Cercasi eroi civili disperatamente, Ed Snowden, l’ultimo film di Oliver Stones.

 

Cercasi eroi civili disperatamente, Ed Snowden, l’ultimo film di Oliver Stones  
L’ultimo film di Oliver Stones, nelle sale nel mese di dicembre, racconta il coraggio umano e civile di un geniale ingegnere informatico americano, che dopo aver lavorato per la CIA e per la National Security Agency (NSA) con incarichi di rilevanza strategica, decide di denunciare alla stampa gli abusi e le violazioni del sistema di sicurezza americana, che con la scusa della tutela della sicurezza del paese dalla minaccia terroristica, porta avanti programmi di sorveglianza di massa fortemente invasivi con i quali monitora la vita di milioni di cittadini americani a loro totale insaputa, violando ogni diritto sulla privacy ed utilizzando le informazioni acquisite per finalità contrarie allo stato di diritto.

Il giovane Snowden, inizialmente dotato di una buona dose di fanatismo ideologico nella fiducia della superiorità delle scelte del proprio paese e della sua naturale appartenenza alla schiera dei paladini del bene e dei difensori della democrazia nel mondo, a poco a poco si ricrede quando scopre la irresponsabilità e la leggerezza con la quale le informazioni illecitamente raccolte ed elaborate dai sistemi di sicurezza e di sorveglianza vengono usate per uccidere bambini inermi che stanno usando un cellulare considerato sospetto, per ricattare persone, per spiare illecitamente milioni di americani, per influire sulle scelte politiche di altri stati.

Il film ha la struttura narrativa di una biografia che ricostruisce nove anni di vita di Ed Snowden ed il percorso che lo porta alla decisione di denunciare gli abusi del suo paese, dando risalto alla sua relazione d’ amore con Lindsay Mills, che ha avuto una parte fondamentale nella sua decisione di ribellione civile.

Come in molti altri films di Oliver Stones la biografia è un contenitore al cui interno si sviluppano altri generi, la storia d’amore, il thriller mozzafiato, ma soprattutto essa permette al regista di costruire un film di denuncia potente su un tema che molto spesso è stato sempre nascosto, anche dai media, nel nome del presunto superiore interesse alla sicurezza nazionale.

Il film svela la capacità manipolatoria e mistificatoria del potere, che anche ove democraticamente eletto, agisce a volte al di sopra della legge e del mandato degli elettori, incurante degli effetti collaterali dei comportamenti adottati per perseguire gli interessi delle lobby e dei gruppi di pressione, ma sempre pronto ad ammantare le azioni più nefande e spietate con la retorica della difesa della libertà e della democrazia o in alcuni casi ad ammettere logiche di puro delirio o di crimine contro l’umanità, come quando un autorevole esponente dell’amministrazione americana ammise in un’ intervista che era valsa la pena provocare la morte di cinquecentomila bambini con le sanzioni all’Iran.

Di fronte a queste derive di alcune democrazie occidentali ed alla violazione dei diritti dell’umanità Ed Snowden ci mostra cosa occorre fare, (“Sta succedendo qualcosa di troppo sbagliato nel sistema ed io non posso più accettarlo, il mondo deve saperlo“), anche se il prezzo da pagare in termini personali sarà per lui altissimo.

Il film, con una tensione narrativa altissima dall’inizio alla fine, ci mostra come il coraggio civile e la ribellione democratica siano gli strumenti più efficaci nelle mani dei cittadini per rendere migliore il mondo in cui viviamo.

 

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Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress
Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

Vita Activa, ovvero c’è ancora vita pensante sul suolo italiano

La prima cosa che mi ha sorpreso di questo impegnativo ma remunerativo film è stata la fila, quasi una ressa, che ho trovato alla biglietteria.

l,Ho mancato il sold out per poco!

Questo mi aiuta a pensare che il ventennio berlusconiano e quello che ne è seguito non siano ancora riusciti a schiantare la testa degli italiani.

Almeno una sparuta minoranza resiste e si era data appuntamento nella sala del cinema Oberdan di Milano qualche sera fa, per seguire un documentario di più di due ore sul pensiero della grande filosofa tedesca Hannah Arendt, per la regia di Ada Ushpiz. 

Vita Activa, the spirit of Hannah Arendt è un film molto diverso dal bellissimo film di Margarethe Von Trotta del 2012 ed interpetato da Barbara Sukowa nella parte di Hannah Arendt.

E’ molto diverso per la tecnica narrativa, per il genere, per il ritmo della narrazione ma al tempo stesso è fortemente complementare per la conoscenza del pensiero della filosofa ebrea tedesca e  soprattutto per la comprensione delle fortissime controversie che originarono dal suo reportage del processo ad Adolf Eichman, primo processo a svolgersi contro i crimini contro l’umanità e dalla sua originalissima ed innovativa analisi sulla natura psicologica del male, esposta nel suo libro “La banalità del male”.

Quando fu pubblicato nel 1966 il suo libro scatenò una reazione violenta sia per le tesi originali sulla qualificazione del male sottostante al fenomeno nazista sia per la chiamata di corresponsabilità che la Arendt fece nei confronti dell’operato dei dirigenti delle comunità ebraiche e dei Sonderkommando, sostenendo senza mezzi termini che la macchina dello sterminio non sarebbe stata così efficiente ed efficace se alcuni di loro avessero collaborato con minore zelo.

Anche il concetto di banalità del male, intriso di profondo significato filosofico, fu inteso dai più come una svalutazione delle atrocità e dei crimini commessi dai nazisti e provocò, nonostante i ripetuti tentativi della filosofa di precisarne l’esatto significato, contestazioni molto forti da parte della comunità ebraica.

Non posso fare a meno di ricordare, a tale proposito, una scena bellissima per intensità e passione, del film sopra citato della Von Trotta, dove la filosofa spiega ai suoi studenti il significato che attribuiva alla formula utilizzata e perché considerava quel male banale, chiarendo che la banalità era dovuta al fatto che esso era frutto dell’operato di persone normali, che a casa conducevano esistenze ordinarie, ma inserite in una burocrazia spietata all’interno della quale erano incapaci di rifiutarsi di compiere azioni atroci e di far prevalere la voce della propria coscienza sul principio di obbedienza e di esecuzione acritica del proprio dovere.

Il documentario racconta la vita privata ed intellettuale della Arendt, non meno controversa delle sue idee sulla banalità del male, mostrando anche i luoghi dove la filosofa ha vissuto e lavorato e dando spazio alla sua relazione con il filosofo Martin Heidegger, noto sostenitore del nazismo e offre a chiunque sia appassionato della storia del XX secolo spunti di approfondimento e riflessione profondi anche sulle questioni politiche del presente, relative al rafforzamento dei nazionalismi e dei populismi, alle tendenze isolazioniste, al rinascere di tendenze contrarie alla società aperta, alla condizione dei rifugiati  gli atteggiamenti ostili che molti paesi stanno adottando nei confronti dei rifugiati.   

Non era facile realizzare un documentario su questioni filosofiche così impegnative senza perdere il ritmo narrativo e senza rischiare di annoiare lo spettatore.

Fermo restando la difficoltà della materia e l’impegno richiesto la regista è riuscita nello scopo alternando in modo creativo interviste, spezzoni di film di epoca, lettura di lettere. 

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




LORO 2: la corazzata kotiomkin.

Loro, l’epilogo tra le macerie del terremoto del racconto sorrentiniano

Bastano la prima e l’ultima scena della seconda parte del film Loro per dare il senso dell’intera opera e rimettere in fila i pezzi significanti della narrazione cinematografica di Sorrentino.

La seconda parte di Loro si apre con il dialogo tra Silvio e Ennio che lodano le rispettive capacità di saper persuadere la gente e vendere sogni alle persone. Dal dialogo nasce l’idea per riportare Silvio al centro della scena politica italiana, quella di comprare 6 senatori della sinistra e far cadere il governo per andare a nuove elezioni

Il film termina con una scena quasi religiosa e che rende omaggio alla Dolce vita di Fellini: una folla disperata e addolorata, immersa in una oscurità quasi medioevale ed in un silenzio metafisico assiste all’opera di recupero, attraverso una gru, di una statua del Cristo morente dall’interno di una chiesa sventrata dal terremoto dell’Aquila.

La sequenza fonde insieme due eventi tragici e comunica un senso di disperazione e  di sgomento che sintetizza il messaggio finale del film.

La statua che viene spostata mentre è appesa ad una gru ricorda la scena del trasporto volante nella Dolce Vita e genera un immediato accostamento tra la dolce vita felliniana e la finta vita berlusconiana.

Mentre nella dolce vita spiccava nei diversi personaggi l’ansia dovuta alla mancanza di autenticità della propria esistenza ed al bisogno di recuperare modelli di riferimento ideale a cui tendere che nel film erano indicati in modo netto, nella finta vita del Berlusconismo, fatta di sogni consumistici e di esteriorità, di distopie e di disvalori, di sostituzione del consumo dei beni al valore dei sentimenti umani, di egoismo ed edonismo i comportamenti di Silvio e della sua corte non compaiono come frutto di devianza dal bene e dal giusto, ma come nuovi codici morali autofondati, sia perché non generano reazioni di ansia o insostenibilità ma totale e indiscusso compiacimento, sia perché manca qualsiasi contrapposizione, anche solo sfumata, ad un modello totalmente altro.

La vita autentica, secondo il Silvio pensiero rappresentato nel film, è proprio questa e la sua missione, da uomo di affari prima e da leader di governo poi, è di permettere a più italiani possibili di sognarla prima (ruolo perfettamente svolto dalle sue televisioni commerciali) e di riuscire a viverla subito dopo.

Anche se il regista non rappresenta alcuna forma di riprovazione nè contrapposizione di modelli alternativi esprime, tuttavia, con immagini e con una metafora potentissima dove questa filosofia ha condotto la società italiana e le persone; il berlusconismo è associato nelle ultime scene del film ad un terremoto devastante che distrugge una intera comunità ed i valori su cui era fondata, primi fra tutti quelli del cristianesimo (irriso anche con una barzelletta nel corso della cena con le Olgettine nella Villa in Sardegna) e dei valori civili di onestà e di rettitudine morale per i quali tanti italiani hanno lottato con sacrifico anche estremo durante e subito dopo la guerra.

Ugualmente frana la finta vita privata di Silvio, incentrata sulla forza della persuasione e della manipolazione, che lo porta al definitivo fallimento del suo rapporto con Veronica, qui usato come metro di misura della sua autenticità di uomo.

La scena della resa dei conti tra i due mette a nudo la infondatezza dei racconti ideologici che Silvio ha sempre propinato alla società italiana (il mito del self made man, del creatore di ricchezze e di benessere per tutti e così via) così come il vuoto morale ed etico del Berlusconismo è espresso da una frase pronunciata da Paolo Spagnuolo che definisce Silvio un ruscello che scorre e porta freschezza.

Come già detto nel primo articolo, manca nel film qualsiasi riferimento al terzo soggetto, il Noi, che pure ha avuto un ruolo non secondario nel permettere tutto ciò e che forse è nascosto soltanto nel lungo piano sequenza conclusivo sui volti dei pompieri affaticati che estraggono il Cristo dolorante dalle macerie. Solo a Noi può spettare un’azione di riscatto e di ribellione contro quel mondo rappresentato che a molti di noi fa sempre più schifo

 

 

 

 




I Figli della Notte

 

L’esordio alla regia di Andrea De Sica, figlio del compianto Manuel e nipote del grande Vittorio, con il film “I figli della notte”, unico film italiano in concorso al 34° Torino Film Festival, è autoriale e audace e riesce a fondere insieme con abilità e tensione narrativa costante generi diversi, che spaziano dal romanzo di formazione al thriller.

Il film, uscito in distribuzione solo in una trentina di sale, racconta l’esperienza di due rampolli benestanti della borghesia imprenditoriale italiana che, contro la loro volontà, vengono iscritti in un collegio prestigioso ed austero, che ha il fine di preparare la nuova classe dirigente con metodi duri e militareschi per sfornare  manager disumanizzati e pronti ad esercitare senza esitazioni il cinismo che il loro ruolo nel mondo esigerà.

Giulio, molto più compatibile e predisposto alla vita che il sistema degli adulti sta preparando per lui, viene subito attratto da Edo, molto più fragile e ribelle, confuso e tormentato dalle scelte da compiere nella propria vita.

Insieme si oppongono al bullismo ed ai metodi formativi della scuola e cominciano a frequentare di notte un bordello avvolto da atmosfere gotiche ed horror, comunque sotto il controllo vigile del “grande fratello” del collegio a cui nulla sfugge, impersonificato dall’educatore Mattias, che “non li spia, ma impara a conoscerli”.

Il film si apre con due inquadrature molto originali ed anticipatorie dello sviluppo narrativo e drammaturgico della trama, perché svelano sin dall’inizio il continuo e sotterraneo contrasto tra gli opposti valoriali sul quale il film è costruito, reso cromaticamente con il continuo alternarsi di luce e oscurità.

La prima inquadratura è inondata di luce bianca ed in un angolo fuori centro compare sfuocato il volto di Giulio, uno dei due protagonisti.

La seconda, immersa nell’oscurità, lo riprende di nuca mentre parla con la madre che lo saluta, madre che non compare mai nel resto del film e di cui ogni tanto si sentirà la voce.

Il dissidio centrale sul quale il film si sviluppa è rappresentato dal dramma della scelta che ogni adolescente si trova a vivere quando si affaccia sul liminare della vita adulta: accettare il ruolo che la società degli adulti sta preparando per lui ed i necessari compromessi tra aspirazioni ideali e sogni ed il cinismo che sarà richiesto della vita reale o scegliere una via di fuga, anche quando il prezzo della fuga può essere molto alto? Non è forse un dilemma che, in forme diverse, si presenta nella vita di ciascuno, non solo nell’adolescenza?

Man mano che il film va avanti le scelte ed i comportamenti dei due protagonisti divergono progressivamente fino a rappresentare quasi i due poli opposti di scelte esistenziali tra coraggio e viltà, tra fedeltà romantica ai propri ideali e pragmatismo opportunistico, tra altruismo ed egoismo, tra individualismo e massificazione acritica, tra accettazione rassegnata del proprio destino e fuga a qualsiasi costo.

Un punto di forza del film sta nella rottura delle attese che provoca nello spettatore, perché esso non prende posizione, non esprime alcun giudizio etico o morale sui fatti che racconta e sui diversi comportamenti dei due protagonisti.

Un punto di debolezza si trova, invece, nel fatto che lo sviluppo narrativo è reso meno lineare dall’inserimento improvviso di elementi di parapsicologia, che ricordano le atmosfere stranianti di Lynch, che confondono la comprensione del comportamento di Edo e del significato del suo gesto finale, che sembra dettato più da disturbi psichici che dal suo senso di ribellione.

Giulio, invece, alla fine rappresenterà il “prodotto migliore” del collegio e sorprenderà lo spettatore nella parte finale del film con un comportamento scaltro e spiazzante, ma complementare ed opposto rispetto a quello del suo coetaneo, rivelando la sua vera natura, già irrimediabilmente corrotta dal fascino del denaro e del successo sociale, al quale vende la propria anima senza particolari lacerazioni interiori.

La regia del film riesce ad esprimere con le immagini sia la sospensione di giudizio etico e morale che il film lascia irrisolto sia la diversità di sensibilità, di valori e di destino dei due protagonisti attraverso l’alternanza tra luce ed oscurità, tra i campi lunghi della natura alpina ed i primi piani dei protagonisti senza profondità di campo,  tra la musica straniante (composta dal regista) ed i pezzi solari (Vivere, Ti sento), tra la location del collegio (un albergo dismesso immerso in una valle alpina) e gli interni geometrici e nevrotici dei corridoi (il riferimento a “Shining” è evidente)

Nel complesso un film bello e da vedere, soprattutto per riflettere sui cambiamenti della società degli ultimi 50 anni e magari per domandarsi in che rapporto siano I figli della notte di Andrea De Sica con La mejo gioventù di Marco Tullio Giordana.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




Loro 1, Noi 50.000.000

Loro 1, ovvero Lui e Loro, ma che colpa abbiamo Noi?

E’ appena uscito nelle sale la prima parte dell’ultima fatica di Paolo Sorrentino, Loro 1, dedicato a Berlusconi ed al sistema di potere e di valori che tramite lui è cresciuto nella società italiana, eutrofizzando il sistema precedente.

Sarà seguito da Loro 2, nelle sale a partire dal 10 maggio. Tra il cast Toni Servillo, già interprete di Giulio Andreotti nel film il divo, Fabrizio Bentivoglio, interprete di un ministro appassionato di poesia non ancora identificabile, Riccardo Scamarcio, che interpreta un imprenditore barese, Elena Sofia Ricci nella parte di Veronica Lario e Kashia Smutniak nella parte della escort prediletta del Cavaliere.

Molti critici hanno già espresso una certa delusione per la prima parte, che si riferisce al periodo del 2006 dopo la sconfitta alle elezioni, anche se prima di dare un giudizio compiuto sul film occorre necessariamente vedere anche la seconda, dedicata, invece al periodo successivo.

Loro 1 è dedicato per la prima ora, dei 105 minuti di durata, al meccanismo di fioritura e di sviluppo del sottobosco di cortigiani o aspiranti tali, che anela ad attecchire alla corte di Berlusconi e dei potenti e da qui ad innervare i luoghi di circolazione del denaro pubblico e degli affari.

Il meccanismo preferenziale di selezione della classe cortigiana, sembra essere, secondo il regista, quello di accreditarsi come miglior fornitore di ragazze disponibili, di quelle “figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica”, come battezzate pubblicamente dalla ex moglie Veronica Lario all’indomani delle cronache sulla partecipazione di Silvio alla festa dei 18 anni di Letizia Noemi.

L’obiettivo del cortigiano è sfacciato: cambiare il corso di una vita destinata all’insignificanza economica  entrando nei favori di Silvio o del potente di turno (nel film ne viene ritratto uno che si fa chiamare addirittura “Dio” ma la cui identità non è svelata) per ricevere in cambio “utilità” ed “influenze” da spendere nei fenomeni di affarismo senza scrupolo, di prevaricazione negli appalti, di sfruttamento del denaro pubblico per fini di arricchimento personale, nel totale disprezzo della legalità, dell’interesse comune e delle forze sane della società.

Le scene di sesso di questa prima ora del film sono esplicite e ridondanti, spesso meccaniche e compulsive e assumono, in realtà, la forma di un metalinguaggio cinematografico che comunica il drammatico deserto esistenziale dei protagonisti, la loro nullità umana, il cedimento morale di una intera classe dirigente e di una parte della società che si adegua senza alcuna resistenza alle nuove scorciatoie per il successo.

Emblematico e patetico appare in questo senso il comportamento di Tamara Morra, moglie di Sergio Morra, l’imprenditore tarantino che nel film ricorda Giampaolo Tarantini, che prova a resistere alle avances di Santino Recchia, un politico molto vicino a Berlusconi (nella seconda parte scopriremo forse chi è, in questa non è chiaro) gridando che non ha mai tradito suo marito.

Se è vero che il cinema è come uno specchio in cui scorrono riflessi aspetti della nostra vita che scatenano   un immediato confronto con noi stessi la domanda che esplode prepotente è se sia fiction o realtà, se quello che vediamo sullo schermo è la rappresentazione del brodo di coltura del decadimento ormai irreversibile della società italiana oppure se sia frutto della fantasia esagerata di un regista che ci ha abituato a sorprese di ogni genere.

Purtroppo quasi subito le sinapsi si attivano ed uniscono i puntini delle tante offese all’intelligenza propinate all’opinione pubblica e stratificate nella memoria singola e collettiva (da Ruby rubacuori alle Olgettine, dalle risate sui morti del terremoto dell’Aquila alle corruzioni dei giudici, ecc.) a copertura di nefandezze di ogni tipo ed arrivano alla conclusione che la finzione non supera la realtà, anzi forse la approssima per difetto, che d più di ventanni, la politica ed una parte della società italiana funzionano proprio così.

Dipenderà dalla crisi delle ideologie, dal pensiero debole e postmoderno, dal relativismo etico e chissà da quanto altro ancora, però vederti sbattere in faccia con immagini così forti che procurare una bella escort ad un potente è un titolo di merito che vale più di una specializzazione alla Normale di Pisa fa l’effetto di un pugno nello stomaco. Senza contare che le escort più talentuose poi magari diventano deputati e senatori della repubblica.

Il film in alcuni momenti sembra una guida preziosa nella rappresentazione dei segreti alla base della chiave del successo di Berlusconi ed offre spunti quasi pedagogici. Due scene, tra le tante, meritano di essere citate.

La prima, dirompente e visionaria, è quella con cui si apre il film: una pecora entra nella sua villa in Sardegna ed ammira ammaliata la televisione dove è in corso un telequiz presumibilmente presentato da Mike Bongiorno, mentre un condizionatore le rivolge ripetutamente, ma in modo intermittente, un getto di aria fredda che alla fine la fa stramazzare morta sul pavimento. La pecora rappresenta, forse, il popolo, la gente comune, che, dopo ventanni di lavaggio del cervello e manipolazione condotta sapientemente dalle televisioni commerciali, ha perso la capacità di pensare criticamente e di discernere il bene dal male, il vero dal falso.

La seconda scena è invece più sfacciata e riguarda Silvio che pesta una cacca sul prato ma convince il nipote di aver pestato una zolla, inventando una motivazione plausibile ma falsa e spiegandogli poi che la gente è disposta a credere qualsiasi verità, anche se contraria all’evidenza dei fatti ed a subire qualsiasi condizionamento.

Mentre lo spettatore naufraga in queste agnizioni, purtroppo già presenti nella sua mente anche se velate da uno stato di assuefazione, il film cambia registro ed imbocca quello della commedia, grazie all’apparizione di Lui, contrapposto a Loro. Sorrentino stesso ha dichiarato che gli interessava fare un film sull’uomo e non sulla politica, di mostrare il Berlusconi romantico nella storia di amore con Veronica.

La seconda parte del film insiste sulla crisi coniugale tra Silvio e Veronica e sui suoi stanchi tentativi di recuperare il loro rapporto, ormai al capolinea. Il tutto rappresentato con continue interpunzioni in chiave comica, quasi a sottolineare che il ruolo romantico ed impregnato di sentimento non è nelle corde del protagonista e si capisce anche dalla noia che avvolge le sue giornate nella villa in Sardegna, come se la vita vera fosse altrove, ad es. sul motoscafo, pieno di ragazze discinte e sculettanti che ballano al ritmo della musica (come normalmente avviene nei programmi televisivi da ventanni nelle fasce orarie destinate alle famiglie) che ormeggia a fianco dello yacht dove Silvio e Veronica conversano in modo annoiato.

Altre scene esilaranti sono quelle in cui Silvio si traveste da odalisca nel tentativo di far divertire una annoiata Veronica o quella in cui rievoca i tempi del loro corteggiamento su una giostra con tanto di apparizione  all’improvviso di Fabio Concato sul prato che canta la loro canzone mentre Apicella si dispera per essere stato soppiantato.

In sintesi, Loro 1 pone le basi per una rappresentazione dei diversi aspetti del berlusconismo (l’uomo, la vita politica, il suo sistema valoriale, la deriva morale ed etica della società che gira intorno) che ancora non si capisce dove andrà a parare e che sarà presumibilmente riannodata in Loro 2 per dare il senso ultimo del film. Temo rimarrà non trattato  l’interrogativo sul Noi nel titolo della recensione e forse sarà uno dei dilemmi che il film ci lascerà irrisolto, magari materia per una futura terza parte.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Dio c’è (e forse anche Marx) ma non si vede!

Dio c’è (e forse anche Marx) ma non si vede nell’ultimo film di Aki Kaurismaki, The other side of the hope

 

La speranza riprende fiato nell’ultimo film di AKi Kaurismaki e dimostra ancora una volta che, di fronte all’ennesimo evento storico di perdita di senso e di ragione, la guerra siriana e la conseguente tragedia dei rifugiati – per dirla con Hanna Arendt – solo il bene sembra essere radicale ed universale nel mondo mentre il male è innaturale e frutto di egoismi individuali e di contingenze particolari, di deviazioni dal corso naturale dei sentimenti delle persone.

Il film, insignito del premio per la migliore regia al festival di Berlino, affronta il cocktail di drammatica attualità politica e morale in cui si mescolano follia, odio, xenofobia, razzismo e nazionalismo da una parte e umanità, solidarietà e amore tra gli essere umani dall’altra in relazione alle difficili sorti dei rifugiati siriani.

E lo fa con il solito stile di Kaurismaki, da fiaba agrodolce surreale e malinconica che non rinuncia ai suoi velati intendimenti morali, a metà strada tra il film di denuncia ed il film drammatico e sentimentale, sospesa in un vuoto temporale e spaziale, che esalta il nitore espressivo dell’essenziale (il valore dell’uomo) in contrapposizione  alla rappresentazione dell’assurdità del male nelle sue manifestazioni storiche (la guerra e le sue atrocità, l’odio e l’egoismo dei razzismi e dei nazionalismi).  

L’universalità e la atemporalità della poetica di Kaurismaki risalta anche da una “chicca” dei dialoghi del film, che rimanda ad una citazione di un capolavoro di Lubitsch degli anni 30 (To be or not to be, Vogliamo vivere nella versione in italiano) con la frase che Wikström pronuncia, ripresa dai versi de Il Mercante di Venezia (“Se ci pungete, non sanguiniamo, e se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate torto, non ci vendicheremo?”), frase che stabilisce un collegamento immediato tra quanto accade oggi con i rifugiati e gli orrori della Germania nazista.

Un giovane immigrato siriano, di nome Khaled, arriva in modo improbabile e fortuito nel porto di Helsinki in fuga da Aleppo dove i bombardamenti hanno appena distrutto la sua casa e buona parte della sua famiglia, ad eccezione di sua sorella Miriam, che egli cerca disperatamente di rintracciare per ricongiungersi con lei.

La sua vita si incrocia con quella di Wikström, un commesso viaggiatore di mezza età con il vizio del gioco d’azzardo, che dopo aver lasciato la moglie ed aver vinto una forte somma al gioco, rileva un decadente ristorante, chiamato la Pinta d’Oro ed i suoi improbabili dipendenti, ai quali, dopo essere fuggito dalla polizia che voleva rimpatriarlo, si unisce anche Khaled, che vi trova accoglienza ed un lavoro.

Il ristorante con i suoi locali, sospesi in una realtà metafisica e surreale, diventa lo spazio che ospita le vite un po’ stralunate dei protagonisti ed in cui risplende la carica di umanità e di solidarietà che li spinge ad aiutare Khaled fino a fargli realizzare il suo sogno di ricongiungersi con l’amata sorella.

Cosa accomuna le storie di persone apparentemente così diverse? In primo luogo lo scambio ed il riconoscimento di umanità, quasi asimmetrico.

Sembra, cioè che l’esule siriano abbia bisogno di ricevere gesti di solidarietà e di umanità forse meno di quanto i cittadini finlandesi abbiano bisogno di compierne.

In questo scambio apparentemente gratuito sta il primo grande messaggio del film, quasi religioso: se l’amore, la giustizia, la bontà sono al fondo di gesti disinteressati verso gli ultimi ed i bisognosi non viene da chiedersi che quei gesti originino da qualcosa di più grande che li fonda e li inspira?

Se ci sono persone che gratuitamente e con comportamenti disinteressati e naturali testimoniano la verità, la giustizia, il bene, la solidarietà e l’amore verso il prossimo in difficoltà questo non basta a presupporre l’esistenza di un fondamento da cui promanano quei gesti?

Questi gesti non sono segni dell’esistenza di una forza originaria di vita che spinge a nuovi traguardi di umanità e che è molto vicina a quello che le religioni chiamano Dio?

Il secondo messaggio del film, caro alla visione del mondo del regista finlandese, sembra essere che il denaro ed il capitalismo sono i responsabili del decadimento delle relazioni tra le persone e della mercificazione dei sentimenti umani.

Ogni gesto di aiuto e solidarietà, compreso quello del camionista che viaggia fino alla Lituania per recuperare la sorella di Khaled, è gratuito e disinteressato, o meglio è remunerato dal bisogno di condivisione di sentimenti di umanità e solidarietà  e non richiede denaro.

Questo è il messaggio più utopistico del film e forse il vero altro volto della speranza, cioè che un nuovo umanesimo si sostituisca universalmente alla corruzione delle relazioni umane causata dalla tirannia dei “rapporti di produzione”.

Forse è pura utopia ma grazie a Kaurismaki che con un film così bello e poetico non smette di raccontarlo.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress




Fai bei sogni, Gramellini e Bellocchio per sopravvivere al dolore

Fai bei sogni di Marco Bellocchio

I sogni sono importanti nella vita delle persone ma da soli non bastano a scaldare il cuore quando viene meno un amore grande ed unico, soprattutto se si è bambini e l’amore che viene meno è quello della madre, come accade nel bel film di Marco Bellocchio, Fai bei sogni, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Gramellini che ha avuto enorme successo in Italia ed all’estero ed interpretato, tra gli altri, da Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, l’attrice francese di The Artist.

Il film parla del modo in cui il protagonista Massimo ha reagito nel corso della sua vita alla perdita prematura della madre all’età di 9 anni, delle difficoltà incontrate nel tentativo di sostituirne l’amore, unico ed insostituibile, e di come, ormai adulto, dopo una infanzia ed una adolescenza lacerate dal dolore e dai misteri sulle reali cause della morte, tenutegli nascoste dal padre e dai parenti, riuscirà a lasciarsi alle spalle questo peso e a tornare a vivere.

Ogni volta in cui un romanzo viene trasposto in un film si è tentati di fare delle comparazioni dimenticando che si tratta di due generi, il romanzo ed il film, molto diversi tra loro e che ognuno di loro dà luogo ad espressioni autoriali originali ed autonome, seppure accomunate dalla trama e dai personaggi, che riflettono sia la sensibilità dell’autore che il diverso genere espressivo utilizzato.

Nonostante le differenze tra i generi nel film emerge la rappresentazione di alcuni pensieri forti già molto presenti nel romanzo, che ti tormentano in ogni istante quando perdi una madre così prematuramente: capire il perché ed il senso del dolore che ti avvolge senza speranza, capire come riuscirai a sopravvivere nel tempo, capire se hai in qualche modo colpa per quello che è successo e perché proprio a te.

Il film riesce a comunicare in modo emozionale come questi pensieri siamo accompagnati ed amplificati da un senso di solitudine e di straniamento dal mondo che raggela la vita di Massimo. E’ come se il gelo e la solitudine della sua vita passassero nello spettatore grazie alla tecnica del film, alla sua fotografia, al ritmo della narrazione, agli inserti televisivi (Canzonissima, Raffaella Carrà, ecc.) che compaiono in alcune scene con la tata, quasi a ricordare la spensieratezza e la leggerezza della vita del mondo esterno in contrapposizione a quella disperata di Massimo.

Un altro elemento che colpisce nella narrazione è la difficoltà del padre a mettere in comunicazione le due solitudini profonde e lacerate, che pur unite dalla comune nostalgia per una donna luminosa, non riescono a trovare momenti di contatto e di sollievo reciproco al dolore, salvo nel rito esteriore e superficiale della fede calcistica nel grande Toro.

L’intera narrazione sembra così funzionale a far emergere quale protagonista del film la solitudine dell’esistenza umana e la difficoltà della condivisione e della comunicazione, anche nei momenti di disperazione e anche tra le persone più care e più vicine.

Forse scriviamo per scoprire che non siamo soli, parafrasando una citazione dello scrittore inglese Clive Staples Lewis e mi viene in mente anche una bella frase di Borges che dice che le librerie sono come grotte magiche popolate da uomini morti.

Seguendo questa linea di interpretazione l’approdo alla scrittura diventa per il protagonista Massimo una scelta di sopravvivenza obbligata, che lo porta a trovare un modo per sentirsi meno solo ed a superare l’oppressione del dolore fino a ritrovare sé stesso e la voglia di vivere nella scena del ballo liberatorio nella festa nel casale in mezzo alla campagna.

 

Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress
Stefano Delibra Critico Cinematografico di Betapress