La storia della bambola di sale

La storia della bambola di sale

C’era una volta una bambola di sale.

La bambola aveva un sogno: voleva vedere il mare.

Non c’era un giorno o un secondo che lei non pensasse al mare.

Non lo aveva mai visto, non sapeva come poteva essere fatto, però sapeva che doveva esserci e che lei voleva vederlo.

Tutti deridevano la bambola e il suo assurdo sogno.

Ma lei era sorda a critiche, biasimi e tentativi di scoraggiamento.

Fu così che un giorno prese una decisione e disse a tutti che sarebbe partita.

Salutò i genitori, gli amici e gli affetti.

“Ragiona” le dissero.

Ma lei aveva già ragionato.

E allora lasciò tutti e, sola, si mise in viaggio.

Camminò e viaggiò.

Affrontò notti buie e lunghi silenzi.

Ma lei voleva arrivare al mare.

Ad un certo punto si trovò davanti a una vastità di acqua e sentì di aver trovato quello che cercava.

Si avvicinò e una piccola onda le toccò il piede.

Fu un dolore mai provato.

In quel momento sentì un forte bruciore e si tirò indietro.

E capì.

Nonostante il dolore che la corrodeva, saltellò con l’unico piede nuovamente verso l’onda e di nuovo sentì il bruciore che la corrodeva ma non si fermò e andò avanti e si sciolse. 

Le gambe, il busto, le braccia, il collo e, prima di scomparire, mormorò: “io sono il mare”.


Dedicato a chi cerca il mare

che non sa come è fatto e, in un certo senso, non ha neppure la certezza che esiste, però ha il coraggio di separarsi dalle certezze e dalle sicurezze per cambiarsi in qualcosa di infinito.

 

Crediti

Storia ispirata a Il canto degli uccelli: frammenti di saggezza nelle grandi religioni di Antony De Mello

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Il brutto anatroccolo siamo noi

La Storia del brutto anatroccolo

C’era una volta un uovo.

Quest’uovo un giorno si schiuse e diede alla luce il più brutto anatroccolo che si fosse mai visto.

Sgraziato, deforme e dalla voce assordante.

Piano piano persino la mamma comincio a vergognarsi di quel figlio.

Così, disprezzato da tutti e con la profonda convinzione di essere sbagliato, andò via.

Non sapeva dove ma se ne andò.

Gli amici che incontrava per strada finivano per fargli del male.

Appena sentivano che era un anatroccolo, lo prendevano in giro per la sua bruttezza e deformità.

Più di una volta cercò di morire ma c’era sempre un imprevisto che lo salvava, e un po’ era forse anche per quel suo desiderio di vita anche se doloroso da affrontare.

Si chiedeva perché fosse così sbagliato mentre al mondo esistevano creature perfette.

Alcune le incrociava alle volte per caso: creature bellissime che nuotavano e volavano con una eleganza ipnotizzante.

Una volta scoprì che si chiamavano cigni.

La visione dei cigni, il contatto con la loro bellezza, creava un tuffo al cuore del brutto anatroccolo.

Sentiva il desiderio di voler appartenere a quella razza e il dolore di non sentirsi degno di avvicinarsi.

Tutte le volte che li incontrava volare sopra di lui, i cigni gli urlavano contro per la sua bruttura.

Ci vollero stagioni e dolori.

Un giorno il brutto anatroccolo, ormai cresciuto, mentre nuotava solo e triste, si imbatté per errore in un gruppo di cigni che facevano il bagno.

I primi sentimenti furono la mortificazione e l’imbarazzo e, il primo istinto, la fuga.

Ma prima che le emozioni arrivassero pienamente e facessero fuggire il brutto anatroccolo, i cigni tornarono a parlare.

E da vicino, questa volta, capí le loro parole.

Non erano urla di disprezzo ma saluti.

I cigni dissero all’anatroccolo confuso di specchiarsi e di riconoscersi

E fu allora che capí che per tutta la vita e attraverso tutti i dolori, non era stato un brutto anatroccolo ma un bellissimo cigno.


Dedicata a tutte le persone che soffriranno sempre finché non capiscono chi sono e dove stanno quelli della loro razza.

Dedicata a chi cerca il coraggio di dire “non sono quello che pensi”.

Dedicata a chi cerca la forza di confrontarsi col proprio specchio.

 

Crediti
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L’umile fioraia, la figlia talentuosa e il seme della presunzione

C’era una volta una umile fioraia.

Nel villaggio tutti conoscevano l’umile fioraia e tutti andavano a comprare i fiori da lei.

Era brava nel suo lavoro e tutti le volevano bene.

La fioraia aveva una figlia che cresceva nella sua bottega.

La bambina aveva molta passione per i fiori e osservava con fame di sapere tutto quello che faceva e diceva la madre.

La madre insegnò alla figlia tutto quello che sapeva.

Poiché l’umile fioraia sapeva che il talento va nutrito per diventare virtù,
quando capì che la figlia era migliore di lei e lei non aveva più nulla da insegnarle, cercò in giro a chi poter affidare la figlia talentuosa.

Cercò e cercò
Chiese e chiese
Verificò e verificò.

Fu così che seppe che in un villaggio lontano viveva la regina dei fiori.
Una coltivatrice di fiori con grande esperienza e tanto da insegnare.

L’umile fioraia prese la figlia talentuosa e la accompagnò, attraverso valli, fiumi e montagne, dalla regina dei fiori affinché imparasse da lei.

La regina dei fiori prese in simpatia la figlia talentuosa tanto che desiderò farla diventare coltivatrice.

Ogni volta la regina dei fiori insegnava qualcosa alla figlia talentuosa e la rimandava a casa affinché applicasse la regola sul suo piccolo e nascente giardino.

La figlia talentuosa era diventata così brava e famosa che nel villaggio e dai villaggi vicini altre figlie volevano imparare la virtù.

Così chiesero aiuto all’umile fioraia che, di buon grado, insegnava loro tutto ciò che sapeva per coltivare il talento e poi le mandava a imparare la virtù dalla regina dei fiori.

Fu un periodo bellissimo:

Nel villaggio e nei villaggi vicini era tutto un fiorire di nuovi bellissimi giardini e l’aria era piena di inebrianti profumi.

Un giorno accadde una cosa.
Un seme nero e sconosciuto germogliò nel cuore della fioraia e fece sbocciare un pensiero triste nella sua mente:

“Ormai sono anni che accompagno la mia virtuosa figlia dalla regina dei fiori.
Ho ascoltato ogni sua parola e visto mettere in pratica ogni suo insegnamento.
Cosa ha oggi la regina dei fiori da insegnare alle mie allieve che io non sappia già?”

Quello fu l’inizio della fine.

Purtroppo una fioraia, a differenza di una coltivatrice, non conosce la natura dei semi e non sa come estirpare le piante maligne.

E così il triste fiore divenne, nel cuore della fioraia, una robusta pianta infestante.

Da allora, a poco a poco, l’arida fioraia dissuase le sue giovani giardiniere dall’affrontare tutti quei viaggi e quei disagi dicendo che avrebbe lei insegnato quello che c’era da imparare.

Sua figlia, d’altronde, era la prova della sua bravura.

Le giovani giardiniere si fidarono della loro maestra e si affidarono a lei per i loro giardini.

Ma una fioraia non è una coltivatrice.

La fioraia sa scegliere i fiori e farne belle confezioni,
sa insegnare come migliorare la vita delle piante
ma non sa nulla di come si prepara la terra e di quante stagioni cattive bisogna aspettare per averne una buona.

Né come fronteggiare le condizioni avverse per trasformarle in propizie.

La fioraia sa curare ma non conosce la pazienza della coltivatrice.

È facile allora immaginare quello che accadde:

nel giro di poco la bellezza cominciò a venir meno e i profumi si affievolirono.

Per colpa della presunzione della fioraia i giardini cominciarono a seccare.

Alcuni mantennero qualcosa di bello, ma molti altri andarono perduti.

Tra chi scelse di continuare a fidarsi della fioraia presuntuosa, chi aveva talento lo mantenne ma tutta la virtù andò perduta.

Delle altre non sappiamo in questa fiaba.

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Dedicato ai delicati animi che hanno trovato il loro talento e lo vogliono trasformare e consolidare ogni giorno in virtù.

Che nessuno pensi mai che la conquista delle virtù possa essere fatta e mantenuta con la comodità.