliono tutto e subito. Ma non funziona così. Se vuoi fare teatro, ad esempio, devi cominciare da zero e, magari, portare il caffè agli attori bravi cercando di carpire loro, dietro le quinte, i segreti del mestiere. Poi, pian pianino, iniziare con parti piccole e andare avanti, un passo alla volta, fino ad arrivare in cima. Se parti dalla vetta non impari nulla e “ti bruci”.

J.L.: So che sei stata scelta come protagonista di “Un Mistero al Cimitero”, commedia in due atti scritta e diretta da Salvatore Barruffo, in cartellone il prossimo 9 giugno al Teatro Il Piccolo a Fuorigrotta (NA).

F.Q.: Sì, reciterò il 9 giugno nella commedia “Un Mistero al Cimitero” del maestro Salvatore Barruffo, che recita da oltre quarant’anni – ha preso parte a “Un Posto al Sole” e a “La Squadra” – ha scritto moltissime commedie ed è autore di libri come “Cercasi cuore disperatamente” e “Tre casi per casa”.

J.L.: È la prima volta che reciti da protagonista?

F.Q.: No, non è la prima volta, ho interpretato il ruolo di Lisetta nella versione di Gianfranco Gallo della Lisistrata, “Quartieri Spagnoli”. Stavolta però è diverso, il personaggio di Lucia in “Un Mistero al Cimitero” è più importante… 

J.L.: Importante al punto di farti cambiare idea riguardo al tuo futuro come attrice di professione?

F.Q.: No, non cambio idea su questo. Non mi interessa né guadagnarci, né partire per le tournée. Sono felice della mia vita privata e disposta a tutto pur di proteggerla. A maggior ragione, ringrazio il maestro Salvatore Barruffo per avermi dato questa opportunità: lui ha visto e vede in me tante qualità. Lo ringrazio dal profondo del mio cuore, ma sto bene così. 

J.L.: Prendendo a pretesto il radiodramma scritto e diretto per la Radio Svizzera dall’attrice Margherita Coldesina, abbiamo parlato di sogni e del nostro viaggio verso la loro realizzazione. Qual è il tuo Sogno?

F.Q.: Il mio sogno è mantenere accesa, in me, la luce del mio amore per il teatro, che amo immensamente ed è una parte di me, e un’altra luce più grande: l’amore che sento per le persone che mi circondano e per la mia famiglia, mio figlio e mio marito. Il mio sogno è rimanere una fonte di positività per chi mi sta accanto e, per grazia di Dio, essere una brava persona. Mi auguro di riuscirci. 

J.L.: Grazie ancora Francesca, per avermi aiutata ad acquisire una prosodia partenopea! 

F.Q.: Grazie a te Jasmine ♥

 

 

 




Non esistono le gite scolastiche!

la normativa di riferimento in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero è composta dal DPR dell’8/03/1999 n. 275 e del 6/11/2000 n. 347 che hanno dato completa autonomia alle istituzioni scolastiche anche in materia di uscite/visite guidate e viaggi di istruzione, in Italia e all’estero.

Per amore di legge ricordiamo che le gite scolastiche non esistono, ma esistono i viaggi/uscite di istruzione, ma soprattutto  non sono semplicemente “premi” o interruzioni dal curriculum standard, ma componenti fondamentali di un sistema educativo che mira a formare individui ben arrotondati, critici e consapevoli.

Integrando le uscite didattiche con il curriculum regolare, le scuole possono arricchire notevolmente l’esperienza educativa degli studenti, preparandoli meglio a interagire con il mondo in modo informato ed efficace, infatti la norma di riferimento dice che:

L'autonomia delle istituzioni scolastiche e' garanzia di  liberta'
di insegnamento e  di  pluralismo  culturale  e  si  sostanzia  nella
progettazione e nella  realizzazione  di  interventi  di  educazione,
formazione e istruzione mirati allo  sviluppo  della  persona  umana,
adeguati ai diversi contesti, alla  domanda  delle  famiglie  e  alle
caratteristiche  specifiche  dei  soggetti  coinvolti,  al  fine   di
garantire loro il successo formativo, coerentemente con le  finalita'
e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e  con  l'esigenza
di  migliorare  l'efficacia  del  processo  di  insegnamento   e   di
apprendimento.

Da questo ne declina che le uscite didattiche sono interventi formativi integrati nella progettazione degli interventi educativi, a tutti gli effetti fanno parte del programma.

Le gite scolastiche, frequentemente percepite solo come momenti di svago o ricompense per gli studenti, rivestono in realtà un ruolo ben più significativo e sostanziale nel contesto educativo.

Queste esperienze sono parte integrante del processo di apprendimento, poiché contribuiscono allo sviluppo personale e culturale degli studenti in modi che l’ambiente convenzionale di una classe non può sempre offrire.

Le gite scolastiche contribuiscono vieppiù a una visione più olistica dell’educazione, che va oltre la semplice trasmissione di conoscenze.

Esse promuovono una comprensione più completa della realtà, incoraggiando gli studenti a sviluppare una coscienza critica e una migliore comprensione delle diverse sfaccettature sociali, storiche e ambientali.

In questo senso sono inspiegabili le esclusioni degli studenti dalle gite o la scelta di parteciparvi in conseguenza dell’andamento del voto di condotta.

Sarebbe un poco come dire che se un ragazzo ha un voto di condotta basso viene escluso da alcune lezioni, magari dalle più divertenti, per fargli sentire meglio la punizione.

I viaggi di istruzione non devono essere visti come un premio, al contrario sono dei momenti educativi molto importanti che dovrebbero richiedere agli studenti impegno ancora maggiore.

E’ veramente grave dal punto di vista educativo usare uno strumento a tutti gli effetti di programma per dare un contentino o una punizione agli alunni.

Il mondo della scuola dovrebbe fare una seria riflessione sull’argomento, valutandone le conseguenze e gli eventuali messaggi sbagliati che ne derivano.

Io credo che chi parla di certi argomenti dovrebbe conoscerli, ma purtroppo spesso non li conosce nemmeno chi siede al ministero, quindi di cosa ci meravigliamo? 




Alla scoperta della Teoria del Ponte Empatico nelle Organizzazioni

Betapress: Grazie per essere qui con noi oggi dott. Faletti. Lei gioca un poco in casa essendo anche il direttore di questa testata.

Faletti: Si in effetti credo molto nella divulgazione e il giornalismo fatto bene è sempre stato un mio peculiare interesse. Da ormai vent’anni svolgo attività nel mondo del giornalismo in tantissime forme.

Betapress: La “Teoria del Ponte Empatico” è una nozione che sta guadagnando molta attenzione nel mondo aziendale. Potrebbe spiegare cosa rappresenta questa teoria e come è nata?

Faletti: La Teoria del Ponte Empatico ha ormai nella mia mente più di vent’anni di gestazione, deriva da un saggio che avevo scritto, ovvero l’organizzazione fruibile, e prende spunto dalla necessità di comprendere e migliorare le interazioni all’interno delle organizzazioni, specialmente tra gruppi diversi. È basata sull’idea che l’empatia—la capacità di comprendere e condividere i sentimenti altrui—possa servire come un “ponte” per superare differenze e barriere, facilitando una collaborazione più profonda e significativa.

Betapress: Interessante. Ricordo che Lei ha anche molti titoli in Pedagogia, e da anni si occupa di questa scienza, come si applica concretamente questa teoria all’interno di un’organizzazione?

Faletti: Si in effetti il mio lavoro di pedagogista mi ha molto aiutato nel definire questa teoria del ponte empatico, soprattutto interagendo nei molti ruoli lavorativi da me ricoperti; ho avuto modo di definire la teoria che si focalizza su tre pilastri principali: formazione, leadership e politiche organizzative. Per impiantare il Ponte nell’organizzazione occorre partire da  workshop di formazione per sviluppare le competenze empatiche dei dipendenti a tutti i livelli. I leader, inoltre, sono formati per riconoscere ed esprimere empatia, agendo da modello per i loro team. Infine, le politiche organizzative sono rivedute per assicurare che promuovano inclusione e comprensione reciproca.

Betapress: Quali potrebbero essere le sfide nel promuovere questa teoria nel contesto aziendale?

Faletti: Una delle maggiori sfide sarà quella di convincere le leadership aziendali che l’empatia non è solo una “bella qualità” da avere, ma una componente essenziale per il successo e la sostenibilità aziendale. Inoltre, c’è sempre il rischio di resistenza al cambiamento, specialmente in organizzazioni con culture ben radicate che valorizzano la competitività rispetto alla collaborazione.

Betapress: Ha riscontri su come la teoria possa impattare nelle organizzazioni ?

Faletti: Sì, da piccoli esperimenti da me realizzati sui luoghi di lavoro i risultati sono molto positivi. Le organizzazioni in cui ho provato ad implementare la teoria hanno mostrato un miglioramento nel morale dei dipendenti, una diminuzione dei conflitti interni e un incremento della collaborazione. Questo non solo migliora l’ambiente lavorativo ma spesso si traduce anche in migliori performance complessive. E’ solo, per ora, un percorso minimale quello da me fatto, ma i risultati sono promettenti.

Betapress: Qual è il suo obiettivo a lungo termine con la Teoria del Ponte Empatico?

Faletti: Il nostro obiettivo è vedere questa teoria adottata come standard nel mondo organizzativo. Vogliamo che diventi una prassi comune considerare l’empatia non solo come una competenza sociale, ma come una strategia di business cruciale, essenziale per la crescita e l’innovazione sostenibili.

Betapress: riesce a darci un assaggio di come è costruita questa teoria?.

Faletti: L’elaborazione di una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali ha richiesto una riflessione profonda su come le relazioni interpersonali e intergruppi possano essere orientate e strutturate per promuovere una collaborazione efficace e un benessere collettivo.

Una tale teoria è strutturata attorno a vari pilastri fondamentali che includono la comprensione, la comunicazione, la condivisione di esperienze e la promozione di una cultura dell’empatia.

Ho sviluppato un approccio teorico basato su questi elementi che riassumo per brevità:

Definizione e riconoscimento dell’empatia intergruppi

L’empatia intergruppi può essere definita come la capacità di comprendere e condividere i sentimenti e le prospettive di membri di altri gruppi sociali, e di essere motivati a rispondere con compassione alle loro esigenze e difficoltà.

Questo richiede un riconoscimento attivo delle differenze e delle somiglianze tra gruppi, senza cadere nella trappola di stereotipi e pregiudizi.

Sviluppo di competenze empatiche

Per favorire l’empatia tra gruppi diversi, è essenziale promuovere l’educazione e la formazione sulle competenze empatiche all’interno delle organizzazioni.

Questo include la formazione su ascolto attivo, comunicazione non violenta, e tecniche di risoluzione dei conflitti.

Inoltre, le simulazioni e i giochi di ruolo possono essere utilizzati per permettere ai membri di sperimentare situazioni dal punto di vista degli altri.

Strutture e politiche organizzative

Le strutture organizzative dovrebbero essere progettate per promuovere incontri e collaborazioni tra gruppi diversi.

Ciò può includere la creazione di team misti su progetti, programmi di scambio tra diversi settori o dipartimenti, e la creazione di comitati di diversità e inclusione che lavorano attivamente per identificare e abbattere le barriere all’empatia intergruppi.

Leadership empatica

La leadership gioca un ruolo cruciale nel modellare la cultura organizzativa. Leader empatici possono servire da modelli, mostrando come l’empatia possa guidare decisioni etiche e giuste.

Essi dovrebbero essere formati per riconoscere e valorizzare le diversità, facilitare dialoghi aperti tra gruppi e intervenire in modo costruttivo quando emergono tensioni.

Valutazione e feedback

Una cultura basata sull’empatia richiede meccanismi di valutazione e feedback che non solo misurino il successo in termini di risultati economici, ma anche in termini di benessere sociale e collaborazione tra gruppi.

Feedback regolari possono aiutare a identificare le aree di miglioramento e a celebrare i successi nel costruire un ambiente organizzativo più empatico.

Ricerca e sviluppo continuo

Infine, è vitale che le organizzazioni investano nella ricerca continua sulle dinamiche di gruppo e sull’empatia intergruppi.

Ciò può includere collaborazioni con accademici e istituti di ricerca per studiare l’efficacia delle politiche implementate e per esplorare nuove strategie per rafforzare l’empatia organizzativa.

In conclusione, una teoria organizzativa basata sull’empatia tra i gruppi sociali può offrire un potente framework per costruire organizzazioni più inclusive, resilienti e produttive.

Promuovere l’empatia non solo migliora il clima interno, ma può anche rafforzare la reputazione dell’organizzazione all’esterno, attrarre e trattenere talenti, e promuovere l’innovazione attraverso una maggiore comprensione e collaborazione tra diversi gruppi sociali.

Betapress: Grazie per aver condiviso queste intuizioni con noi. Sembra davvero che la Teoria del Ponte Empatico possa essere un cambio di paradigma per il futuro del lavoro, uscirà anche un libro?

Faletti: Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma sono fiducioso che possiamo costruire ponti di empatia che porteranno a un futuro più collaborativo e inclusivo per tutti, si un libro è già in lavorazione come può vedere dalla bozza di copertina.