Lasciar seccare i fichi

Quasi alla fine del suo viaggio, poco prima di rientrare a Gerusalemme,

Mentre usciva dalla Betania assieme ai suoi discepoli e al suo stuolo di seguaci,

Gesù ebbe fame.

Vide in lontananza un fico molto bello e rigoglioso e gli si avvicinò

ma il fico aveva solo foglie e nessun frutto perché non era stagione.

Così Gesù lo fece seccare fino alle radici.

Non c’è bisogno di ripassare ogni mese il catechismo dei fanciulli per aspettarsi da Gesù una fine differente 

qualcosa tipo “Gesù allora guardò il fico e lo fece fruttare”

insomma di quelle cose tipo la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la trasformazione dell’acqua in vino che lasciano contenti tutti.

Ecco roba così.

Invece no.

Invece Gesù fa seccare il fico.

Il fatto è che questa storia racconta qualcosa in più.

Questa storia ci parla delle nostre relazioni.

Alle volte ci troviamo ad aver costruito delle relazioni 

Sentimentali,

Lavorative,

Amicali

sulle quali abbiamo speso tempo ed energia 

e abbiamo fatto bene perché questa relazioni sono diventate una bella pianta 

alta, vigorosa e piena di foglie.

In molti casi, questa relazione ha anche portato frutti e sfamato passanti nel periodo di produzione.

Poi però la stagione è cambiata.

La relazione è rimasta apparentemente florida ma è sterile.

E, per questo, deve seccare.

Il fatto che chi fa seccare il fico sia un personaggio, un maestro che si è sempre distinto per la sua bontà,

ci fa capire che tutto quello che c’era da tentare era stato tentato:

non era più stagione di fichi e non lo sarebbe mai più stato.

Quel fico sulla strada avrebbe solo ingannato i viaggiatori e non avrebbe dato loro nulla di buono se non l’illusione.

Il fatto che sia stato Gesù a farlo seccare, ci dà la certezza che non c’era più nulla da fare.

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La stessa cosa succede a noi.

Ci sono delle relazioni che hanno portato frutti e gioie ma, passata la loro stagione, devono morire.

Si fa di tutto per salvarle, si aspetta tutto il tempo dovuto

ma poi bisogna mollare perché il fico deve seccare.

Non succede a tutte le relazioni, alcune continuano a fare frutti.

Forse hanno avuto un terreno migliore,

forse sono state curate meglio 

forse l’esposizione al sole e la protezione dal vento

forse solo la natura.

Alcune relazioni vanno chiuse per il bene di tutti.

L’accanimento nell’illusione non porta alla santità.

Solo ciò che porta frutto deve rimanere vivo.

L’unico modo che abbiamo per migliorare e portare nuovi frutti è chiudere in pace vecchie relazioni e iniziarne di nuove.




L’indemoniato dentro le nostre identità

Le scritture sacre nascondo spunti psicologici profondi.

immaginiamo una rivisitazione del brano riportato in Matteo 8; 28-34

 

Tu non sei quello che credi,

tu non sei quello che racconti, 

e, alla fine, non mi interessa neppure sapere chi sei.

Nel senso che ognuno di noi, a meno che non sia una eccezione, è  naturalmente composto da una infinità di “io”.

Per questo non dobbiamo parlare di noi in prima persona: perché sappiamo che un secondo dopo avremo mentito.

E per questo motivo quello che scriviamo adesso, tra un secondo non sarà più valido.

Ecco il nostro aspetto diabolico.

Ecco da cosa siamo separati: da noi stessi.

 

Un giorno Gesù attraversava la Giordania e gli venne incontro un uomo posseduto dal demonio.

Quest’uomo  viveva nei sepolcri, spaccava catene, spezzava ceppi, era indomabile, urlava e i percuoteva con pietre.

E lui si chiamava Legione “perché erano tanti” e dichiarava di non voler aver nulla a che fare con Gesù che rappresentava la totalità, ovvero l’unità tra il dire e il fare.

La storia finisce con Gesù che scaccia i demoni nel corpo di porci suicidi che si lanciano da un dirupo.

Ed è la stessa fine che facciamo noi quando le nostre parole non combaciano con le nostre azioni: diventiamo dei porci suicidi.

Suicidi perché prima o poi, correndo all’impazzata tra le nostre incoerenze, ci tufferemo nel burrone.

Gurdjeff diceva che l’uomo è una pluralità e il suo nome è Legione.

“Ad ogni attimo, 

ad ogni momento

l’uomo dice e pensa “io”.

Ed ogni volta il suo “io” è differente

[…]

è la tragedia dell’essere umano, che qualunque piccolo “io” abbia così il potere di firmare assegni e cambiali e che sia in seguito l’uomo, ossia la totalità, che debba farvi fronte”

 

Per questo non dobbiamo parlare o promettere, impariamo a non prendere impegni che altri migliori di noi dovranno saldare.




Il perdono di Giuda

Quando Giuda contò i suoi trenta denari e capì che né quelli né mille volte quelli potevano comprare quello che cercava, si sentì perso.

Giuda aveva fatto il più grande sbaglio della sua vita,

aveva preso tutto quello per cui aveva vissuto e lo aveva venduto 

e quel che era peggio, era che in mano si trovava delle monete senza valore,

delle monete che non erano buone neppure per essere donate ai poveri perché erano macchiate dell’errore.

Agli occhi di Giuda e di chi lo giudicava, nulla di quello che aveva fatto, era buono o poteva diventarlo.

Giuda aveva fatto una azione per distinguersi e si è trovato con nulla in mano e una infinità di sensi di colpa.

A me Giuda fa pena.

Giuda siamo noi quando sbagliamo,

quando facciamo gli errori grandi,

quelli veramente grandi.

Giuda siamo noi quando facciamo del male e compiamo una di quelle azioni che cambiano tutto, 

una di quelle azioni dopo le quali nulla sarà più come prima.

Giuda siamo noi quando quella azione è una azione che fa del male.

Giuda siamo noi quando agiamo male.

Giuda però, DOVEVA farlo.

A pensarci bene, senza Giuda gli uomini non avrebbero trovato salvezza.

Se Giuda non avesse tradito, Gesù non sarebbe diventato Cristo.

Il tradimento di Giuda era una tappa obbligatoria per la salvezza del mondo.

E allora dov’è il peccato di Giuda?

Il peccato di Giuda è sempre lo stesso.

L’unico e solo peccato riconosciuto ufficialmente come tale dal Concilio Vaticano II ad oggi (giuro: l’unico).

Il peccato di Giuda è stato non accettare l’amore di Dio, 

non accettare il perdono di Dio.

Giuda è stato talmente tanto male da non credere di meritare il perdono,

perché l’aveva fatta davvero grossa,

perché tutti ce l’avevano con lui,

perché lui stesso, per primo, si vergognava.

Si vergognava talmente tanto da non riuscire a pentirsi 

e, così, non riuscendo a perdonarsi, si è condannato.

Dio, da contratto, lo avrebbe perdonato ma lui non ha perdonato sé stesso.

E fu così che Giuda si allontanò, scelse un albero e si impiccò

e morì strozzato dai suoi sensi di colpa.

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Noi lo facciamo di continuo.

Sbagliamo,

non ci perdoniamo,

e facciamo una serie sistematica di piccoli gesti che, negli anni, ci portano alla morte.

Pensiamo di non meritare amore e scegliamo persone che non ci amano,

pensiamo di non meritare dignità e intraprendiamo strade che ci mortificano,

pensiamo di non meritare successo e intraprendiamo strade che ci portano al baratro.

Lo vediamo ogni giorno nelle persone che soffrono senza perdonarsi,

in chi ha scelto di vivere per strada perché fugge da una sua vecchia vita,

in chi non vuole chiarire un malinteso perché non crede di meritare perdono.

I primi che devono perdonare i propri errori siamo noi stessi,

Giuda non doveva morire.