Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

La prima cosa che mi ha sorpreso di questo impegnativo ma remunerativo film è stata la fila, quasi una ressa, che ho trovato alla biglietteria.

l,Ho mancato il sold out per poco!

Questo mi aiuta a pensare che il ventennio berlusconiano e quello che ne è seguito non siano ancora riusciti a schiantare la testa degli italiani.

Almeno una sparuta minoranza resiste e si era data appuntamento nella sala del cinema Oberdan di Milano qualche sera fa, per seguire un documentario di più di due ore sul pensiero della grande filosofa tedesca Hannah Arendt, per la regia di Ada Ushpiz. 

Vita Activa, the spirit of Hannah Arendt è un film molto diverso dal bellissimo film di Margarethe Von Trotta del 2012 ed interpetato da Barbara Sukowa nella parte di Hannah Arendt.

E’ molto diverso per la tecnica narrativa, per il genere, per il ritmo della narrazione ma al tempo stesso è fortemente complementare per la conoscenza del pensiero della filosofa ebrea tedesca e  soprattutto per la comprensione delle fortissime controversie che originarono dal suo reportage del processo ad Adolf Eichman, primo processo a svolgersi contro i crimini contro l’umanità e dalla sua originalissima ed innovativa analisi sulla natura psicologica del male, esposta nel suo libro “La banalità del male”.

Quando fu pubblicato nel 1966 il suo libro scatenò una reazione violenta sia per le tesi originali sulla qualificazione del male sottostante al fenomeno nazista sia per la chiamata di corresponsabilità che la Arendt fece nei confronti dell’operato dei dirigenti delle comunità ebraiche e dei Sonderkommando, sostenendo senza mezzi termini che la macchina dello sterminio non sarebbe stata così efficiente ed efficace se alcuni di loro avessero collaborato con minore zelo.

Anche il concetto di banalità del male, intriso di profondo significato filosofico, fu inteso dai più come una svalutazione delle atrocità e dei crimini commessi dai nazisti e provocò, nonostante i ripetuti tentativi della filosofa di precisarne l’esatto significato, contestazioni molto forti da parte della comunità ebraica.

Non posso fare a meno di ricordare, a tale proposito, una scena bellissima per intensità e passione, del film sopra citato della Von Trotta, dove la filosofa spiega ai suoi studenti il significato che attribuiva alla formula utilizzata e perché considerava quel male banale, chiarendo che la banalità era dovuta al fatto che esso era frutto dell’operato di persone normali, che a casa conducevano esistenze ordinarie, ma inserite in una burocrazia spietata all’interno della quale erano incapaci di rifiutarsi di compiere azioni atroci e di far prevalere la voce della propria coscienza sul principio di obbedienza e di esecuzione acritica del proprio dovere.

Il documentario racconta la vita privata ed intellettuale della Arendt, non meno controversa delle sue idee sulla banalità del male, mostrando anche i luoghi dove la filosofa ha vissuto e lavorato e dando spazio alla sua relazione con il filosofo Martin Heidegger, noto sostenitore del nazismo e offre a chiunque sia appassionato della storia del XX secolo spunti di approfondimento e riflessione profondi anche sulle questioni politiche del presente, relative al rafforzamento dei nazionalismi e dei populismi, alle tendenze isolazioniste, al rinascere di tendenze contrarie alla società aperta, alla condizione dei rifugiati  gli atteggiamenti ostili che molti paesi stanno adottando nei confronti dei rifugiati.   

Non era facile realizzare un documentario su questioni filosofiche così impegnative senza perdere il ritmo narrativo e senza rischiare di annoiare lo spettatore.

Fermo restando la difficoltà della materia e l’impegno richiesto la regista è riuscita nello scopo alternando in modo creativo interviste, spezzoni di film di epoca, lettura di lettere. 

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress