Caro lettore la critica è attività giornalistica.

Rispondo ad un nostro caro lettore che mi segnala che a volte la critica a questo paese è immotivata.

Mi dica Lei caro lettore se questo paese è scevro da possibilità di critica, che in realtà non andrebbe diretta a questo paese, ma a chi lo governa.

Mi trovo a scrivere queste righe con un misto di amarezza e amore profondo per la nostra amata Italia, una terra che, nonostante tutto, continuo a sentire nel cuore come una parte fondamentale della mia stessa essenza.

È impossibile non notare il degrado morale e politico che ha pervaso la nostra nazione negli ultimi decenni.

La corruzione dilagante, la perdita dei valori tradizionali, l’indebolimento delle istituzioni e la crescente disuguaglianza sociale sono tutte piaghe che minano la grandezza di questo paese che, un tempo, era faro di civiltà e cultura per il mondo intero.

La gloriosa storia della nostra patria sembra essere dimenticata, sepolta sotto un cumulo di decadenza e superficialità.

Non posso nascondere il mio disprezzo per ciò che l’Italia è diventata.

Mi rattrista vedere come il nostro spirito nazionale sia stato eroso da una globalizzazione sfrenata e da un relativismo morale che tutto abbraccia e nulla valorizza.

Siamo diventati una nazione che sembra aver perso il senso di sé, incapace di riconoscere la propria identità e i propri meriti.

Eppure, nonostante tutto, amo profondamente questo paese.

Amo l’Italia non solo per la sua storia gloriosa, ma per ciò che essa rappresenta nella sua essenza più pura.

Le nostre nobili tradizioni, la nostra cultura millenaria, la nostra arte sublime, la nostra lingua melodiosa, sono tutte testimonianze di una grandezza che non può essere cancellata da nessuna crisi contemporanea.

Amo l’Italia dei grandi pensatori, dei poeti, dei musicisti, degli artisti che hanno plasmato il volto della cultura mondiale.

Amo l’Italia dei patrioti, di coloro che hanno combattuto e sacrificato la propria vita per un ideale di libertà e unità.

Amo l’Italia delle persone comuni, dei contadini, degli artigiani, dei lavoratori che, con il loro impegno quotidiano, hanno costruito e continuano a costruire le fondamenta della nostra società.

Critico l’Italia dei maneggioni, dei raccomandati, dei politici incapaci, delle istituzioni insulse ed inutili.

Credo fermamente che, nonostante le difficoltà attuali, l’Italia abbia in sé la capacità di risollevarsi.

Le nostre radici sono profonde e solide; la nostra cultura è un patrimonio che nessuna crisi può davvero distruggere.

Dobbiamo riscoprire i valori che ci hanno resi grandi, rispolverare l’orgoglio di essere italiani e lavorare insieme per costruire un futuro che sia all’altezza del nostro glorioso passato.

Il mio amore per l’Italia è una fiamma che non si spegnerà mai, alimentata dalla speranza che un giorno, non lontano, potremo vedere una rinascita della nostra grande nazione.

Fino a quel momento, continuerò a lottare, a criticare, a sperare e ad amare questo paese con tutto me stesso.

E le aggiungo, amato lettore, che la critica, quando diviene strumento per il miglioramento, è sicuramente Attività giornalistica con la A maiuscola.

 

se ha due lire da splendere compri pure il mio ultimo libro potrebbe essere un aiuto a capire come mai siamo giunti qui.

 

 

 

Il vero partito deve essere l’Italia

 




Caro Direttore,

 

Le scrivo per spiegare per punti le ragioni profonde che mi hanno portato a non esercitare il mio diritto di voto alle recenti elezioni.

Come intellettuale di destra, questa scelta può apparire controintuitiva o addirittura incoerente, ma credo fermamente che sia necessaria una riflessione critica su ciò che sta accadendo nel nostro panorama politico.

Disillusione e Tradimento degli Ideali

Negli ultimi anni, ho osservato con crescente preoccupazione il tradimento degli ideali fondanti della destra italiana.

Il conservatorismo, che dovrebbe essere radicato nei valori di tradizione, ordine e responsabilità, è stato progressivamente svuotato e trasformato in un mero strumento di potere.

I partiti che si professano di destra hanno spesso abbandonato la difesa dei principi morali e culturali in favore di strategie populiste e demagogiche che cercano solo il consenso immediato.

Mancanza di Visione e Leadership

Un’altra ragione che mi ha portato a non votare è la palese mancanza di una visione chiara e di una leadership forte.

I leader attuali sembrano più interessati a mantenere il loro status che a promuovere un progetto politico coerente e lungimirante.

L’incapacità di proporre soluzioni concrete ai problemi reali del Paese – come la sicurezza, l’immigrazione, l’economia stagnante e il declino culturale – ha fatto sì che molti elettori, me compreso, si sentano abbandonati e privi di rappresentanza.

Populismo e Semplificazioni Pericolose

La deriva populista è un altro elemento che mi ha fortemente scoraggiato.

La politica ridotta a slogan e la continua ricerca di capri espiatori non solo sono inefficaci, ma minano anche la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni.

La destra, per essere credibile, dovrebbe invece promuovere un dibattito serio e approfondito, basato su dati e analisi, e non alimentare divisioni e paure irrazionali.

Corruzione e Interesse Personale

Gli scandali di corruzione e l’uso disinvolto del potere a fini personali hanno ulteriormente eroso la mia fiducia nei confronti della classe politica.

La mancanza di etica e di responsabilità, elementi che dovrebbero essere al centro dell’agire politico, sono diventati ormai la norma. Questo comportamento non solo tradisce gli elettori, ma danneggia anche l’immagine della destra e della politica in generale.

Un Richiamo alla Rifondazione

La mia scelta di non votare è un segnale di protesta e un richiamo alla rifondazione.

Credo fermamente che sia necessaria una profonda riforma interna dei movimenti di destra, che recuperi i valori autentici e li traduca in un progetto politico serio e sostenibile.

Solo attraverso un rinnovamento radicale sarà possibile riconquistare la fiducia dei cittadini e costruire una destra forte e credibile, capace di affrontare le sfide del nostro tempo.

In conclusione, non si tratta di apatia o indifferenza, ma di una scelta consapevole e dolorosa.

Mi auguro che questo gesto possa contribuire a un dibattito costruttivo e a una presa di coscienza all’interno della nostra area politica.

Solo così potremo sperare in un futuro migliore per il nostro Paese.

Con stima,

B.M.




Il vero partito deve essere l’Italia

Negli ultimi cinquant’anni, la politica italiana ha visto un susseguirsi di promesse non mantenute e aspettative deluse, un ciclo che ha portato molti intellettuali di destra a una profonda disillusione.

Questa disillusione non è semplicemente una questione di insoddisfazione politica, ma un riflesso della percepita decadenza culturale e sociale del Paese.

Con l’avvicinarsi delle elezioni europee, queste frustrazioni raggiungono un nuovo apice, poiché si ripropone la speranza, ormai flebile, di un cambiamento significativo.

Le Promesse Tradite: Una Retrospettiva

Le promesse politiche in Italia sono state una costante, un rituale quasi sacro che si ripete ad ogni ciclo elettorale.

Tuttavia, queste promesse sono spesso rimaste tali, senza tradursi in realtà concrete. Analizzando i programmi dei principali partiti dagli anni ’70 ad oggi, emerge un pattern di ambiziose proposte economiche, sociali e culturali che raramente hanno trovato una realizzazione.

Negli anni ’80, ad esempio, il boom economico post-bellico iniziava a mostrare segni di cedimento.

Le promesse di una riforma strutturale del sistema produttivo, di una modernizzazione delle infrastrutture e di una maggiore equità sociale venivano ripetutamente fatte e disattese. Gli anni ’90, con Tangentopoli e la crisi della Prima Repubblica, videro emergere nuove formazioni politiche che promettevano una rottura col passato.

Ma la Seconda Repubblica non fu in grado di mantenere molte delle sue promesse di cambiamento e rinnovamento.

La Decadenza Culturale

Uno degli aspetti più preoccupanti del fallimento politico è stato il declino culturale.

L’Italia, culla del Rinascimento e patria di artisti, filosofi e scienziati, ha visto un progressivo impoverimento del suo patrimonio culturale e intellettuale.

Gli investimenti in cultura e istruzione sono diminuiti drasticamente nel corso degli anni. Secondo i dati dell’OCSE, la spesa pubblica per l’istruzione in Italia è tra le più basse d’Europa, rappresentando solo il 3.9% del PIL nel 2019, rispetto alla media europea del 4.9%.

Le università italiane, un tempo prestigiose, lottano oggi con carenze di fondi e infrastrutture obsolete. Il numero di giovani laureati che emigrano per cercare migliori opportunità all’estero è in costante aumento, con un fenomeno di “fuga dei cervelli” che depaupera ulteriormente il capitale umano del Paese.

I Dati della Decadenza

I numeri parlano chiaro.

Secondo un rapporto di Eurostat del 2022, l’Italia ha uno dei tassi di crescita economica più bassi dell’Unione Europea.

Il tasso di disoccupazione giovanile, sebbene in lieve diminuzione negli ultimi anni, rimane tra i più alti, attestandosi al 29.7% nel 2021.

La produttività del lavoro è stagnante, e il debito pubblico continua a crescere, superando il 155% del PIL nel 2021, un dato preoccupante che limita fortemente le capacità di investimento dello Stato.

La Crisi della Destra Italiana

Per un intellettuale di destra, la delusione è particolarmente acuta.

La destra italiana, storicamente legata a valori di tradizione, ordine e identità nazionale, ha faticato a trovare una coerenza interna e una leadership capace di tradurre i propri principi in politiche efficaci.

Le speranze riposte in figure come Silvio Berlusconi, che prometteva una “rivoluzione liberale”, sono state frustrate da scandali e inefficienze.

I movimenti più recenti, come la Lega, pur avendo catalizzato un notevole consenso, sono spesso accusati di populismo e mancanza di una visione strategica a lungo termine.

Le Elezioni Europee: Un Nuovo Banco di Prova

Le imminenti elezioni europee rappresentano un nuovo banco di prova.

In un contesto di crescente euroscetticismo e frammentazione politica, l’Italia si trova a dover scegliere non solo i propri rappresentanti a Bruxelles, ma anche a definire il proprio ruolo futuro all’interno dell’Unione Europea.

La speranza di molti intellettuali di destra è che queste elezioni possano finalmente segnare l’inizio di un reale cambiamento, ma la storia recente invita alla cautela.

In conclusione, la disillusione degli intellettuali di destra rispetto alla politica italiana è il risultato di decenni di promesse non mantenute e di un declino culturale che sembra inarrestabile.

Le elezioni europee offrono una nuova opportunità, ma senza un serio e profondo rinnovamento della classe politica e delle istituzioni, il rischio è che anche questa sia un’ennesima occasione persa.

Siamo quindi votati al populismo per forza?

l’uomo di destra è incompatibile con il populismo!

La crescente disillusione nei confronti della politica italiana ha spinto molti intellettuali di destra a interrogarsi su quale sia il loro ruolo e la loro posizione nel contesto attuale.

Mentre il populismo ha guadagnato terreno, offrendo risposte semplici e immediate a problemi complessi, gli intellettuali di destra trovano difficile abbracciare questa corrente per una serie di ragioni profonde e articolate.

L’Essenza del Pensiero Conservatore

Per comprendere perché un intellettuale di destra non può votarsi al populismo, è essenziale riflettere sull’essenza del pensiero conservatore.

La destra tradizionale si basa su valori di stabilità, ordine, tradizione e responsabilità.

Promuove una visione del mondo che valorizza le istituzioni consolidate, la continuità storica e il rispetto per la cultura e le tradizioni nazionali. Questo approccio contrasta nettamente con la natura spesso volatile e anti-istituzionale del populismo.

La Complessità delle Soluzioni

Gli intellettuali di destra sono consapevoli della complessità dei problemi socio-economici e culturali che affliggono l’Italia e il mondo contemporaneo.

Sanno che le soluzioni semplicistiche e immediate proposte dai populisti sono raramente efficaci e spesso dannose nel lungo periodo.

Il populismo tende a sfruttare le paure e le frustrazioni della popolazione, offrendo capri espiatori e promesse irrealizzabili.

Gli intellettuali, invece, riconoscono che i problemi complessi richiedono soluzioni ponderate, basate su analisi approfondite e politiche a lungo termine.

Il Rischio della Demagogia

Il populismo è intrinsecamente legato alla demagogia, l’arte di guadagnare consenso attraverso appelli emotivi piuttosto che razionali.

Questo approccio è in netto contrasto con l’etica dell’intellettuale, che cerca di elevare il dibattito pubblico attraverso argomentazioni basate su fatti e ragionamenti logici.

Per un intellettuale di destra, il populismo rappresenta una pericolosa deviazione dalla ricerca della verità e dell’eccellenza intellettuale, preferendo invece il successo immediato e la manipolazione delle masse.

La Difesa delle Istituzioni

Un altro aspetto fondamentale che separa gli intellettuali di destra dal populismo è il loro rispetto per le istituzioni.

La destra tradizionale vede nelle istituzioni un baluardo di stabilità e continuità, essenziali per il mantenimento dell’ordine sociale e della giustizia.

Il populismo, al contrario, spesso si posiziona in opposizione alle istituzioni, dipingendole come corrotte e inefficaci.

Questo atteggiamento distruttivo mina la fiducia nel sistema democratico e può portare a un’erosione delle fondamenta stesse dello Stato.

La Cultura e l’Identità

Per un intellettuale di destra, la cultura e l’identità nazionale sono valori inestimabili che devono essere preservati e promossi.

Il populismo, sebbene possa fare appello a sentimenti nazionalisti, lo fa in modo superficiale e strumentale.

Manca la profondità di comprensione e l’apprezzamento per la ricchezza culturale e storica che caratterizzano la destra tradizionale.

Gli intellettuali vedono il pericolo di una retorica populista che, pur invocando l’orgoglio nazionale, rischia di ridurre la cultura a slogan vuoti e a una visione distorta della realtà.

Un Chiamata all’Integrità Intellettuale

Per un intellettuale di destra, votarsi al populismo significa tradire i propri principi fondamentali.

Significa abbandonare la ricerca della verità, la complessità delle soluzioni, il rispetto per le istituzioni e la profondità culturale.

Significa, in ultima analisi, abbandonare l’integrità intellettuale in favore di un successo politico immediato ma vuoto di sostanza.

La sfida per gli intellettuali di destra è dunque quella di trovare un percorso che, pur riconoscendo le legittime frustrazioni del popolo, sappia offrire soluzioni reali e sostenibili.

Un percorso che non ceda alla tentazione della demagogia ma che, al contrario, riaffermi i valori di stabilità, responsabilità e cultura che sono al cuore del pensiero conservatore.

In un’epoca di crescente populismo, è più che mai necessario che gli intellettuali di destra riaffermino la loro voce, non come eco delle masse, ma come guida illuminata verso un futuro migliore.

Il Generale Vannacci: Un Visionario Tra Realismo e Comprensione delle Necessità del Popolo?

Nel panorama politico e sociale italiano, dominato spesso da figure populiste e discorsi semplicistici, emerge una figura che si distingue per il suo approccio ponderato e realistico: il Generale Roberto Vannacci.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Vannacci non è un populista che cerca consensi facili attraverso slogan vuoti.

Invece, egli si presenta come un leader che ha profondamente compreso le esigenze del popolo italiano, offrendo soluzioni pratiche e concrete ai problemi che affliggono la nazione.

La carriera militare del Generale Vannacci è testimone della sua dedizione e competenza.

La sua lunga esperienza nelle forze armate gli ha fornito una comprensione unica delle dinamiche sociali e delle sfide che il Paese deve affrontare.

La sua capacità di affrontare gli avversarsi sempre con calma, senza attaccarli e senza atteggiamenti ostili gli sta facendo acquisire gran consenso nel paese.

Vannacci ha servito in diverse missioni internazionali, acquisendo una visione globale e una capacità di analisi che trascende il provincialismo e il populismo tipici di molti politici contemporanei.

Le proposte di Vannacci non sono frutto di demagogia, ma di un’analisi attenta e approfondita delle reali necessità del popolo italiano.

Egli riconosce che le soluzioni ai problemi complessi richiedono un approccio pragmatico e realistico.

Ad esempio, nel campo della sicurezza, Vannacci sostiene la necessità di rafforzare le forze dell’ordine non solo in termini numerici, ma anche attraverso una migliore formazione e l’adozione di tecnologie avanzate.

Questo approccio bilancia la sicurezza nazionale con il rispetto dei diritti civili, evitando le scorciatoie autoritarie tipiche dei discorsi populisti.

Uno degli aspetti più distintivi di Vannacci è la sua empatia verso il cittadino comune.

Contrariamente ai populisti, che spesso sfruttano le paure e le frustrazioni del popolo per guadagnare consensi, Vannacci si sforza di capire le radici di queste emozioni.

La sua comunicazione è sempre rispettosa e mirata a trovare soluzioni condivise.

Vannacci vede nella cultura un elemento essenziale per il rilancio del Paese, sostenendo politiche che incentivino l’istruzione e la diffusione del patrimonio culturale italiano, sia a livello nazionale che internazionale.

In definitiva, il Generale Vannacci rappresenta una figura che, pur rasentando i toni e i metodi del populismo, ha saputo cogliere le necessità del popolo.

Non mi ritengo ne un sostenitore ne un detrattore del Generale, ma gli riconosco l’acume politico di aver saputo identificare una figura che ha colmato un vuoto comunicativo nel paese.

Ha profondamente capito che il politicamente corretto è la più grande bufala storica, come peraltro da noi più volte sostenuto non da ultimo qui https://betapress.it/politicallllllly-corrrrrect-che-freno-al-confronto/ , e che il paese ed i suoi cittadini hanno bisogno di sentire chi parla come loro, per loro e con loro.

Pochi altri hanno in precedenza azzeccato questo stile, e bravo Generale, e stolti tutti quelli che lo accusano superficialmente e senza affrontarlo in profondità: le accuse di razzismo e di fascismo, nonché di omofobia, gli fanno solo guadagnare altri punti.

Attaccare oggi il generale Vannacci che parla il linguaggio del popolo solo perché usa un linguaggio vicino al popolo è un poco come accusare il popolo stesso, ed il popolo su queste cose non perdona.

Il mio Dissenso: Un Grido Contro l’Impoverimento Generale del Paese

Nel contesto politico italiano attuale, mi trovo, specie come giornalista, in una posizione di profonda disillusione e frustrazione.

La delusione non deriva solo dalle promesse non mantenute e dalle aspettative disattese, ma anche dalla sensazione di essere perseguitato e isolato dagli stessi alleati politici.

Questo sentimento di alienazione mi spinge quindi ad esprimere un dissenso sempre più marcato contro l’impoverimento generale del Paese, un impoverimento che si manifesta non solo a livello economico, ma anche culturale e sociale.

La Disillusione con il Partito

Per me, ma come per ogni intellettuale di destra, la lealtà al proprio partito è stata tradizionalmente una questione di principio e di coerenza con i valori e le idee che quel partito rappresenta.

Tuttavia, negli ultimi anni, molti hanno assistito con sgomento a un declino della qualità e della serietà delle politiche adottate.

Le speranze riposte in un cambiamento positivo sono state spesso disattese, con promesse elettorali che si sono rivelate vuote e progetti di riforma che sono rimasti lettera morta.

Questa disillusione è aggravata dalla percezione di essere traditi dagli stessi alleati.

Invece di trovare supporto e solidarietà, molti, me compreso, si sentono perseguitati e marginalizzati da coloro che dovrebbero essere i loro naturali compagni di battaglia.

Questo isolamento non è solo politico, ma, soprattutto per me in questo momento, spesso anche personale e professionale, rendendo ancora più acuto il senso di frustrazione.

Il Grido di Dissenso

Di fronte a questa situazione, non posso far altro che esprimere un profondo dissenso.

Questo dissenso non è un semplice sfogo di rabbia, ma un grido di allarme contro l’impoverimento generale del Paese.

L’Italia, una volta faro di cultura e innovazione, sta vivendo un declino che sembra inarrestabile.

L’Impoverimento Economico

L’economia italiana, stagnante da decenni, è uno dei principali fattori di preoccupazione.

La disoccupazione, soprattutto giovanile, rimane elevata, e le opportunità di lavoro qualificato sono sempre più rare.

Le politiche economiche adottate negli ultimi anni non sono riuscite a stimolare una crescita sostenibile e a lungo termine, e il debito pubblico continua a crescere, limitando le capacità di investimento del Paese.

Vedo con preoccupazione l’assenza di strategie economiche solide e lungimiranti, l’eccessivo utilizzo dei fondi PNRR senza una doverosa ossatura che ne ripaghi i costi.

La mancanza di investimenti in settori chiave come l’innovazione, la ricerca e le infrastrutture sta contribuendo a un impoverimento strutturale che mette a rischio il futuro del Paese.

L’Impoverimento Culturale

L’impoverimento non è solo economico.

La cultura italiana, un tempo orgoglio nazionale, sta vivendo una crisi profonda.

I tagli ai finanziamenti per l’istruzione e la cultura hanno portato a un degrado delle istituzioni culturali e a un impoverimento dell’offerta educativa.

Le università e le scuole, che dovrebbero essere il fulcro della formazione delle nuove generazioni, soffrono di carenze strutturali e finanziarie che compromettono la qualità dell’insegnamento e della ricerca.

Questo declino culturale è aggravato dalla mancanza di visione e di politiche efficaci da parte del governo.

Vedo con allarme la diffusione di una cultura di mediocrità e di conformismo, che soffoca il talento e l’innovazione.

La fuga dei cervelli, con molti giovani laureati che emigrano per cercare migliori opportunità all’estero, è un sintomo drammatico di questo impoverimento.

L’Impoverimento Sociale

Infine, l’impoverimento sociale è forse l’aspetto più doloroso per me.

L’Italia è sempre stata un paese con forti legami comunitari e una ricca vita sociale.

Tuttavia, le politiche divisive e la crescente polarizzazione stanno erodendo il tessuto sociale del Paese.

La coesione sociale, un tempo punto di forza, è minata da crescenti disuguaglianze e da un senso di insicurezza e di incertezza per il futuro.

Un Appello alla Rinascita

In questo contesto, mi sento il dovere di alzare la voce e denunciare la situazione.

Il mio dissenso è un atto di amore verso il Paese ed un appello alla rinascita.

È un richiamo a ritrovare i valori fondamentali che hanno reso grande l’Italia e a lavorare insieme per costruire un futuro migliore.

Non voglio assolutamente arrendermi alla disillusione, ma cerco di trasformarla in un’energia creativa e costruttiva.

Cerco di promuovere un dibattito pubblico serio e informato, basato su fatti e argomentazioni, e di coinvolgere tutti i cittadini in un progetto comune di rinascita.

Solo attraverso un impegno collettivo e una visione condivisa sarà possibile invertire la rotta e risollevare il Paese dall’impoverimento economico, culturale e sociale che lo affligge.

A queste elezioni speriamo, anche se sono europee, di iniziare a votare per l’Italia.

 

 




Dirigenti esterni nella PA??? Troppe differenze non solo culturali!!!

La mancanza di manager di livello nella pubblica amministrazione rispetto al settore privato è un argomento complesso che può essere analizzato sotto diversi punti di vista.

Le differenze tra i due settori in termini di gestione, incentivi, struttura organizzativa e cultura del lavoro sono significative e influenzano la qualità e la competenza della leadership.

Anche quando la PA prende dirigenti dall’esterno, non intendiamo da altre PA ma dal settore privato, cosa di cui parleremo bene più avanti, la situazione si rivela fallimentare.

Ecco alcuni dei principali fattori che contribuiscono a questa situazione:

 

Differenze nei Sistemi di Incentivi

 

 Settore Privato:

– Retribuzione: Nel settore privato, i manager ricevono compensi spesso molto alti, compresi stipendi, bonus basati sulle performance e stock options.

– Incentivi basati sulla performance: Gli incentivi finanziari sono strettamente legati ai risultati aziendali. Questo motiva i manager a migliorare costantemente le loro prestazioni e a raggiungere obiettivi specifici.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Retribuzione fissa: I compensi sono generalmente regolati da leggi e regolamenti, con minore flessibilità per premi o bonus basati sulle performance.

– Incentivi limitati: Gli incentivi basati sulla performance sono meno comuni, riducendo la motivazione a eccellere o innovare.

 

Processi di Selezione e Reclutamento

 

 Settore Privato:

– Selezione competitiva: Le aziende private tendono a selezionare i candidati attraverso processi competitivi, cercando i migliori talenti disponibili sul mercato.

– Flessibilità nel reclutamento: Il settore privato può adattare rapidamente i propri processi di assunzione alle esigenze del mercato e delle proprie strategie aziendali.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Burocrazia e rigidità: I processi di selezione nella pubblica amministrazione sono spesso lunghi e burocratici, con rigide procedure e requisiti formali.

– Limitazioni regolamentari: La selezione e il reclutamento sono soggetti a regolamentazioni che possono limitare la capacità di attrarre talenti altamente qualificati.

 

Struttura Organizzativa e Cultura del Lavoro

 

 Settore Privato:

– Organizzazione dinamica: Le aziende private tendono ad avere strutture organizzative più flessibili, che permettono una rapida adattabilità ai cambiamenti del mercato.

– Cultura della performance: C’è una forte enfasi sui risultati e sulla performance, che spinge i manager a innovare e migliorare costantemente.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Struttura gerarchica: La pubblica amministrazione è spesso caratterizzata da strutture gerarchiche rigide, che possono limitare l’innovazione e la rapidità decisionale.

– Stabilità e sicurezza del lavoro: La cultura lavorativa nella pubblica amministrazione può essere più orientata alla stabilità e alla sicurezza del lavoro piuttosto che alla performance e all’innovazione.

 

Formazione e Sviluppo Professionale

 

 Settore Privato:

– Investimenti nella formazione: Le aziende private spesso investono significativamente nella formazione continua dei loro manager per sviluppare competenze specifiche e aggiornate.

– Sviluppo della carriera: Ci sono molte opportunità per la crescita professionale e la progressione di carriera, incentivando i manager a migliorarsi costantemente.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Limitazioni di budget: Gli investimenti nella formazione e nello sviluppo professionale possono essere limitati dai vincoli di bilancio pubblico.

– Percorsi di carriera meno definiti: Le opportunità di crescita professionale possono essere meno definite e meno accessibili, influenzando negativamente la motivazione dei manager a sviluppare nuove competenze.

 

Valutazione delle Performance

 

 Settore Privato:

– Valutazione rigorosa: Le performance dei manager vengono costantemente valutate in base a criteri specifici e misurabili, con un feedback continuo che consente correzioni rapide.

– Accountability: I manager sono strettamente responsabili dei risultati delle loro unità o dipartimenti.

 

 Pubblica Amministrazione:

– Valutazione limitata: Le valutazioni delle performance possono essere meno rigorose e meno frequenti, riducendo la pressione per migliorare continuamente.

– Minore responsabilità individuale: La responsabilità può essere diffusa, rendendo più difficile attribuire successi o fallimenti a singoli manager.

 

La mancanza di manager di livello nella pubblica amministrazione rispetto al settore privato è il risultato di una combinazione di fattori che includono sistemi di incentivi, processi di selezione, struttura organizzativa, cultura del lavoro, formazione e valutazione delle performance.

Per migliorare la qualità della leadership nella pubblica amministrazione, sarebbe necessario rivedere questi aspetti, aumentando la flessibilità, gli incentivi basati sulla performance e gli investimenti nella formazione e nello sviluppo professionale dei manager.

L’assunzione di personale dirigenziale dall’esterno nella pubblica amministrazione italiana, come previsto dal comma 6 dell’articolo 19 della legge 165/2001, è un processo che, sebbene pensato per introdurre competenze e know-how del settore privato, spesso si scontra con varie problematiche che portano a fenomeni di mobbing e impediscono ai nuovi dirigenti di lavorare al meglio.

Questa situazione può essere spiegata attraverso diverse cause legate alla cultura organizzativa, alle dinamiche interne e ai conflitti d’interesse esistenti all’interno della pubblica amministrazione.

 

Resistenza al Cambiamento

 

 Cultura Organizzativa Radicata:

– Tradizionalismo: La pubblica amministrazione è spesso caratterizzata da una cultura organizzativa molto radicata e tradizionalista. L’introduzione di dirigenti esterni, che portano nuove idee e metodi di lavoro, può essere percepita come una minaccia allo status quo.

– Resistenza al cambiamento: Il personale interno può manifestare una forte resistenza al cambiamento, vedendo i dirigenti esterni come agenti di cambiamento indesiderato che alterano le pratiche consolidate e i flussi di lavoro esistenti.

 

Conflitti di Interesse e Invidia Professionale

 

 Conflitti con il Personale Interno:

– Invidia: I dirigenti interni possono nutrire sentimenti di invidia verso i nuovi dirigenti esterni, specialmente se percepiscono che questi ultimi sono stati assunti con compensi più elevati o con percorsi di carriera privilegiati.

– Competizione: L’assunzione di dirigenti esterni può creare una competizione interna, alimentando tensioni tra il personale di lungo corso e i nuovi arrivati, che vengono visti come concorrenti piuttosto che come collaboratori.

 

Dinamiche di Potere e Politiche

 

 Ostacoli Politici e Amministrativi:

– Difesa delle posizioni di potere: I dirigenti interni e altri funzionari possono vedere i nuovi arrivati come minacce alle loro posizioni di potere e influenza. Questo può portare a comportamenti di boicottaggio e ostracismo per proteggere i propri interessi.

– Supporto insufficiente: Spesso i dirigenti esterni non ricevono il supporto necessario dai loro superiori o colleghi interni, rendendo difficile l’implementazione delle loro idee e iniziative.

 

Problematiche Legate alla Formazione e all’Inserimento

 

 Mancanza di Adeguata Formazione:

– Inserimento inadeguato: Spesso, i dirigenti esterni non ricevono un’adeguata formazione o orientamento specifico per comprendere le peculiarità della pubblica amministrazione e adattarsi al nuovo contesto lavorativo.

– Isolamento professionale: I nuovi dirigenti possono essere isolati dal resto del personale, non ricevendo il supporto necessario per integrarsi efficacemente e comprendere le dinamiche interne.

 

Burocrazia e Inerzia Amministrativa

 

 Complessità Burocratica:

– Procedure rigide: La pubblica amministrazione è caratterizzata da procedure burocratiche rigide e complesse che possono limitare la capacità dei nuovi dirigenti di apportare cambiamenti significativi e miglioramenti.

– Lentezza decisionale: La lentezza nelle decisioni e nei processi amministrativi può frustrare i dirigenti esterni, abituati a un ambiente più dinamico e orientato ai risultati.

 

Fenomeni di Mobbing

 

 Mobbing Organizzativo:

– Strategie di esclusione: Il personale interno può attuare strategie di esclusione nei confronti dei nuovi dirigenti, come la mancata condivisione di informazioni, l’assegnazione di compiti di scarso valore o l’esclusione dalle decisioni importanti.

– Delegittimazione: I dirigenti esterni possono essere delegittimati attraverso critiche costanti, sabotaggio delle loro iniziative e diffusione di voci negative, con l’obiettivo di farli apparire incompetenti.

 

 

L’inserimento di dirigenti esterni nella pubblica amministrazione italiana attraverso il comma 6 dell’articolo 19 della legge 165/2001, sebbene inteso a portare nuove competenze e dinamiche innovative, si scontra spesso con una resistenza culturale, conflitti di interesse, dinamiche di potere e problematiche burocratiche.

Per migliorare questa situazione, sarebbe necessario adottare misure che favoriscano un’accoglienza più positiva e un’integrazione efficace dei nuovi dirigenti, come programmi di orientamento, politiche di supporto e promozione di una cultura organizzativa più aperta al cambiamento e alla diversità di esperienze professionali, e forse occorrerebbe cacciar via tutti gli attuali vertici, perché non sono i dirigenti il problema vero, e sostituirli con manager proveniente dal privato e dalla consulenza, così magari qualche speranza per questo paese potrebbe esserci.




Politicallllllly Corrrrrect … che freno al confronto!!!

La critica al concetto di “political correctness” (PC), o correttezza politica, può essere articolata da diverse prospettive, che includono questioni linguistiche, socioculturali, e politiche.

Il termine “correttezza politica” è stato utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90 per descrivere una serie di norme linguistiche e comportamentali intese a evitare l’esclusione o l’offesa di gruppi sociali minoritari o svantaggiati.

La correttezza politica nasce come uno sforzo per promuovere il rispetto e la dignità di individui e gruppi spesso marginalizzati nella società, come le minoranze etniche, le donne, e le persone LGBTQ+.

In teoria, il concetto si fonda sull’idea che il linguaggio e le pratiche inclusive possano contribuire a una società più equa e giusta.

Uno degli argomenti principali oggi contro la correttezza politica è che essa venga utilizzata come censura indiretta, limitando la libertà di espressione.

I critici sostengono che il timore di contravvenire alle norme di PC possa scoraggiare le persone dal discutere apertamente di questioni sensibili o controversie.

Questo sta portando ad un ambiente in cui le opinioni sincere vengono sopite per evitare conflitti o accuse di insensibilità.

In aggiunta si osservi che si tende a generalizzare eccessivamente le esperienze e le identità di individui e gruppi, ignorando le complessità e le differenze interne a questi gruppi.

Questo può risultare in un approccio paternalistico che assume una vulnerabilità uniforme tra coloro che sono considerati “protetti” da queste norme.

Il PC è spesso visto come uno strumento di divisione politica, specialmente in contesti come gli Stati Uniti, ma ultimamente anche da noi, dove le questioni di correttezza politica hanno spesso diviso l’opinione pubblica lungo linee ideologiche.

La certezza che il PC sia una prerogativa della sinistra politica aliena ulteriormente la destra, contribuendo a una maggiore polarizzazione.

Molti studi suggeriscono che l’imposizione rigida di norme di correttezza politica possa avere effetti controproducenti.

Per esempio, può indurre rancore o resistenza tra coloro che si sentono ingiustamente limitati o accusati di pregiudizi.

Inoltre, può ridurre l’efficacia del dialogo autentico e dell’engagement in questioni di uguaglianza e giustizia sociale.

La PC dovrebbe promuovere una maggiore consapevolezza delle differenze e un rispetto per le esperienze altrui, tuttavia, è proprio la modalità con cui è applicata e percepita che può determinare se diventi un’utile strumento di inclusione sociale o un meccanismo repressivo.

Oggi in realtà il politically correct viene usato per desertificare il confronto politico e sociale, utilizzato soprattutto da chi ritiene necessario che le uguaglianze soffochino le diseguaglianze senza rendersi conto che non è questione di differenze o similitudini, ma di differenti prospettive dialettiche.

La semantica del confronto richiede impegni maggiori rispetto alla uniformità, richiede livelli culturali più alti ma soprattutto richiede un’apertura mentale ormai privilegio di pochi.

Come al solito gli ignoranti che si appropriano di strumenti troppo evoluti li applicano scadendo nel ridicolo; da qui le fin troppo assurde questioni decidere se il presidente se è una donna deve essere presidentessa o presidenta, senza tener conto del senso della parola che invece deriva da un participio asessuato che vuol dire presiedere, o togliere i bagni uomini/donne e fare i bagni unici, o peggio ancora arrivare a cancellare delle fiabe perché contenevano parole come ottentotti.

Qui entra una deriva della politically correct che è la cancel culture, altra fesseria cosmica che non tiene conto dei necessari rapporti esegetici da fare quando ci si confronta con temi soprattutto del passato.

Ma tutto questo avviene perché il livello culturale è drammaticamente calato, perché la curiosità intellettuale è quasi sparita, ma perché soprattutto la volontà di controllo da parte delle oligarchie del potere passa esclusivamente per la massificazione delle menti del popolo.

Infatti la realtà è foriera di verità inoppugnabili: quali sono gli interessi oggi del ministero dell’istruzione?

La copertura delle vacanze estive, ritornare ai voti, creare delle ulteriori figure (tutor dell’orientamento) inutili, le bocciature, meno stranieri nelle classi, e così via.

Niente rispetto a cosa si insegna e come, all’aggiornamento dei programmi, a nuovi percorsi didattici, alla revisione generale del mondo della scuola?

Ma dov’è la riforma della scuola che Valditara aveva promesso a Salvini quando fu nominato ministro? Sembrava tra l’altro che fosse già pronta, a meno che non stiamo parlando dei tutor dell’orientamento …

Come si può vedere quello che conta e su cui tutti noi dovremmo batterci non è la correttezza politica o fesserie simili, ma la strada per ritrovare la cultura ormai persa dalle nuove generazioni, per dare ai nostri figli la capacità di comprendere il mondo che li circonda, quell’empatia necessaria per vivere un sociale differente.

In conclusione, il dibattito sulla correttezza politica riflette tensioni più ampie relative alla cultura delle generazioni, alla libertà di espressione, all’identità sociale, e al cambiamento culturale.

Dibattito che stiamo perdendo alla grande.

 




L’intelligenza Artificiale novello Frankenstein

L’intelligenza artificiale (IA) moderna, spesso vista come un culmine delle aspirazioni tecnologiche umane, rappresenta una metafora contemporanea del classico mostro di Frankenstein di Mary Shelley.

Nel racconto, Victor Frankenstein crea una creatura dalla combinazione di scienza avanzata e ambizioni trascendenti, il che rispecchia il nostro moderno percorso di sviluppo dell’IA.

Questo parallelo si manifesta in diverse dimensioni etiche, sociali e tecnologiche.

Shelley descrive Frankenstein come un individuo ossessionato dall’idea di sfidare le leggi naturali della vita e della morte, creando una creatura vivente da parti di corpi non viventi.

Analogamente, l’IA moderna è spesso il risultato di un insieme eterogeneo di dati e algoritmi, progettata per emulare e talvolta superare le capacità cognitive umane.

In entrambi i casi, il creatore deve confrontarsi con questioni di responsabilità morale per le azioni della propria creazione.

Nel contesto dell’IA, questo solleva interrogativi urgenti sulla responsabilità degli algoritmi che prendono decisioni autonome o semiautonome, influenzando la vita delle persone in modi significativi e talvolta irrevocabili.

Il mostro di Frankenstein è inizialmente ostracizzato e temuto non per le sue azioni, ma per il suo aspetto e l’origine non naturale.

Questo è parallelo alla percezione pubblica dell’IA, spesso vista con sospetto e paura a causa della sua complessità e del potenziale impatto incompreso.

I media e la narrativa popolare tendono ad accentuare queste paure, presentando l’IA come una forza potenzialmente incontrollabile o minacciosa, simile al mostro che si rivolta contro il suo stesso creatore.

Frankenstein si trova a riflettere troppo tardi sugli aspetti etici della sua impresa, specialmente riguardo al benessere della sua creazione e al suo impatto sugli altri.

Allo stesso modo, il rapido sviluppo dell’IA ha superato la riflessione etica su molti aspetti importanti, come la privacy, la sicurezza dei dati e le implicazioni a lungo termine dell’autonomia delle macchine.

La necessità di una regolamentazione etica è diventata evidente, con accademici e regolatori che chiamano a una maggiore attenzione su come le IAs sono progettate, implementate e gestite.

Il mostro di Frankenstein è essenzialmente solo, senza compagni o pari, un destino che riflette un potenziale scenario futuro per l’umanità stessa nell’era dell’IA.

Man mano che le macchine assumono ruoli sempre più complessi esiste il rischio che l’umanità si trovi alienata dalle proprie creazioni o addirittura dipendente da esse.

Questo può portare a una nuova forma di isolamento sociale, dove le interazioni umane sono sempre più mediate dalla tecnologia.

Il racconto di Frankenstein solleva comunque importanti questioni sulla responsabilità dei creatori nel considerare l’impatto delle loro invenzioni sulla società.

L’IA, con le sue capacità di trasformare industrie intere, modi di vita e persino le interazioni interpersonali, rappresenta una sfida molto vicina a quella della creazione.

La sua integrazione nella società deve essere gestita con cura per evitare disuguaglianze amplificate, perdita di posti di lavoro, e altre potenziali crisi sociali.

Paradossalmente, ma forse molto realisticamente, oggi l’intelligenza artificiale può essere vista come il “nuovo mostro di Frankenstein”, non solo per il suo potenziale di sfuggire al controllo umano ma anche per le profonde implicazioni etiche e sociali che comporta.

Come nel romanzo di Shelley, l’IA sfida le nostre concezioni tradizionali di vita e responsabilità, spingendo l’umanità verso nuovi confini morali e tecnologici.

L’imperativo rimane quello di guidare questo progresso con una riflessione etica adeguata, garantendo che le tecnologie che creiamo servano veramente il bene dell’umanità piuttosto che precipitarla verso nuove forme di tragedia, ma per far questo dovremmo essere a monte convinti di quale sia il bene dell’umanità, che non è il benessere economico ma quello spirituale.




Fascismo e Antifascismo nel XXI Secolo: mogli e buoi dei tempi tuoi.

L’evocazione di termini storico-politici quali “fascismo” e “antifascismo” nel discorso contemporaneo solleva questioni di notevole rilevanza.

Sarebbe come trasportare ai tempi moderni altri dualismi storici; infatti il concetto di entità che sono logicamente collegate in un certo periodo storico ma non in altri può essere approfondito attraverso l’analisi di specifici fenomeni o ideologie che emersero e si svilupparono in risposta a circostanze storiche particolari.

Queste entità spesso perdono la loro rilevanza diretta o la loro relazione logica quando le condizioni cambiano drasticamente.

Qui di seguito, descriverò due coppie di entità storiche che illustrano questo principio.

Assolutismo monarchico e mercantilismo (XVII – XVIII secolo)

Assolutismo monarchico: Durante il XVII e XVIII secolo, molte nazioni europee erano governate secondo il principio dell’assolutismo monarchico, che sosteneva che il sovrano avesse poteri illimitati, non soggetti a leggi terrene ma solo alla volontà divina.

Questa forma di governo era particolarmente prevalente in Francia, con sovrani come Luigi XIV.

Mercantilismo: Parallelamente all’assolutismo, si sviluppò il mercantilismo, un sistema economico nazionalista che mirava a massimizzare le riserve di metalli preziosi di una nazione attraverso una bilancia commerciale positiva, spesso sostenuta da politiche protezionistiche e coloniali.

Il mercantilismo era logico in un’epoca di assolutismo perché entrambi promuovevano un forte controllo statale, sia dell’economia che della società, e il sovrano poteva dirigere l’economia in modo che servisse gli interessi dello stato.

Differenze in altri periodi: Nel contesto moderno o post-industriale, né l’assolutismo né il mercantilismo sono praticabili o desiderabili.

L’assolutismo contrasta con le moderne concezioni di diritti umani e democrazia, mentre il mercantilismo è stato soppiantato da teorie economiche che favoriscono il libero scambio e la globalizzazione.

Guerra fredda e corsa agli armamenti nucleari (circa 1947 – 1991)

Guerra fredda: Il periodo della Guerra fredda, caratterizzato dalla rivalità ideologica, politica, economica e militare tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ha definito l’ordine mondiale per gran parte della seconda metà del XX secolo.

Questo periodo è stato segnato da un costante sospetto e da un confronto indiretto attraverso guerre per procura e influenze politiche in nazioni terze.

Corsa agli armamenti nucleari: In questo clima di tensione e competizione, entrambe le superpotenze investirono enormemente in armamenti nucleari, portando a una corsa agli armamenti senza precedenti.

La logica dietro questo massiccio accumulo di armi nucleari era la deterrenza, con l’idea che un arsenale sufficientemente potente avrebbe scoraggiato l’altro da qualsiasi attacco diretto.

Differenze in altri periodi: Dopo la fine della Guerra fredda nel 1991, con il collasso dell’Unione Sovietica, la logica della corsa agli armamenti nucleari è diventata molto meno centrata.

Anche se le questioni di non proliferazione e disarmo rimangono cruciali, l’acuta bipolarità e la corrispondente corsa agli armamenti non hanno più lo stesso significato strategico nel contesto multipolare odierno, dove le minacce sono più diffuse e meno concentrata tra due sole superpotenze.

In entrambi questi casi, le entità discusse erano strettamente interconnesse e logiche nei loro contesti storici specifici, ma perdono questa connessione logica quando trasportate in altri periodi storici, dimostrando come le circostanze storiche possano profondamente influenzare la pertinenza e la funzionalità delle pratiche politiche ed economiche.

In un’epoca caratterizzata da una complessità socio-politica crescente, l’applicazione di categorie storiche come appunto fascismo ed antifascismo a contesti nuovi può risultare problematica, oltre che stupida.

In queste brevi note, si argomenterà che il riferimento a tali termini è non solo anacronistico, ma potenzialmente nocivo, influenzando negativamente il dibattito pubblico e politico attuale.

Il fascismo, nato nel contesto post-bellico italiano del XX secolo, era caratterizzato da una forte componente nazionalistica, una politica economica corporativa, il totalitarismo e una repressione violenta dell’opposizione. L’antifascismo, d’altra parte, rappresentava un ampio spettro di movimenti e ideologie politiche che si opponevano a questi principi, spesso sostenendo valori democratici, libertari e progressisti.

Esiste a tutti gli effetti una discontinuità storica: le condizioni politiche, economiche e sociali che hanno dato origine al fascismo degli anni ’20 e ’30 non sono replicabili nella società contemporanea globalizzata e tecnologicamente avanzata.

Utilizzare il termine “fascismo” per descrivere fenomeni moderni può portare a una comprensione errata di questi ultimi, ignorando le loro specificità.

Fin troppo facile ammantarsi di mantelli antifascisti sic et simpliciter, semplificazione e riduzionismo distruggono la verità storica contemporanea.

Etichettare indiscriminatamente come “fascisti” gli avversari politici moderni può ridurre la complessità dei problemi attuali a una dicotomia obsoleta, impedendo un’analisi più matrice e differenziata delle questioni politiche.

L’antifascismo, pur nascendo come risposta necessaria e morale al fascismo, oggi rischia di trasformarsi in un etichettamento che non riflette le reali dinamiche politiche.

Il pericolo è duplice:

Da una parte un vero e proprio fenomeno di polarizzazione e alienazione, anche culturale.

L’uso del termine “antifascista” come sinonimo di virtù può creare un ambiente in cui chiunque non si allinei completamente a una certa visione politica viene marginalizzato o etichettato negativamente, alimentando divisioni e incomprensioni.

Senza dubbio dall’altra si crea una distrazione dai veri problemi: concentrarsi sul combattere un “fascismo” che non corrisponde alla realtà contemporanea, può distogliere l’attenzione da minacce più immediate e concrete alla democrazia e ai diritti umani, come il populismo autoritario, il razzismo sistematico, la disuguaglianza economica e la crisi climatica.

Il rischio di chi continua ad ostinarsi in questa dialettica inutile è che passi per incapace di affrontare seriamente altri problemi e quindi si trinceri dietro una inutile ed ormai suberata diatriba storica per non mostrare la propria inadeguatezza a combattere i temi veri del presente. 

Sostenere che parlare di fascismo e antifascismo sia deleterio non equivale a negare l’importanza storica o l’impatto di tali movimenti, né implica l’ignoranza delle loro tragiche conseguenze.

Piuttosto, si propone una riflessione critica sulla pertinenza e l’efficacia di questi termini nel contesto attuale.

Nel formulare politiche e nel dibattito pubblico, è fondamentale promuovere un linguaggio che rifletta la realtà contemporanea, evitando anacronismi che possano semplificare eccessivamente complesse realtà sociali.

Inoltre, è essenziale che il discorso politico rimanga centrato su questioni attuali, promuovendo un dialogo inclusivo e produttivo anziché divisivo.

In questo modo, la società può effettivamente affrontare e risolvere le sfide del presente con strumenti adeguati e un’analisi accurata.

Lo stesso Slavoj Žižek, anche se non nega l’esistenza di correnti neofasciste, ha criticato l’uso del fascismo come categoria onnicomprensiva che impedisce un’analisi più fine delle condizioni politiche attuali.

Žižek, in particolare, ha sottolineato come l’ossessione per il fascismo possa distogliere l’attenzione da altre forme emergenti di dominio e oppressione che non rientrano facilmente nella categoria del fascismo tradizionale.

In effetti, mentre il fascismo e l’antifascismo resteranno concetti significativi nella comprensione degli eventi storici del XX secolo, la loro applicazione indiscriminata ai fenomeni attuali può non solo distorcere la realtà, ma anche impedire un’efficace risposta alle sfide politiche del nostro tempo.

Viene spontaneo chiedersi: ma è forse proprio quello che qualcuno vuole? Trincerarsi dietro l’evocazione di un periodo ormai estinto per non fare vedere la propria pochezza politica?




La penna e la spada, chi vince oggi?

Il detto “la penna è più potente della spada” esprime un concetto profondamente radicato nella consapevolezza collettiva, sottolineando come le parole e le idee abbiano un impatto più duraturo e profondo rispetto alla forza bruta.

Questa metafora risale al drammaturgo inglese Edward Bulwer-Lytton nel 1839, nel suo dramma “Richelieu; Or the Conspiracy”.

La frase sottolinea il potere della comunicazione e della persuasione rispetto alla violenza fisica.

Tuttavia, questo concetto affronta una sfida cruciale nel contesto moderno, dove l’alfabetizzazione e le abilità di lettura stanno subendo trasformazioni significative, in particolare tra i giovani.

L’importanza della lettura è insostituibile per lo sviluppo intellettuale, la maturazione personale e la partecipazione attiva alla vita democratica di una società.

Attraverso la lettura, si acquisiscono non solo conoscenze ma anche strumenti critici per interpretare il mondo e agire su di esso.

In un’epoca dominata dall’immagine e dalla rapidità dell’informazione digitale, il calo delle competenze di lettura approfondita può rappresentare un rischio serio per il mantenimento di una cittadinanza informata e critica.

Il fenomeno del declino della lettura tra i giovani, spesso descritto in termini di “crisi dell’alfabetizzazione”, va visto in un contesto più ampio di cambiamenti socio-culturali e tecnologici.

Le nuove generazioni si trovano immerse in un flusso costante di informazioni brevi e visivamente accattivanti, come i post sui social media, che richiedono un impegno cognitivo diverso rispetto alla lettura prolungata di testi complessi.

Questa evoluzione può portare a una preferenza per le forme di comunicazione che richiedono minor sforzo interpretativo e critico.

Di fronte a questa sfida, è fondamentale riconoscere il valore della formazione all’alfabetizzazione critica come parte essenziale dell’educazione moderna.

Istruire i giovani non solo a leggere in modo funzionale ma anche critico è una necessità impellente.

Questo include la capacità di analizzare e valutare le fonti, comprendere contesti più ampi, riconoscere bias e presupposti, e formulare argomentazioni coerenti.

Inoltre, le scuole e le altre istituzioni educative hanno il dovere di adattare le metodologie didattiche per renderle più attinenti al mondo digitale in cui i giovani crescono.

Ciò potrebbe includere l’uso didattico dei media digitali per insegnare competenze di lettura critica, non solo attraverso libri di testo ma anche tramite piattaforme online, videogiochi educativi, e altre risorse digitali che possano stimolare l’interesse e l’engagement dei giovani.

In sintesi, mentre la penna può ancora essere più potente della spada in un mondo ideale dove le parole informano, educano e ispirano, la realtà attuale pone sfide significative a questo ideale.

Se i giovani perdono l’abilità o l’interesse nella lettura profonda, la società potrebbe trovarsi di fronte a problemi seri, come il deterioramento del dialogo pubblico e una minore capacità di affrontare questioni complesse in modo riflessivo e informato.

Per mantenere viva l’efficacia della penna, è cruciale investire nell’alfabetizzazione avanzata e critica delle nuove generazioni.

Ma chi deve fare questo sforzo di recupero sui giovani, solo la   scuola? 

la Famiglia?

Credo fermamente che questa sia una importante sfida per tutta la platea intellettuale italiana, dagli accademici ai politici, è necessario ripensare l’educazione dei giovani ma anche rivedere come stiamo proponendo ai giovani le strade per il loro futuro.

Come dico sempre non è che lavoro faremo che ci darà una buona vita, ma come lo faremo e chi saremo nel farlo.

 

 




Sinclair Oil Affaire.

L’affare Sinclair Oil si riferisce a una serie di controversie e scandali politici che emersero negli Stati Uniti nei primi anni ’20, culminati nel cosiddetto “Scandalo Teapot Dome”.

Questo scandalo fu uno dei più gravi e noti casi di corruzione all’interno del governo degli Stati Uniti fino a quel momento, coinvolgendo alti funzionari del governo e importanti compagnie petrolifere, tra cui la Sinclair Oil Corporation.

Durante gli anni ’20, il governo degli Stati Uniti possedeva riserve di petrolio che erano state designate esclusivamente per l’uso della Marina in caso di emergenza nazionale.

Queste riserve includevano il famoso campo petrolifero di Teapot Dome nel Wyoming, così come altri in California e Oklahoma.

L’amministrazione del presidente Warren G. Harding, entrata in carica nel 1921, era caratterizzata da un approccio politico favorevole agli affari e all’industria, il che portò a una serie di nomine di funzionari propensi a politiche pro-business.

Il segretario dell’Interno, Albert B. Fall, fu il protagonista dello scandalo Teapot Dome.

Fall autorizzò in segreto la locazione delle riserve petrolifere a compagnie private senza il processo di gara pubblica, che era la prassi standard.

La Sinclair Oil e la Mammoth Oil (una filiale della Standard Oil) furono le beneficiarie di queste concessioni.

In cambio delle concessioni lucrative, Fall ricevette prestiti e regali significativi da parte delle compagnie petrolifere, compresa la Sinclair Oil.

Questi prestiti erano essenzialmente tangenti, anche se Fall tentò di mascherarli come prestiti legittimi.

Lo scandalo fu scoperto e divenne pubblico dopo un’indagine iniziata da senatori preoccupati per la mancanza di trasparenza nelle transazioni.

L’indagine rivelò la corruzione di alto livello e portò a una grande indignazione pubblica.

Il caso raggiunse la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso “United States v. Fall”, dove Fall fu trovato colpevole di corruzione e condannato alla prigione, diventando il primo membro del Gabinetto degli Stati Uniti a essere incarcerato per reati commessi in carica.

Il presidente Harding morì nel 1923, prima che lo scandalo esplodesse completamente.

Il suo successore, Calvin Coolidge, ordinò un’indagine federale, rafforzando il suo impegno a pulire il governo.

Lo scandalo Teapot Dome fu ampiamente pubblicizzato dai giornali dell’epoca e divenne un simbolo di corruzione governativa.

Le ramificazioni dello scandalo Teapot Dome furono profonde, influenzando la percezione pubblica del Partito Repubblicano e della politica degli affari del governo.

Contribuì inoltre a catalizzare una maggiore regolamentazione delle pratiche commerciali e a rafforzare le procedure di gara pubblica per le risorse naturali gestite dal governo.

Questo scandalo illustra l’eterna tensione tra affari e politica, e le sfide che emergono quando gli interessi privati si intrecciano troppo strettamente con quelli pubblici.

Nonostante le continue esternazioni, non ci sono evidenze storiche dirette che collegano Benito Mussolini personalmente a tangenti o corruzione specificamente con la Sinclair Oil Corporation.

Tuttavia, il regime fascista di Mussolini, così come molti governi dell’epoca, era noto per una certa permeabilità agli interessi commerciali e industriali, compreso il settore energetico.

Durante il regime fascista, Mussolini mostrò un interesse marcato nel controllare e sviluppare l’industria energetica italiana, compreso il settore petrolifero, che era visto come vitale per l’autosufficienza economica e militare dell’Italia.

Mussolini perseguì politiche di nazionalizzazione di alcune risorse e promosse accordi internazionali per assicurare forniture di petrolio, ma questi sforzi erano più orientati alla strategia industriale e geopolitica che non a guadagni personali diretti tramite tangenti.

Nonostante non ci siano accuse specifiche di corruzione tra Mussolini e la Sinclair Oil, il regime fascista non era esente da pratiche di corruzione e nepotismo.

La corruzione era spesso manifesta in forme di clientelismo e nell’assegnazione di contratti governativi a compagnie amiche.

Anche se Mussolini proiettava un’immagine di efficienza e ordine, sotto la superficie il regime aveva le sue quote di affari loschi e gestione discutibile delle risorse dello stato.

In contesti diversi, come quello italiano, simili dinamiche potrebbero non essere legate a un singolo scandalo, ma piuttosto a un sistema di governance che integrava interessi industriali e politici in modi che potevano sfociare in corruzione.

In conclusione, mentre Mussolini stesso non sembra essere stato coinvolto personalmente in scandali di corruzione con la Sinclair Oil, il suo regime evidenziava una complessa interazione tra governo e interessi industriali che, in altri contesti, avrebbe potuto facilmente condurre a pratiche corrotte simili a quelle osservate nel caso del Teapot Dome.

Il caso Sinclair Oil rimane un caso di studio importante per comprendere la corruzione politica e i suoi effetti sulla fiducia pubblica e sulla governance.




Matteotti: non sono solo antifascista, mi dipingono così!!!

La figura di Giacomo Matteotti, sebbene frequentemente associata all’opposizione al fascismo a causa del suo tragico assassinio nel 1924, presenta delle sfumature ideologiche che lo distanziano da un’etichetta rigidamente “antifascista” secondo l’accezione più comune del termine.

Matteotti, in effetti, emerge come un sostenitore fervente della democrazia parlamentare, posizionandosi criticamente sia contro il fascismo di Mussolini sia contro il comunismo.

Matteotti era membro del Partito Socialista Unitario, una scissione del Partito Socialista Italiano che si opponeva alla direzione rivoluzionaria e comunista di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci nel Partito Comunista d’Italia.

La sua critica al comunismo era radicata nella sua fedeltà alla democrazia parlamentare come metodo di governo e nel suo rifiuto delle tattiche rivoluzionarie e della dittatura del proletariato promosse dai comunisti.

Questa posizione si riflette chiaramente nel suo approccio alla politica, dove privilegiava la legislazione e il dibattito parlamentare come mezzi per realizzare cambiamenti sociali e politici.

In parallelo, Matteotti si opponeva vigorosamente al fascismo, ma la sua opposizione era centrata sulla difesa delle istituzioni democratiche e parlamentari piuttosto che su una contrapposizione ideologica all’intero corpus delle idee fasciste.

Matteotti vedeva il fascismo, soprattutto dopo l’ascesa al potere di Mussolini, come una minaccia diretta alla democrazia parlamentare attraverso la sua tendenza autoritaria e il suo disprezzo per il pluralismo politico.

Il suo famoso discorso del 1924, poco prima del suo rapimento e assassinio, denunciava i brogli elettorali e le violenze perpetrate dai fascisti, evidenziando la sua ferma posizione a favore di un sistema politico democratico e trasparente.

È interessante notare che sia Mussolini che Matteotti provenivano da una matrice socialista.

Mussolini, prima della sua adesione al nazionalismo e alla creazione del fascismo, era un importante esponente del Partito Socialista Italiano, dal quale fu espulso per le sue posizioni interventiste nella prima guerra mondiale.

Questo passato socialista di Mussolini era tuttavia caratterizzato da una propensione per l’azione diretta e una certa predisposizione alla violenza, aspetti che si accentuarono enormemente nel suo percorso verso il fascismo.

In conclusione, Giacomo Matteotti può essere meglio descritto non certo come un antifascista nel senso stretto e militante del termine, quanto piuttosto come un difensore della democrazia parlamentare, il cui impegno politico mirava alla preservazione delle istituzioni democratiche e al rifiuto sia del fascismo autoritario di Mussolini che del comunismo rivoluzionario.

Il suo assassinio divenne un simbolo della lotta contro la soppressione della democrazia in Italia, consolidando la sua immagine come martire della libertà e della giustizia politica.

L’interpretazione di Giacomo Matteotti come figura antifascista, predominante oggi in particolare nel discorso pubblico sia accademico che politico, riflette spesso una visione semplificata, molto limitante e simbolica che non coglie pienamente la complessità del suo pensiero politico e del suo senso di stato, facendo così un torto assoluto alla figura di Matteotti.

La rappresentazione di Matteotti come un eroe antifascista è stata, in parte, una costruzione postuma, enfatizzata in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la rinascita democratica in Italia e la condanna universale del fascismo.

Dopo il suo assassinio nel 1924, Matteotti divenne un simbolo del sacrificio per la libertà e la democrazia.

Il suo martirio fu utilizzato sia dai partiti di sinistra che da quelli centristi per mobilitare l’opinione pubblica contro il regime fascista.

Questa trasformazione di Matteotti in un’icona antifascista può essere vista come un’opportunità per vari gruppi politici di presentarsi come eredi legittimi dei valori democratici che Matteotti difendeva.

Giacomo Matteotti possedeva un profondo senso di stato che si manifestava nel suo impegno per la democrazia parlamentare e nel suo rifiuto delle soluzioni autoritarie e totalitarie, sia di destra (fascismo) che di sinistra (comunismo).

Il suo approccio era fortemente ancorato ai principi di legalità e di rappresentanza politica, visti come pilastri indispensabili per la governance di uno stato moderno e civile.

Matteotti credeva nella necessità di un governo che agisse nell’interesse del popolo, attraverso le istituzioni democraticamente elette, e non tramite il dominio di un singolo partito o leader.

La narrazione che disegna Matteotti come puramente antifascista tende a sovrapporre la lotta contro il fascismo alla più ampia difesa delle istituzioni democratiche e del pluralismo politico.

Questa semplificazione serve a consolidare una certa narrativa storica, ma rischia di appiattire la complessità del suo pensiero e delle sue azioni.

Nonostante la sua chiara opposizione al fascismo, Matteotti era principalmente mosso da una visione positiva del governo, basata sulla legalità e sulla partecipazione democratica, piuttosto che da una contrapposizione ideologica totale verso il fascismo in sé.

Il modo in cui la classe politica ed universitaria italiana ha trattato la figura di Matteotti ha spesso riflettuto le esigenze del presente più che una fedele interpretazione storica.

L’enfasi sull’antifascismo deve essere vista come un tentativo di costruire una memoria collettiva condivisa di resistenza al totalitarismo, utile per consolidare l’identità democratica post-bellica dell’Italia, ma non certo una vera identificazione dello spirito del politico e nemmeno dei valori che lo stesso incarnava.

Tuttavia, questa enfasi oscura il suo autentico impegno per una democrazia parlamentare e la sua critica tanto al fascismo quanto al comunismo.

In realtà, mentre Matteotti viene celebrato come antifascista, è essenziale riconoscerne e comprendere il suo impegno più ampio per la democrazia e il suo senso di stato, che trascendono la semplice opposizione al fascismo, abbracciando una visione più completa e complessa del governo e della politica.

Pertanto, come sempre in questo paese, gli eroi vengono creati a secondo dell’interesse delle fazioni e mai per il vero senso della storia.