Apri tu che apro anch’io.
Puntuali come un orologio svizzero si riaccendono le polemiche sulle aperture festive e domenicali dei negozi.
La mai tollerata e accettata liberalizzazione voluta dall’allora presidente del consiglio Mario Monti scatena, a ridosso delle principali festività, le ire di parte del mondo economico e delle associazioni di categoria.
Con la «manovra Salva Italia» varata con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, Monti pose fine alla lunga battaglia tra i promotori e i contrari alle liberalizzazioni.
Si passò quindi da una disciplina sostanzialmente regolatoria, dove le Regioni ed i Comuni in forza della loro competenza in materia di Commercio stabilivano orari e modalità di apertura delle attività commerciali, ad una quasi totale deregulation nel quadro della politica di liberalizzazione della c.d. Direttiva Servizi, anche detta Bolkestein – Direttiva 12 dicembre 2006, 06/123/CE – attuata con D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59.
Il nodo della questione, in un ambito più generale, riguarda la possibilità, prima derogatoria, di aprire in qualunque giorno e orario dell’anno la propria attività commerciale.
La normativa dibattuta, oltre a questo aspetto maggiormente sentito, supera il principio del contingentamento delle autorizzazioni commerciali.
Infatti, non è più prevista la possibilità da parte dei comuni di limitare, anche attraverso i piani generali del commercio, le nuove aperture di negozi al disopra dei 250 mq di superficie (per i negozi di vicinato la liberalizzazione delle nuove attività era stata attuata con le modifiche normative alla rigidissima legge 11.6.1971, n. 426 che prevedeva una concorrenza fortemente contingentata).
La deregulation in materia di contingentamento, colpisce direttamente la politica.
Da un giorno all’altro le Regioni e i comuni hanno perso gran parte del loro potere in materia, non avendo più la possibilità di determinare qualitativamente a quantitativamente il numero e la superficie delle attività economiche e commerciali insediabili.
Questo ha chiaramente fatto storcere il naso ai “centri di potere” che in qualche modo detenevano un controllo capillare del territorio.
Il mancato rispetto del calendario di chiusure prevedeva sanzioni pecuniarie di diverse migliaia di euro e la recidiva comportava la sospensione dell’attività per un numero di giorni stabilito dalla legge regionale territorialmente competente.
La materia che invece regolamenta orari e giorni di apertura al pubblico coinvolge delle sensibilità trasversali e diffuse compresa quella politica che fa incetta di voti tra consistenti sacche di consenso.
La politica si divide quindi su istanze contrapposte e sposa, in funzione di un mero tornaconto elettorale, l’una o l’altra posizione in campo, meno spesso entra con obiettività nel merito.
Tendenzialmente a favore delle liberalizzazioni le associazioni dei consumatori che rivendicano il diritto all’eccesso ai servizi senza soluzione di continuità, il libero mercato e l’autodeterminazione delle strategie commerciali con una ricaduta positiva ed a favore degli utenti, al loro fianco i grossi gruppi del commercio che hanno la capacità di organizzare turni di lavoro e garantire adeguati riposi infrasettimanali e il riconoscimento della paga per festivi e straordinari.
Contrari le maggiori sigle sindacali, con qualche distinguo e le associazioni degli esercenti che annoverano tra gli iscritti tanti piccoli commercianti; i primi vedono nelle aperture festive una riduzione della libertà dei lavoratori con il rischio di sfruttamento senza reali garanzie, i secondi ritengono inutili le aperture straordinarie e particolarmente onerose per l’aumento dei costi di gestione.
La contrapposizione è sostanzialmente tra chi vorrebbe decidere per legge quando e come alzare la saracinesca del proprio negozio e chi vorrebbe che tutti potessero liberamente autodeterminarsi.
Purtroppo, il buon senso nel bel paese langue, basterebbe lasciare agli esercenti la possibilità di stare aperti, ma anch’essi potrebbero serenamente e pacificamente rinunciare a qualche giornata d’incasso durante le principale festività.
Troverebbero giovamento i lavoratori, le aziende ed il livello dello scontro calerebbe di tanto.
Sempre che non si voglia un ritorno al passato e che alcuni auspicano, giacciono in parlamento alcune proposte di legge che vorrebbero cancellare la riforma del commercio di Monti e ”re-interpretare” la Bolkestein, ma che probabilmente porterebbe ulteriore instabilità ad un mercato già afflitto da una crisi endemica e da una profonda difficoltà ad adattarsi ai tempi.