I rapporti sociali nell’interpretazione del liberalismo e del marxismo
COLLABORAZIONE SOCIALE
La società nasce per attuare il bene comune e per impedire i contrasti e le mutue lesioni che scaturiscono dall’egoismo individuale e dai particolarismi di gruppo.
Essa ha come primo compito, negativo se si vuole o removens prohibens, la salvaguardia del diritto e della libertà di ciascuno, ma ancor più ha un compito positivo, che consiste nel favorire le libertà individuali con ogni disposizione atta a promuovere la collaborazione e la cooperazione per rendere ognuno “sufficiente a se stesso”, come diceva San Tommaso, col proteggere, sostenere, coordinare, integrare e, qualora ve ne sia bisogno, supplire l’opera individuale dei propri membri.
Su questo punto vi è un consenso unanime, qualunque sia la concezione della natura umana – pessimistica o ottimistica – e della sua espansione sociale, che si ha nelle varie scuole o ideologie. E’ difficile non ammettere, con Aristotele, che il fine della società civile e dello Stato consiste nella cura della pubblica utilità, nel bene comune, che permette a ciascuno, secondo le sue legittime esigenze, di vivere bene e felicemente.
Il dissenso nasce invece intorno al modo di svolgersi nel dinamismo sociale: lotta o cooperazione pacifica tra i gruppi e le classi che si formano nella società secondo gli interessi diversi?
Se questi interessi sono necessariamente contrapposti, è difficile sfuggire a una dialettica di intesi, urti, conflitti; ma quella necessità non è ineludibile, se gli interessi sono tra loro componibili e soprattutto se si stabilisce una reale subordinazione e convergenza al bene comune.
In realtà nel mondo moderno si sono acuiti i conflitti tra i gruppi di interessi che si sono formati in seguito alla duplice rivoluzione dei secoli XVIII-XIX, politica e industriale, in una situazione caratterizzata da uno stato di inferiorità economica e sociale del mondo del lavoro di fronte a quello del capitale; situazione creatasi soprattutto a causa dell’ideologia e della pratica politica del liberalismo, cui il principio chiave era il “laissez faire”, ossia l’assoluta libertà di azione, iniziativa, arricchimento per tutti senza controlli e pianificazioni sociali, quindi, praticamente, a vantaggio dei più forti, dei più fortunati, a volte dei più disonesti.
Senza dubbio il liberalismo ha una sua spiegazione storico-sociologica, in quel periodo di trasformazione aperto con la rivoluzione industriale, che esigeva un immediato impiego di capacità umane e di mezzi finanziari, mentre la società non disponeva di strumenti organizzativi e giuridici per guidare il processo evolutivo. Mancava pure un senso diffuso del bene comune, anche per l’eclissi subita dallo spirito cristiano che, in altre forme, aveva creato e animato la comunità medioevale.
In tale situazione si innesta il marxismo, che vi sovrappone elementi arbitrari derivanti dalla sua concezione materialista della storia, secondo la quale la produzione, e con essa lo scambio delle merci prodotte, è la base di ordinamenti sociali diversi secondo i diversi modi in cui la produzione e la distribuzione si effettuano. Le classi sociali derivano dal modo capitalista di determinare il processo economico, con la formazione, da una parte, di ingenti capitali, accantonati in poche mani e in via di una sempre maggiore concentrazione, e dall’altra di un proletariato, ossia di una classe di nullatenenti, che non possedendo i mezzi di lavoro e di produzione (capitale) sono costretti ad alienare il loro lavoro e quindi se stessi, in una forma moderna di servaggio, a vantaggio della classe capitalista che compra il loro lavoro pagando a basso prezzo i vantaggi che ne ricava per la posizione di forza e di privilegio in cui si trova. Di qui, inesorabilmente, il contrasto, l’odio, la lotta tra le due classi.
La realtà della condizione umana
Tale concezione non è basata su leggi ed esigenze essenziali della natura umana, ma su di una certa interpretazione di fatti storici, su di un giudizio assiologico secondo il quale la storia di ogni società sinora esistita deve – in quanto presenta in varie forme l’antagonismo tra una minoranza dominante e una minoranza dominata – venire considerata come regime di sfruttamento della maggioranza da parte della minoranza, e quindi di alienazione dell’essenza umana negli sfruttati ad opera di coloro che, nel mondo moderno, privano il proprietario del frutto del suo lavoro.
Ma i fatti storici, qualunque sia il giudizio da pronunciare su di essi, vanno inquadrati in una metafisica dell’uomo e della società, che purtroppo il marxismo rifiuta a priori, proprio per non trovarvi il principio di scardinamento della propria ideologia e di annullamento della sua efficienza pratica.
Ma all’uomo bisogna sempre tornare: alla sua ragione, ai suoi sentimenti più autentici, al moto istintivo della sua natura.
Ora se l’analisi del suo comportamento può attestare la frequenza della lotta; quella della realtà più intima e vera ci dice che vi è nella natura umana una fondamentale tendenza all’amore, alla fraternità, e alla pace. La radice metafisica di tale tendenza è nella legge per cui nessun essere tende a distruggere se stesso; così non vi tende la persona umana, nè la società, che è una comunione di persone: come dice il Vangelo, “ogni regno diviso in se stesso sarà devastato ed ogni città divisa contro se stessa non potrà reggere” (Mt. 12, 25).
Per la società non vi è consistenza senza l’unità di fondo, riflesso della stessa unità della natura umana. Solo su quella piattaforma è possibile aprire un largo spazio alla libera disputa e competizione, che allora non mina ma rafforza la comunione: quella che San Tommaso chiamava la concordia, dimensione profonda della pace, la quale ammette la diversità delle opinioni e la libertà delle scelte senza compromettere la l’unità intorno ai beni principali.
Ma tutto dipende dalla metafisica che si segue e si mette a base della propria ideologia.
Nella metafisica Hegeliana-marxista-leninista, l’essere si risolve in un movimento dialettico, in un divenire contraddittorio, che procede per antitesi, urti, eliminazioni, da cui è caratterizzata anche l’ente storico, il divenire sociale. Il divenire, anzi prevale sull’essere; il moto sul suo principio.
La metafisica classica e cristiana è caratterizzata invece da una triplice affermazione di base: a) il primato dell’essere sul divenire; b) la dinamica dell’essere che tende e s’apre nell’agire; c) il finalismo dell’essere che nell’agire tende alla perfezione come totale realizzazione di sè. In questo quadro metafisico si inserisce la realtà sociale, come complesso di relazioni tendenti alla realizzazione della comune perfezione – il bene comune – secondo la postulazione della natura che nel suo dinamismo operativo rispecchia l’esigenza unitaria dell’essere.
Rilevamenti del comportamento umano
La metafisica dell’unità e della pace come base della socialità prende l’avvio dall’osservazione dei fenomeni espressivi delle più genuine tendenze umane nella convivenza, dove il moto più istintivo e connaturale agli uomini è di aiutarsi a vicenda, volersi bene, collaborare, di stringere amicizia. L’asocialità è un fenomeno patologico.
E’ vero però che, di fatto, alla collaborazione, all’amore, alla comunione, si accompagna nell’uomo l’egoismo che fa nascere i contrasti inter-individuali e lede in radice l’unità e l’organicità della società. E’ un dato di fatto da cui non si può prescindere, ma che non giustifica l’assunzione della lotta come principio di base nella metafisica e nell’etica della società. Così la lotta di classe può essere imposta in determinate condizioni storiche, ma è indebitamente assunta come criterio di interpretazione della storia e canone metodologico per l’azione. Vuol dire che dinanzi al dualismo immanente alla natura storica dell’uomo, sempre conteso tra il demone dell’egoismo e l’angelo dell’amore, si farà appello a un superiore intervento risolutivo e salvifico: è il senso della redenzione operata da Cristo, che si riflette nel Cristianesimo come messaggio e come operazione storica di umana solidarietà. Anche a lume di storia appare questo valore redentivo del Cristianesimo per cui l’uomo ritrova l’unità interiore e opera nel mondo per il ristabilimento della comunione sociale perduta con il peccato.
Di questa unità esiste una capacità naturale che si rileva dalla solidarietà degli uomini nelle tendenze fondamentali, nei bisogni, nel male e nel bene, nell’anelito alla salvezza, nella connaturale socialità.
Quando l’unità soprannaturale si attui, dalla sfera religiosa e mistica la nuova forza della solidarietà irradia un senso unitario in tutti i campi del vivere umano, quasi per riportare il mondo al regno dell’innocenza originale, che nei rapporti sociali avrebbe dovuto essere caratterizzato dalla comunione dei pensieri e delle volontà intorno al bene essenziale dell’uomo, a cui ogni altra considerazione e azione doveva essere subordinata. Anche i miti dell’età dell’oro (rimpianto di ere passate), in sogni utopistici (ipotesi di un paese ideale presente) e le aspirazioni millenaristiche (collocamento della società nel futuro), riflettono in sè questo atteggiamento essenziale dello spirito umano. Lo stesso comunismo, almeno all’inizio, si presentò nel mondo con questa carica ideale di un novo millenarismo: la quinta età, quella del nuovo umanesimo, dell’uomo libero e felice.
La legge del solidarismo
In rispondenza delle istanze e le leggi più genuine della natura umana, si può formulare una dottrina della società (se non proprio un’ideologia, sempre un po’ mitica), che si può nominare solidarismo, in cui massimamente si affermano i valori di unità, coordinamento, organicità, collaborazione nella vita sociale. L’uomo come persona, secondo tale sistema, che vuol superare sia l’individualismo che il collettivismo (entrambi viziati di materialismo, e quindi mortificanti per lo spirito umano), torna a essere il primo soggetto della vita sociale, il portatore e creatore di valori nell’ordinamento funzionale relativo alle finalità temporali ed eterne nella comunità e società di cui fa parte.
E’ chiaro che tutte le cosiddette attività sociali e tutte le istituzioni da cui vengono canalizzate e servite, prendono un senso nuovo e un giusto posto nel quadro della solidarietà.
Non potranno essere lasciate a se stesse le attività sociali, anche se resterà sempre inviolata la sfera della libera attività individuale, che non può essere oggetto di coordinamento sociale, ma solo di promozione, di aiuto, di protezione; e ancor meno si svolgeranno indipendentemente da ogni ordine e programma le attività degli agenti sociali, siano essi individui (ad esempio dirigenti) o gruppi e classi che hanno un peso nella società in ordine al bene comune. Il solidarismo esige il massimo di unità nel massimo di libertà.
Sarà compito della società e del suo principio unificatore, l’autorità, inculcare nei cittadini i principi della solidarietà e della collaborazione, di ispirarvi le leggi e fondarvi la stessa costituzione dello Stato, e di promuovere, coordinare, disciplinare le attività sociali nel rispetto di quelle esigenze fondamentali, che sono le basi ideali del solidarismo: libertà della persona umana e bene comune.
Don Walter Trovato