THE “LORD” OF THE HAMMOND

 

«Senza l’organo di Jon Lord i Deep Purple non sarebbero mai esistiti!» Pare un’affermazione scontata quella data dall’amico e batterista Ian Paice, ma non lo è affatto.

Jon Douglas Lord (Leicester, 9 giugno 1941Londra, 16 luglio 2012), storico tastierista dei Deep Purple è stato un vero genio! Nel periodo  più caldo delle innovazioni tecnologiche (vedi moog ed il suo spasmodico utilizzo da parte di moltissime formazioni rock e progressive fine anni ’60, compresi i Beatles e pure la mitica Premiata Forneria Marconi di Franz Di Cioccio; n.d.a.) Lord rimase fedele al suo Hammond, sperimentando la distorsione del suono e utilizzando l’organo in modo innovativo, quasi come fosse una chitarra elettrica.

Precursori del metal i Deep Purple infatti devono molto alle scale pentatoniche minori di Lord amplificate da processori Marshall.

Basti pensare ai suoi assolo in Child In Time ed in Speed King, due delle composizioni più celebri della Band inglese.

Un suono forte e ruggente quello del suo Hammond dunque, ma anche dolce e accattivante.

Avviato da bambino allo studio del pianoforte dal padre Reginald, apprezzabile musicista, Jon fu per tutta la vita influenzato sicuramente dai suoi studi classici ma anche dai mostri sacri del Rock’n’Roll e dall’R&B.

Compositore, arrangiatore e session man nel 1967, appena venticinquenne, Lord incontra il chitarrista Ritchie Blackmore e fonda i Deep Purple con i quali scrive brani che sono ancora oggi delle pietre miliari della musica Hard Rock, basti solo pensare a Smoke on the Water.

 

Ignoro l’esistenza di un chitarrista elettrico che non abbia iniziato a suonare cimentandosi con il riff iniziale LA/DO/RE – LA/DO/Mib/RE. Permettetemi una piccola parentesi che voglio dedicare a quel pazzo totale di Blackmore, uno dei 5 chitarristi che ha influenzato il sottoscritto (gli altri sono Andy Summers dei Police, Angus Young degli AC/DC, Jerry Cantrell degli Alice in Chains e Marcos Curiel dei P.O.D).

Un talento puro, un innovatore creativo che (purtroppo) nel 1993 lascia i Deep Purple senza troppe spiegazioni.

Così era fatto Ritchie Blackmore, così gli sembrava giusto e così, a suo modo, ha dato un taglio netto (ahimè) al passato.

Il “Signore dell’Hammond”, Lord, scrisse l’intera partitura di una tra le opere più importanti di tutta la storia della musica Rock: il Concerto For Group And Orchestra, che vide i Deep Purple esibirsi con la Royal Philarmonic Orchestra di Londra alla celebre Royal Albert Hall.

Lord era in grado di modificare “a braccio” durante i concerti le intere parti suonate, rendendole a volte più accattivanti di quelle registrate in studio.

Ad esempio nel doppio disco Made in Japan, registrato durante il Tour in Giappone nell’estate del 1972, si evince chiaramente come Lord abbia modificato in forma magistrale gli assolo di organo di molti brani.

Made in Japan ha venduto milioni di copie e con il doppio disco live i Deep Purple sfondarono anche negli Stati Uniti.

Desidero sottolineare nuovamente che il connubio tra organo Hammond di Lord e chitarra Stratocaster di Blackmore gettò le basi per i fasti dell’heavy metal del decennio successivo (molto più di quel che fecero i Black Sabbath di Ozzy Osbourne o la premiata ditta Page & Plant dei Led Zeppelin; n.d.a.).

Un “muro del suono” quello dei Deep Purple, che grazie alla continua sperimentazione sonora e alla tecnica efficacissima di Lord, ancor oggi è studiato e tentativamente imitato da migliaia di musicisti.

Jon Lord muore a Londra il 16 luglio del 2012 all’età di 71 anni, stroncato da complicazioni per un cancro al pancreas.

La famiglia e gli amici, quasi tutti musicisti, hanno organizzato un concerto-evento alla Royal Albert Hall il 4 aprile 2014 per celebrare la carriera artistica di Lord, la medesima location del Concerto For Group And Orchestra di moltissimi anni prima.

I Deep Purple con 90 orchestrali diretti da Paul Mann e molti ospiti (ricordo tra tutti Bruce Dickinson degli Iron Maiden, Glenn Hughes, Paul Weller dei Jam), sono stati protagonisti di Celebrating Jon Lord. Così Ian Paice, storico batterista dei Deep Purple: «il miglior modo di celebrare un grande artista, un precursore, un talento puro… un amico! »

 

https://www.youtube.com/watch?v=m8VYXcrKUqc

 

 




JON BON JOVI: I LUSTRI(NI) DELL’HAIR METAL

 

 

Molti anzi… moltissimi anni fa con la mia band di allora, i Casual Connection Crew, iniziavo a comporre testi e canzoni rigorosamente in inglese con l’inseparabile Gas (amico prima e tastierista poi, con cui collaboro dal lontano 1987).

Nei nostri concerti suonavamo però per la maggior parte cover di artisti internazionali come U2, Police, R.E.M., Ramones, AC/DC… e anche Bon Jovi!

Erano i tempi di Slippery When Wet e dell’esplosione dell’“Hair Metal” e in nessuna performance live dell’underground nostrano di quegli anni mancava in scaletta un brano di John Bongiovanni.

Origini siciliane Jon, nato e cresciuto nel New Jersey, iniziò sin da piccolo a cimentarsi con la chitarra e la voce, strumento che utilizza da allora in modo magistrale.

Profondamente radicato nella cultura americana, Jon cresce riflettendo la musica e soprattutto la moda del tempo ed ispirandosi a Mozart, Bach e a Big come Aerosmith e anche Bruce Springsteen, suo “vicino” di casa, con cui il prossimo 22 aprile suonerà assieme in remoto per raccogliere fondi da destinare agli ospedali del New Jersey in emergenza da Covid-19.

Oltre 130 milioni di dischi venduti nel mondo, Bon Jovi ha girato l’intero globo con oltre duemila concerti in 50 paesi, collezionando numerosi premi e guadagnandosi nel 2018 un posto di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame.

Sono certo che i puristi del Rock e del Metal siano d’accordo con me nell’affermare che Jon Bon Jovi sia stato uno dei creatori di una nuova stagione della musica targata USA.

Già negli anni Settanta la rivoluzione del “Glam Rock” fece la fortuna di artisti e di band come i T. Rex, David Bowie, Roxy Music e perfino Queen e la novità era legata più al look (paillettes, trucchi esagerati, e frange colorate erano le divise dei glammers unite ad una sensualità quasi feminea; n.d.a.) che non alla musica.

Ma è nella seconda metà degli anni Ottanta che l’Heavy Metal inizia la sua deriva (se così si può dire) verso il Glam ed il Pop.

Così nasce l’”Hair Metal” che fu portato al successo dai Bon Jovi e da band che adoro come Def Leppard, Europe, Twisted Sister, Poison, Mötley Crüe, Krokus, Ratt, W.A.S.P., Skid Row, Cinderella e molte altre ancora. Caratteristica fondamentale di un “Hair Metal Band” che si rispetti è l’esaltazione della potenza sonora delle cosiddette “Ballads”, lentoni strappalacrime mielosi e sdolcinati che tradizionalmente erano legati quasi esclusivamente alla musica pop.

Voglio citare anche i Dokken di Don Dokken (voce) e George Lynch (chitarra), che sono una delle formazioni più longeve del genere “Hair Metal” nei quali all’inizio degli anni Duemila ha militato un mio caro amico Alex “Spillo” De Rosso (a breve su Betapress la sua intervista; n.d.a.).

Tornando a metà degli anni Ottanta, mentre Jon Bon Jovi riscuoteva un successo planetario, i Gun’s n’Roses spopolavano con Appetite for Destruction distanziandosi dal genere “Hair Metal”.

Il fenomeno iniziava infatti la sua rapida discesa fino a scomparire quasi del tutto soppiantato dal Grunge, fenomeno innovativo nato a Seattle nei gloriosi anni Novanta.

Un breve e fortunato ritorno dell’“Hair Metal” si è avuto pochi anni fa con l’avvento di successi planetari come quelli degli Ark e dei Darkness. Bon Jovi virando in modo molto intelligente ha mantenuto negli anni un sottile filo con le sue origini “Hair”, riconvertendo la sua musica che gli permette ancor oggi un grandissimo successo di vendite e pubblico.

Vi lascio con la splendida “Ballad” Wanted Dead or Alive, Rock Forever!

 

https://www.youtube.com/watch?v=SRvCvsRp5ho

 

PERTH

UN THE CON SKARDY: la musica del cuore.

 




Scuolexit???

Il ritorno a scuola

Sembra proprio che l’Europa non esista neanche più sulla carta.

Non c’è un punto di contatto, tra i diversi stati membri europei, né sulla gestione dell’emergenza sanitaria, né sulle risposte alla recessione economica, né sulla ripresa delle attività lavorative.

Basta guardare cosa sta succedendo alla scuola.

In Italia, epidemiologi e medici, chiamati a dare consulenza al governo italiano, propendono per la chiusura delle scuole fino a settembre.

Il Miur si interroga su come riprendere le attività scolastiche salvaguardando le misure di sicurezza, prima di tutte il distanziamento sociale, ma non ha né certezze sulla didattica a distanza, né verità sull’organico in presenza.

In Francia, invece, si ritorna a scuola a maggio.

Ad annunciare un graduale rientro in classe è stato il presidente francese Emmanuel Macron nel suo messaggio ai francesi.

Il ministro dell’Istruzione Michel Blanquer ha precisato che sarà progressivo e “non da un giorno all’altro”.

Il criterio seguito dal governo francese sarà soprattutto sociale: saranno gli alunni delle zone più in difficoltà a riprendere prima degli altri.

“Bisogna salvare gli studenti che potrebbero andare alla deriva a causa del confinamento”, ha avvertito Blanquer, aggiungendo “Sono le fasce più fragili che ho innanzitutto in testa”.

Viceversa, in Danimarca, tutti a scuola dal 15 aprile

 

A fare la scelta più drastica sono stati i danesi: la premier Mette Friedriksen ha annunciato di riaprire asili nido e scuole dell’obbligo da mercoledì 15 aprile.

L’idea del governo danese è che per riprendere una vita normale, chiedendo ai genitori di tornare a lavorare è necessario che i bambini e i ragazzi tornino in classe.

Il governo di Copenhagen è pronto a innestare la retromarcia nel caso in cui il numero dei contagi, ora basso, dovesse crescere di nuovo.

 

Da mercoledì dovrebbe scattare la fase due anche in Norvegia: riaprono asili nido e scuole primarie.

 

In Spagna, si spera di tornare a scuola tra maggio e giugno

 

La Spagna che è stata colpita gravemente dal Coronavirus come l’Italia sta da alcune settimane riflettendo sulla questione dei giovani e dell’educazione.

La settimana scorsa si è riunita la commissione che si occupa dell’emergenza e l’indicazione è di provare con aperture scaglionate, diverse da regione a regione a seconda della condizione dell’epidemia, a partire da maggio.

A Madrid sperano di cominciare a riaprire a giugno, non tutte le scuole ovviamente. Ma il messaggio è positivo.

 

In Germania la decisione definitiva non è stata ancora presa (è prevista mercoledì 15), ma l’accademia delle scienze nazionale, l’Accademia Leopoldina, ha raccomandato un graduale allentamento delle restrizioni.

 

Per le scuole si prospetta un rientro a scaglioni, per età:

prima i ragazzi delle elementari e quelli delle medie, perché sono quelli ai quali la chiusura delle scuole fa più danno esasperando il ritardo di chi è già svantaggiato.

Secondo l’avviso degli esperti si dovrebbe partire dagli studenti delle ultime classi di ciascun livello dividendoli in gruppi al massimo di 15 alunni e concentrandosi solo su alcune materie:

tedesco, matematica e per le scuole secondarie anche la lingua straniera.

Il rientro a scuola dei ragazzi delle superiori è visto come meno urgente: loro infatti sono quelli che possono continuare a giovarsi con maggior profitto della didattica a distanza.

Sono senza parole.

Ma perché mai gli altri stati europei hanno tutte queste certezze e verità?!?

Programmi, scadenze, priorità ed esecutività…

Se è vero che la scuola è palestra di vita, è mai possibile che in Italia alleniamo i nostri alunni all’incertezza sul da farsi, educhiamo i nostri allievi a procrastinare le scelte di campo:

insegniamo a temporeggiare per poi rincorrere gli eventi quando ormai la situazione è precipitata?!?

Se è vero che la scuola è un microcosmo sociale, allora è vero che in Italia navighiamo a vista, scorgendo sempre e solo la punta dell’iceberg?!?

Se il Titanic ha un so che di romantico, la nostra povera Italia, è proprio solo “nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia, ma bordello…”

Mi auguro solo che i nostri cari politici che continuano ad invocare il modello Italia come esempio da seguire nella gestione dell’emergenza, inizino ad aprire gli occhi!

Direi anche che comincino a valutare se non c’ è forse un modello extra-Italia, più efficace ed efficiente, a cui conformarsi, perché anche noi italiani abbiamo tanto bisogno di certezze e verità, almeno tra i banchi di scuola…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sdidatticamente parlando e non solo




Conte ed i fantastici 17

A pensar male si fa peccato ma spesso  ci s’indovina.

Lo diceva uno che di politica e accordi di palazzo se ne intendeva.

Giulio Andreotti, un politico che ha attraversato oltre mezzo secolo di attività parlamentare ed istituzionale nei momenti più difficili della storia contemporanea del nostro paese, deve aver pensato male molte volte a giudicare dalla longevità della sua carriera.

E pensare male, oggi, purtroppo, è facile perché non mancano paradossi ed incompetenze a tutti i livelli amministrativi e di governo.

Così la decisione di dotare l’apparato politico di un team per la fase II costituito da 17 tecnici guidato dal manager Vincenzo Colao suscita qualche lecita perplessità.

È evidente che il mondo post covid sarà diverso da quello che abbiamo lasciato e che la società dovrà convivere con il distanziamento sociale, lo smart working e la de-globalizzazione.

È altresì facile da immaginare che via via che l’epidemia rallenterà la sua devastante corsa la riapertura delle attività diventi un soggetto di attualità che presupponga competenze e capacità manageriali non di poco conto.

Questo spiega gli intenti nobili alla base del gruppo tecnico che annovera:

top manager, economisti, sociologi, una psicologa ed uno psichiatra, un fisico, uno specialista del lavoro, un’avvocato, un commercialista ed un esperto di disabilità.

Perché pensare male, allora?

Il Governo fino ad oggi ha operato nel quadro dell’emergenza con lo strumento dei decreti legge che hanno  limitato la dialettica parlamentare.

Il Premier Conte ha esercitato con abilità le leve della comunicazione e la difficile partita in Europa con la consapevolezza che non sarà, tuttavia, possibile procrastinare all’infinito la chiusura delle piazze e le decisioni politiche fondamentali.

Le misure di sostegno all’economia  ed il nodo degli aiuti comunitari che è stato rinviato al Consiglio Europeo convocato per fine aprile sono ancora allo stato iniziale ben coperti da una sorta di segreto istruttorio.

La nomina di un super manager ed un team di esperti nasconde, per questi motivi, obiettivi ben più ampi del miglioramento dell’azione dell’esecutivo.

Vi sono almeno due strategie che possono riposare nell’intento di cementare il governo mettendolo al riparo dai giudizi dell’opinione pubblica, dai conflitti interni e dall’opposizione parlamentare.

La prima riguarda la tenuta e la popolarità dell’esecutivo di fronte all’agenda delle prossime scadenze.

L’emergenza virale è divampata in un quadro economico mondiale già in buona parte recessivo.

Le misure di sostegno verranno alla fine prese con o senza adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità.

Il paese vedrà venire alla luce nuove tasse, una patrimoniale e tagli alla spesa pubblica ed alle pensioni.

Si tratterà di decisioni impopolari che colpiranno un sistema economico indebolito ed un quadro sociale instabile generando conflitti e vuoti di consenso che potrebbe essere più conveniente scaricare su una squadra di tecnici piuttosto che sul premier ed i suoi uomini.

Conte andrà al prossimo Consiglio d’Europa con le spalle più forti e sarà facile pretendere dal super manager Colao ed i suoi economisti una “moral suasion” sull’ineluttabilità delle decisioni da prendere in sede comunitaria, anche se assistite da ipotesi rigoriste.

Un modus operandi che troverà applicazione per tutte le manovre che si abbatteranno sui risparmi di famiglie ed imprese e che dovranno comunque essere assunte.

Si può pensare ad un modo politically correct di togliere le patate dal fuoco ad un governo segnato dall’insicurezza e travolto dalle emergenze delle ultime settimane.

C’è poi un secondo obiettivo non meno importante.

La necessità di portare a termine la legislatura con un governo “politico” e procedere all’elezione del Presidente della Repubblica in un quadro di maggiore stabilità.

Negli ultimi tempi, infatti, l’ipotesi di un ribaltamento di Conte in favore di un governo tecnico stava prendendo piede.

L’idea era quella di riconciliare l’azione politica intorno ad una figura di ampio respiro internazionale in grado di far contare di più l’italia in europa e sui mercati internazionali.

Una scelte dovuta alla luce del degenerare della situazione economica e delle scelte necessarie per il rilancio dell’economia.

È evidente che un governo tecnico avrebbe ri attualizzato le dinamiche politiche già in atto nel paese ed evidenziato lacune e ritardi nelle azioni assunte negli ultimi mesi.

Non è chiaro di chi sia stata la decisione di nominare una squadra di specialisti guidata da un manager già noto al mondo della finanza internazionale da affiancare al governo in carica, né i ruoli che verranno distribuiti per dotare il nascente team di poteri e ovviamente di centri di decisione e responsabilità.

Alcuni hanno già immaginato ad una polizza assicurativa offerta a Conte dal Quirinale.

Non è altre sì da escludere che l’iniziativa abbia messo d’accordo Partito Democratico e renziani   molto più disponibili ad una manovra economica a guida europea e certamente più spaventati di un ritorno di consenso negativo durante la Fase II.

Per capirci, quella, cioè, che dovrà misurarsi obbligatoriamente con le nuove regole della vita sociale ed economica ma anche con le maggiori tasse ed imposte.

La cosa certa è questa:

il Premier dovrà fare, ancora una volta, buon viso a cattivo gioco e confrontarsi con un un corpo tecnico che potrebbe rivelarsi utile per appannare la responsabilità delle scelte impopolari, ma anche fornire il profilo del prossimo Presidente del Consiglio e la lista dei nuovi ministri.

La politica è l’arte del possibile, ma le risposte non mancheranno ad arrivare e, come spesso accade, anche le sorprese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Coronavirus, italiano addio, etica addio, riprendiamoci il paese, Avanti Savoia!

Coronavirus: l’Italietta, come al solito…

CORONABOND e ITALEXIT: FALSI PROBLEMI




CHI, COSA, QUANDO, DOVE, PERCHÉ …

“Oggi più che mai l’informazione influenza la nostra vita e la nostra sicurezza. Le notizie sono una cosa seria. Fidatevi dei professionisti dell’informazione…”

Questo è il testo di un comunicato che viene insistentemente diffuso da reti televisive, invitandoci a diffidare delle fake news, cioè delle false notizie o, più in generale, delle notizie inventate, in tutto o in parte, che danno dei fatti una versione distorta quando non addirittura ingannevole.

La pratica delle fake news spesso crea una verità fittizia adattata alle aspettative e alla emotività della gente.

L’avvertimento di fare attenzione all’informazione che viene divulgata sarebbe superfluo se chi fa di professione il comunicatore avesse sempre ben presente la Regola delle 5W  che viene dall’inglese come pure dall’inglese viene fake news.

Le 5W, come ogni giornalista ben sa, stanno per Who (chi), What (che cosa), When (quando), Where (dove) e Why (perché) e sono i pilastri sui quali poggia la notizia da diffondere.

Se ci si attiene a questa vecchia ferrea norma è ben difficile che si divulghino notizie fasulle.

Oltre che promemoria tecnico per determinare e mettere in sequenza i contenuti di un pezzo, la regola ha anche una valore morale, un metro deontologico cui si può aggiungere, volendo essere rigorosi, un ulteriore elemento:

le circostanze come indicava già otto secoli fa San Tommaso d’Aquino.

Nel suo libro Summa theologiae egli accanto agli elementi precursori dell’attuale Regola delle 5W poneva anche il Quantum (quanto), il Quomodo (in che modo) e il Quibus auxiliis ( con quali mezzi). 

Così impostata, l’informazione non poteva e non può che attenersi al corretto e lineare rendiconto della realtà. 

Il guaio è che oggi nel fornire notizie e dati su un certo argomento si è passati dall’informazione alla narrazione.

Quindi dalla esposizione chiara e ordinata dei fatti si è passati, per dirla in inglese, allo storytelling il cui scopo è anche quello di coinvolgere, affascinare e stupire: in definitiva, influenzare il pubblico cui le news sono dirette.

Un tempo questo obiettivo era appannaggio del marketing e della pubblicità per far incontrare la domanda e l’offerta di beni e servizi in un finale happy end.

Tutti contenti perché il valore percepito di una acquisto era soddisfacente per l’acquirente ed il prezzo pagato era remunerativo per il venditore.

Oggi, dello storytelling si è appropriata anche la comunicazione politica.

E qui sta il rischio perché la narrazione si distacca in tutto o in parte dal reale e spesso costruisce una verità sostitutiva, una “rappresentazione “ avvincente ma falsa.

Ci sono atti del Governo e del Parlamento che sbalordiscono per come sono presentati, si pensi a Salva Italia, Svuota carceri, Spazza corrotti, Pace fiscale ed altri che, più che provvedimenti normativi, sembrano accattivanti titoli di romanzi che affascinano le folle e ne catturano il consenso, agevolando chi governa nel mantenere e consolidare il proprio potere.

 

 

 

 

 

 

 

La libertà di stampa

L’indipendenza di Stampa

 




Parma? of course…

 

Parma è da sempre un punto di riferimento per la politica nazionale ed in questo momento possiamo davvero ben sperare. Facciamo un passo indietro: abbiamo avuto qualche problema giudiziario finito per la gran parte nel nulla, un commissario prefettizio paragonabile al governo tecnico nazionale e poi la prima esperienza dei 5Stelle al governo di un capoluogo di Provincia, gli stessi che sono finiti al Governo dell’Italia.

A Parma l’esperienza è durata ben poco perché si sono dissociati da soli dal MoVimento formando una lista civica e ripresentandosi, vincendole, alle elezioni, in Italia vedremo…

 

Oggi però vorrei parlare di calcio perché negli ultimi anni il Parma, che a cavallo degli anni ’90 era uno dei club più forti in Italia ed in Europa, era arrivato fino al baratro della serie D per poi compiere uno straordinario percorso che lo ha riportato, con quattro promozioni in quattro anni, a giocarsi un posto in Europa. 

 

Venerdì il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha fatto una conferenza stampa dove prolungava le misure restrittive al 3 maggio, poi ha parlato di MES:

un tema molto dibattuto e attaccando alcuni esponenti dell’opposizione e, visto il modo, se n’è attirato, inevitabilmente, le critiche. 

 

Per fare chiarezza il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) non è altro che un fondo europeo al quale possono attingere gli stati che si trovano in situazioni di difficoltà.

Esiste dal 2011/2012!

Giusto per fare chiarezza sulle date:

è stato approvato dal Parlamento Europeo nel marzo 2011 – con relatore il nostro attuale Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, che allora era Parlamentare Europeo – poi approvato dal Consiglio Europeo (l’insieme dei capi di Stato e di Governo) due giorni dopo (Governo Berlusconi IV).

Nel dicembre 2011 lo stesso Consiglio Europeo (Governo Monti) ha deciso di anticiparne l’entrata in funzione da metà 2013 ad inizio 2012.

Infine è stato ratificato dai singoli stati, in Italia nel 2012, (Governo Monti), con l’astensione o il voto contrario di quasi tutto il centro-destra.

Senza addentrarsi nei tecnicismi che ci allontanerebbero dal cuore del discorso, un conto è permettere alla banca di prestare soldi, un altro è andare a stipulare il prestito.

Ad oggi il Governo italiano non ha chiesto alcunché. 

 

Ma torniamo alla conferenza stampa dove il Presidente del Consiglio ha “invitato a verificare” come erano andate le cose sul MES, lasciando spazio alla confusione tra istituzione e richiesta di soldi, e poi la domanda più semplice quella sulla “potenza di fuoco”:

i soldi che dovrebbero arrivare che ha trovato una risposta indefinita e tutta al futuro.

Ma io questa scena l’ho già vista!

 

E come un lampo diventa tutto più chiaro: ve lo ricordate quel signore, comparso dal nulla, che comprò il Parma Calcio con un Euro?

Quello che convocava conferenze stampa un po’ a caso, invitava i giornalisti ad andare a verificare circa le sue attività e dei soldi che avrebbe dovuto dare a calciatori e dipendenti non c’era traccia?

Il Presidente Conte non era certamente un esponente di spicco della politica prima della nomina, sui ritardi in conferenza Facebook (ehm stampa) ormai ci abbiamo fatto l’abitudine…

l’invito a verificare i propri dati c’è e dei soldi, dai 600 euro ai 400 miliardi, non c’è traccia.

Nessuno vuole naturalmente paragonare Mapi Group a SACE se non per il fatto che tutto ciò ci fa ben sperare…

se l’Italia seguirà ancora una volta l’esempio di Parma, o meglio in questo caso “del” Parma, può essere che tra qualche anno saremo nuovamente tra i grandi della terra! 

 




Easter egg

Siamo alle porte della Santa Pasqua e questo ci induce ad una seria riflessione sul significato più profondo di speranza verso la rinascita, la resurrezione, il rinnovamento.

Quest’anno la Pasqua verrà celebrata a porte chiuse,per dare il colpo definitivo al coronavirus, che sta calando sotto la pressione delle imponenti misure di contenimento che sembrano funzionare davvero.

Sorge a questo punto, da tutti noi spontaneo un ringraziamento per tutti coloro che hanno permesso questo notevole calo nei contagi e nelle morti: prima di tutto le forze dell’ordine ed il sistema sanitario, che hanno dato il meglio di sé, sacrificandosi fino allo stremo per mettere in sicurezza il Paese, poi i lavoratori del settore autotrasporti, che hanno rifornito i supermercati, i cassieri, gli impiegati delle poste e delle banche, i tabaccai, gli alimentari rimasti sempre aperti. Infine, alle società dei mezzi di trasporto pubblico ed urbano, che si sono occupate di fare restare in piedi un sistema che sembrava destinato al collasso e che invece sta risorgendo, lentamente, anche se c’è ancora molto,moltissimo da fare, insieme al cordoglio per chi è venuto meno e per le famiglie spezzate.

Un particolare grazie va poi a tutti coloro i quali, da semplici volontari della protezione civile ed altre strutture associative per l’emergenza si sono prodigati a titolo completamente gratuito per il Paese, mossi solo dalla voglia di dare una mano al prossimo, nel vero senso del Vangelo, che a Pasqua ci ricorda di “farci prossimi” ai nostri simili.

E’ una lezione dura quella del coronavirus, una lezione durissima: un intero sistema Paese,anzi l’intero sistema internazionale messo inginocchio da un semplice microbo…

ma al di la di tutto rimane, dentro al cuore di tutti noi, inestinguibile e continua, la forza ed il coraggio della speranza, la speranza che leggiamo negli occhi dei nostri figli, dei nostri cari, la speranza che insieme ce la stiamo facendo e possiamo farcela, perché, si, ne siamo sicuri, come dicono i cartelli appiccicati dietro alle finestre…

ANDRA’ TUTTO BENE.

 




Eurexit

Alla fine il nemico ha svelato il suo vero volto.

Come i migliori film dell’orrore, quegli che ci tengono incollati alle poltrone fino alla fine, anche il conflitto comunitario sembra avere trovato il suo epilogo.

Le ultime riunioni dell’Eurogruppo,  chiamato ad intervenire sull’emergenza sanitaria ed i rischi economici diretti, sembrano voler assumere posizioni condizionate all’adozione del Meccanismo Europeo di Stabilità, il MES.

Lo strumento, cioè, al quale il Regolamento Europeo n. 472/2013 affida le regole per rinforzare le modalità di sorveglianza sul bilancio pubblico dei paesi membri alle prese con difficoltà nel rispetto dei parametri di stabilità.

Infatti l’adozione del Mes impone ai paesi aderenti che ne facciano richiesta, con parametri di bilancio non in ordine, di adottare  il “Programma di Aggiustamento Macroeconomico”.

Programma messo a punto dalla Commissione Europea dalla Bce e dal FMI per il ripristino dell’equilibrio nei conti pubblici

Un intervento regolato da intenti rigoristi e che privano il paese assistito di ogni residua sovranità economica e quindi anche politica.

È accaduto alla Grecia nel 2009 che ha visto adottare nel triennio successivo tagli verticali alla spesa pubblica e nuove imposte fino alla rinegoziazione del debito con un taglio di oltre il 53% al crediti detenuti dal settore privato (Haircut).

Il Premier Conte tranquillizza il paese sostenendo che sarà il Consiglio Europeo a sigillare le decisioni definitive.

Eppure, un senso di amarezza affiora e le parole non convincono più.

Non è questa l’europa che abbiamo studiato da ragazzi nei libri di scuola.

 

Non è questa neanche l’europa sognata dai padri nobili di un progetto così importante.

 

L’Unione Europea nasce da lontano ed ha radici profonde nei valori della pace, della libertà e della cooperazione.

Valori che grandi uomini politici hanno immaginato e realizzato con dedizione ed impegno:

Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, il francese Jean Monnet, il tedesco Konrad Adenauer, il lussemburghese Joseph Beck ed il belga Paul H. Spaak, tra i più citati.

Uomini che hanno condiviso paure prima che sogni di grandezza.

La Guerra ha segnato molti di loro unendoli in una visione di pace e di libertà .

La paura dei conflitti bellici e della distruzione non è l’unica pietra angolare delle motivazioni  dei padri fondatori.

Beck e Spaak comprendono il senso  di vulnerabilità dei loro rispettivi paesi chiusi tra potenze militari, la perenne condizione di soggiogamento e l’importanza dei principi di sostegno reciproco.

L’europa non nasce su progetti complessi ma su sentimenti reali, pietre d’inciampo dell’umanità uscita dalla guerra:

pace, libertà, cooperazione e tutela di tutti i paesi soprattutto di quelli più esposti al rischio d’invasioni e soprusi.

Queste sono le fondamenta.

Nella riunione dell’Eurogruppo, l’Unione Europea ha toccato il suo punto di minimo ed il suo cuore ha cessato di battere.

Le contraddizioni, per anni nascoste da una diplomazia astuta e da un’opinione pubblica distratta, sono esplose all’improvviso come la Pandemia che ne ha fornito la base d’innesco.

Capire nel profondo come si è arrivati a questo punto è importante.

L’Unione Europea è rimasto un progetto incompiuto e nomade.

 

È stata realizzata l’Unione Monetaria e con essa ci si è dotati di istituzioni farraginose e regolamenti  complicati.

L’Unione politica, intesa come sovranità condivisa, non è, forse, mai entrata nelle agende dei paesi aderenti.

Un punto non secondario perché il dibattito sull’unione “politica” dell’Europa avrebbe dovuto risolvere nodi centrali.

Ad esempio la condivisione di sovranità nelle sue espressioni rilevanti, un progetto unico di finanza pubblica, un’idea comune di politica estera e di sicurezza esterna.

Questioni irrisolte che hanno caricato l’unione monetaria di effetti collaterali di cui, oggi, alcuni paesi mostrano di volersi avvantaggiare.

Un’Europa a sovranità ridotta, senza un bilancio ed un sistema di finanza pubblica comune con un sistema di cambi fissi, ha lasciato che fossero i singoli paesi a reagire alle fasi recessive facendo ricorso all’unico strumento rimasto:

l’innalzamento dei livelli di indebitamento pubblico.

Il collocamento del debito nazionale sul mercato europeo ed internazionale a tassi via via più elevati se da un lato ha reso più agevole la provvista per i paesi finanziariamente più fragili dall’altro ha fornito

ad alcune economie, Germania in testa, un formidabile strumento di crescita e di cooptazione progressiva di sovranità a danno dei sistemi periferici.

È evidente che la necessità di completare l’obiettivo di un’europa politica, in questo contesto, ha perso di portanza.

Le politiche espansive della Bce dal 2008 in risposta alla grave recessione mondiale sono state utilizzate in modo abile dai paesi del blocco nordico.

Paesi che ne hanno usufruito per proteggere industrie e banche nazionali lasciando che fossero le economie periferiche ad assumerne oneri e  responsabilità.

Il Mes nasce, in questo contesto, con il peccato originale di perseguire un sistema di aiuti asservito al controllo economico e politico di alcuni stati a danno di altri.

Un controllo di natura immediata posto in essere attraverso automatismi giuridici maturati all’interno di situazioni di emergenza asimmetriche e gravi per le popolazioni coinvolte che richiederebbero, al contrario, una visione condivisa, uno slancio solidale.

L’europa è caduta ma ora occorre rifondarne i contenuti e l’impianto fiduciario anche con l’avvio di una fase costituente che aggiorni e semplifichi istituzioni e meccanismi di funzionamento.

L’italia può dare impulso ad un confronto politico ampio che sul piano nazionale sia in grado di rimettere in moto l’economia e di riportare nei confini del paese la titolarità del debito pubblico.

Sterilizzando, altresì, la dipendenza dallo “spread” (differenziale di rendimento tra il titolo di stato italiano con scadenza decennale ed il suo corrispondente tedesco) vera arma in mano alla speculazione estera.

Cosa ci attende adesso?

L’europa continentale ha bisogno di una struttura istituzionale e di politiche condivise capaci di resistere alle pressioni geopolitiche in atto e mantenere pace e stabilità.

Per questo sarà importante non lasciarsi sedurre da intenti secessionisti privi di progettualità.

L’idea di un’Unione europea nella quale si specula su sistemi impositivi ingiusti e s’impongono sacrifici ai più deboli, potrebbe finire per sempre.

Certamente dalle sue ceneri dovrà costruirsi un soggetto politico capace di riscrivere i contenuti del quadro costituente aggiornandoli ai bisogni delle comunità locali.

Helmut Kohl, cancelliere tedesco fino al 1998, nel dibattito finale relativo all’adozione della valuta unica, non esitò a sostenere che il

“Futuro” avrebbe visto nascere una “Germania europea e non un’Europa germanica”.

Son passati oltre 20 anni, ma le decisioni dell’eurogruppo  avrebbero deluso anche lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pandemia Finanziaria, cui prodest?

Piano Marshall oggi più che mai!!

 




Scusi, posso chiederle un’ultima cosa…

 

“One last question:” – Un’ultima domanda – me la ricordo bene questa frase, dove in tre parole apparentemente innocue, si nasconde il più temibile dei tranelli.

“Caso scuola”, anzi università, quella di St. Andrews in Scozia e il corso era “International Business and Negotiation”; ti spiegano che capita spesso quando in una conversazione che ti aspetti difficile, con una controparte ostica,  tutto fila liscio, senza intoppi, fino a quando pensi di essere arrivato ad un accordo e arriva la frase “one last question” tenuta nascosta anche per ore, covata come un uovo prezioso, capace di ribaltare tutto, quella domanda difficile, la richiesta alla quale non avresti voluto dire di si ma … ormai dopo il tempo passato a limare ogni dettaglio, mandare tutto all’aria sarebbe folle. 

 

Ecco quel “one last question” mi è capitato proprio nel giorno della proclamazione della mia laurea in giurisprudenza.

Parlavo della mia tesi, dell’evoluzione delle figure del mondo sportivo nel corso della storia, delle tante norme che regolavano lo Sport fin dal principio e che poi hanno portato ad una codificazione più organica in quello che oggi viene definito diritto sportivo quando, il presidente della commissione mi interrompe e dice “Bene, le faccio solo un’ultima domanda, mi tolga una curiosità!” – in un attimo penso agli insegnamenti ricevuti in Scozia e mi preparo al peggio, mi guardo intorno e cerco ispirazione girandomi verso il chiostro maiolicato del Monastero di Santa Chiara, un autentico gioiello di architettura ed arte, quando sento le seguenti parole: “Lei è un professionista di golf, ma è vero che è uno Sport per vecchi e ricchi?”

 

La prima sensazione è di sollievo, non avevo scritto qualche corbelleria nell’elaborato, che era già in procinto di diventare un libro, ma la domanda non era affatto facile – considerando anche che ad ascoltarla, oltre la commissione c’era più di un centinaio di persone – la risposta tuttavia è uscita quasi per magia, sarà che quel chiostro l’ha progettato uno con il mio stesso cognome e mi ha portato fortuna, nel dire: “Quello sarebbe il pensare comune, – ai giorni nostri si stravolge anche la realtà – ma essendo questo storicamente radicato, qualche fondamento nella concretezza lo ha. Il golf in realtà è accessibile a tutti o quasi, ne più ne meno di tante altre attività come lo sci il tennis o anche una palestra, peraltro spesso ricompresa nelle strutture che ospitano i Golf Club. Si più giocare da giovanissimi 3-4 anni fino ad età molto avanzata, tuttavia richiede una caratteristica che è propriamente comune ai ‘vecchi e ricchi’ ovvero una certa disponibilità di tempo. Soprattutto all’inizio, sotto la guida di un buon maestro, il golf deve essere praticato con una certa costanza per ottenere risultati soddisfacenti: la pallina che vola per qualche decina di metri. Ha una componente tecnica elevata che ne rende il primo approccio più complesso rispetto, per esempio, al calcio dove la palla la colpisci subito, magari non la mandi dove vuoi e come vuoi ma difficilmente la manchi. Ecco spiegato il luogo comune chi ha terminato la propria attività lavorativa, possibilmente con un’entrata che gli permetta di non fare altro, ha sicuramente tempo.

 

Noi golfisti siamo i primi ad aver compreso l’importanza del tempo, ecco perché non dobbiamo assolutamente sprecarlo.

In questo momento c’è tanta tantissima confusione; non sappiamo quale sarà il futuro dal punto di vista sanitario che è la priorità di tutti: ci stiamo giocando una gigantesca Ryder Cup tra il Mondo (o almeno gran parte di esso) ed il SARS-CoV-2 che non ci attacca con dei birdie ma con il Covid-19.

Priorità assoluta è vincere questa competizione. Ma noi golfisti qualcosa possiamo fare, anzi a mio avviso, possiamo fare tanto. 

 

                Innanzitutto essere seri e responsabili. Rispettare le indicazioni governative e attendere le disposizioni sanitarie prima di mostrare (e pubblicare) la nostra fretta di tornare sul green, affidarci alle vie istituzionali come la Federazione Medico Sportiva Italiana che sta lavorando tantissimo per mettere a punto protocolli che ci consentano di tornare a giocare.

 

                Sostenere che il Golf sia una di quelle discipline Sportive che, a detta di molti esperti, potrà essere tra le prime a ripartire: non c’è contatto fisico e può essere facilmente mantenuta la “distanza sociale”.

Ci sono interessanti evoluzioni in vari paesi tra cui l’Australia, ma soprattutto la Florida dove il golf è considerato “essential recreational activity” e consentito.

 

                Avere una grande attenzione per i nostri Golf Club visto che questa crisi sanitaria ci ha colpito in un momento già difficile per il nostro movimento dove ci apprestavamo ad assaporare i benefici – sperati – per l’arrivo della Ryder Cup.

Una grande azienda com PwC si è messa a disposizione, gratuitamente, per fare consulenza sulla pianificazione futura dei Golf Club. La manutenzione deve essere portata avanti, così come si deve avere attenzione a tutte quelle figure che lavorano nel mondo del golf che, probabilmente, non rientreranno nel recente stanziamento da 50mln relativo ai collaboratori sportivi. 

 

                Sarà vitale sostenere i professionisti, ed in particolare i maestri, PGA sta facendo tantissimo in termini di formazione, ma sicuramente il bonus di €600, difficilmente accessibile, non è abbastanza per salvaguardare una categoria.

 

E’ di oggi la pagina sul Corriere della Sera di Palestre e Centri Fitness, nel Golf già tanto è stato fatto a livello istituzionale a quanto si legge dalla recente lettera del Prof. Chimenti.

Soprattutto dobbiamo fare squadra, superando gli individualismi, e mettendo a disposizione le proprie idee nei luoghi opportuni. 

 

“One last question” Un’idea da social? Una piccola cosa, ma al tempo stesso concreta, potrebbe essere quella di organizzare, subito dopo la ripresa, alcune giornate di gara a livello nazionale, in tutti i Golf Club contemporaneamente, con una tassa di iscrizione leggermente più alta del solito, destinandone una parte al Club che la ospita, – che avrebbe un minimo di liquidità in più per la ripartenza –  una parte ai Maestri per offrire corsi gratuiti volti a creare neofiti ed una parte al più vicino ospedale per ringraziarlo del lavoro svolto. 

 




Il futuro è ibrido

L’emergenza Covid-19, ha costretto tutti ha obbligato ferocemente ad essere e  diventare finalmente digitali,  non doversi recare in comune per richiedere un certificato, non dover andare all’Agenzia delle Entrate per avere il PIN, ma comunque per non farti perdere l’abitudine l’Agenzia ti lascia la tua bella coda virtuale infatti lo ricevi dopo almeno 20 giorni, e eviti pure di andare dal medico di base per ritirare  la solita ricetta con le solite medicine.

Dai primi di Marzo, in comune si accede solo da remoto, l’Agenzia delle Entrate ha chiuso gli uffici e non risponde neanche più al telefono, mica che prendono il coronavirus, ma ci sono solo per e-mail o dal portale.

Le ricette on-line erano un tabù, se non per qualche medico eretico, oggi arrivano in pochi secondi nella tua casella di posta.

Ed ancora le assemblee regionali, i consigli comunali ed i consigli di amministrazione delle aziende che per regolamento possono essere svolte in presenza altrimenti sei assente, in pochi giorni sono stati modificati senza le solite sterili discussioni, l’emergenza ha costretto tutti quanti a cambiare approccio, o da remoto o  nessuna alternativa.

In queste settimane la richiesta di servizi di video conferencing e unified communication sono aumentati a dismisura, in realtà l’utilizzo è aumentato, i servizi esistevano da anni.

Anche l’e-learning che negli ultimi anni aveva perso il suo slancio, in quest’ultimo mese ha ripreso vigore e fioriscono ovunque offerte per l’apprendimento online, dovuto soprattutto alle tante persone bloccate in casa senza più palestra e corsetta al parco.

Per anni aziende pubbliche hanno sperimentato lo strano strumento, a loro dire, dello smart working, provando a far lavorare alcuni dipendenti un giorno alla settimana da casa, mi raccomando non di più potrebbe essere dannoso, ed immediatamente con la Pandemia si può lavorare tutti da casa, e non è più pericoloso, anzi è diventata una grande opportunità e sembrerebbe anche con un notevole aumento della produttività.

Certo, come tutte le cose, ha le sue controindicazioni, infatti se sei in smart working allora il tuo capo o i tuoi clienti, visto che sei a casa, ti chiamano alle 21:00 perché hanno un’emergenza che non può essere assolutamente demandata al giorno dopo, e se non rispondi sei pure cafone o poco dedito al lavoro.

Ma anche in futuro, terminata l’emergenza, continueremo ad utilizzare queste nuove modalità lavorative o ritorneremo alle vecchie abitudini ?

Molto probabilmente, viste le tante richieste che aziende grandi e piccole e la stessa Pubblica Amministrazione stanno ponendo ai player di connettività e di servizi online, il futuro sarà ibrido.

Si ibrido come le macchine un po’ elettrica ed un po’ termico, anche i nuovi strumenti digitali dovranno essere pensati per la modalità remota e on-site, oggi nessuno strumento digitale è stato pensato per essere ibrido, o tutti da remoto o tutti in un luogo fisico, è la prossima sfida tecnologica, una nuova generazione di servizi.

 

Roberto De Duro

 

IL DIGITALE potrà contribuire ad una Italia migliore

 

Do Androids Dream of Electric Sheep?