“Il buio dietro il sole”: Franz Schubert
Stavo guardando ed ascoltando un breve video in cui Luca Ciammarughi veniva intervistato a Piano City Milano, quando mi è preso questo impulso di scrivere.
Luca ha, così, in tutta serenità e semplicità, dall’alto della sua disparata conoscenza musicale – schubertiana in particolare – espresso alcuni concetti e visioni che hanno perfettamente incontrato le stesse mie impressioni.
Impressioni e ipotesi che mi sono fatto a suo tempo, quando il mio percorso di studi musicali mi ha portato ad avvicinarmi “seriamente” alla figura di Schubert, affrontando la sua Sonata in La minore D784.
Non conosco molto della vita di Franz Schubert.
Senza vergogna aggiungo anche che credo di ricordare molto poco, e che quanto so è quel che si può trovare nei più comuni libri di storia della musica o affini.
Quel che ricordo sono bagliori isolati, concetti sparsi che, probabilmente, nel mio inconscio hanno un loro senso, seppur tratteggiato.
“Maestrino”, ricordo: un vezzeggiativo di cui tanti anni fa mi disse un mio maestro di pianoforte.
A quanto pare, così era spesso velatamente – ma neanche troppo – sbeffeggiato Schubert da certi suoi contemporanei: in un’epoca in cui il fantasma beethoveniano imperava ancora profondamente sul mondo musicale.
Ricordo di aver letto della “gavetta” di voce bianca di Schubert, della sua voce apprezzatissima e del suo amore per la vocalità, la quale, guarda caso, ha ispirato un numero a quattro cifre di lieder.
Ricordo che morì giovane, ahimè; ma come Mozart, lasciando a noi posteri una produzione disparata di musica di grandissima importanza.
Fino a una decina di anni fa del repertorio schubertiano – se si escludono le composizioni pianistiche arcinote come i due cicli di Impromptus, i Moments musicaux, la Wanderer-Phantasie, la Sonata D960 e i brani per duo a 4 mani come le Marce militari, la celebre Fantasia in Fa minore e il Divertimento all’ungherese – conoscevo più che altro la musica cameristica.
I quartetti d’archi primi su tutti, i cui i più noti Der Tod und das Madchen (La morte e la fanciulla) e Rosamunde non sono che due ovvi esempi.
Ma anche l’ultimo, pazzesco e meraviglioso, Quartetto in Sol maggiore D887 che, non mi si chieda il motivo, mi riporta spesso alle sfumature del Sestetto per archi n.2 Op.36 di Johannes Brahms (altro compositore di cui amo probabilmente più il lascito cameristico che di altro genere), specialmente nei momenti in cui il tono popolareggiante emerge più spiccatamente.
Conoscevo i due trii con pianoforte, opere monumentali dense e ricche di aspetti interessanti; l’incredibile Quintetto in Do maggiore, sempre per archi, e il ciclo liederistico Winterreise, un vero e proprio viaggio – appunto – non solo nel freddo dell’inverno, ma fuori dal tempo e dal corpo.
Ignoravo quasi tutte le sonate.
Ignoravo le sinfonie e ancor di più la musica sacra.
Ignoravo perché riconoscevo una mia personale fatica a entrare in vero contatto con l’autore, unita all’esiguità delle occasioni nelle quale poterlo ascoltare.
Come dicevo, è stato l’incontro-scontro con la Sonata in La minore D784 a dipanare alcune nebbie e avvicinarmi con un’altra disposizione d’animo alla figura poliedrica e alquanto misteriosa di Schubert.
La D784 non lo rese uno dei compositori più vicini al mio sentire, tantomeno mi fece innamorare perdutamente di tutto quel che ignoravo.
Ma, indubbiamente, creò uno spazio in più; mi diede un’ulteriore ricchezza che a sua volta mi regalò molto.
D’impatto potrei dire che Schubert, ben più di altri – per i quali sarebbe forse più ovvio o prevedibile dirlo – è un compositore con un non-so-ché di “inquietante”.
Anche quando ci propone una melodia dolce e pacifica, dalla fisionomia chiara, o un tema delicato e tranquillo, trasmette allo stesso tempo qualcosa di ombroso e sfuggente.
Non riferendo unicamente alla sonata della quale ho accennato, ma più in generale a tutta la sua musica.
Un po’ come Schumann, che di Chopin una volta disse “cannoni sotto i fiori”, di Schubert si potrebbe dire “il buio dietro il sole”: come un’ambigua smorfia di tensione che cerca di rannicchiarsi dietro un sorriso bonario, o una sorta di freddo alito dietro l’orecchio nel pieno di un momento di pace.
Mi torna alla mente una frase della cantante Björk: “la musica non è questione di stile, ma di sincerità”.
La musica schubertiana è non poco ambivalente: tanto schietta ed eloquente da un lato quanto metaforica ed “equivoca”, diciamo, dall’altro.
La rassegnazione che percepisco quando ascolto, ad esempio, l’apertura della Sonata D960 è qualcosa che non riesco ad ignorare: questo tema così morbido, semplice e pulito, mi restituisce anche un senso di accettazione “passiva”, di arresa, di abbandono a un triste destino forse già annunciato.
Schubert è capace di evocare, con lo stesso motivo, luoghi molto reali e terreni quanto piani molto più elevati e lontani.
La prima volta che ascoltai in disco la Sonata in La minore, interpretata dall’immenso Radu Lupu, rimasi sconvolto, nel primo movimento, dalla ripresa del secondo tema: quell’aura di semplicità popolare che lo rivestiva nell’esposizione si trasforma in qualcosa di ultraterreno, sognante ed elevato al suo richiamo, in La maggiore.
Questo canto rinasce estremamente timido, e dal punto più intimo dell’io; quasi di controvoglia, come se Schubert volesse tenerselo per sé ma si rendesse conto che ormai l’ha scritto e l’ha portato nel piano reale, e lo osservasse, da lontano, andare per la sua strada.
E’ quasi una preghiera, detta con unimi e semplici proprie parole, innocente come un bambino arrossato da un velo di vergogna.
E di nuovo nella D784 ho percepito un aspetto della musica di Schubert, aspetto che anche altri hanno sottolineato: il suo “camerismo”, se così si può dire, la vicinanza con la scrittura per quartetto d’archi o con quella dei lieder.
Spesso al limite della trascrizione.
Tale aspetto pone non di rado parecchi problemi e punti interrogativi con la tastiera, in quanto non sempre è possibile evocare pienamente certe sonorità con il pianoforte.
Diversi passi di questa sonata hanno immediatamente richiamato a me sonorità d’arco – lo stesso motivo iniziale, così essenziale e legato, enunciato con le mani all’ottava, ne è chiaro esempio – o anche di fiati e di voci.
Soltanto il finale può essere considerato un po’ più pianistico, seppure non manchino tessiture adatte a un possibile trio o a una linea di canto con accompagnamento.
Un’altra cosa di cui mi sono accorto, è che la musica pianistica di Schubert non cerca facili virtuosismi, non ama gli effetti strumentali fini a loro stessi, non ha del “biedermeier”.
In un contesto musicale come il primo romanticismo, dove i grandi dominatori della tastiera solcano gli orizzonti (e i palchi dei teatri, o i tappeti dei salotti più in voga), lui percorre e traccia una strada tutta sua, coraggiosamente.
Non ama le parafrasi, gli studi da concerto, le cascate di note vaporose e le scritture “di bravura”.
Trova il suo nutrimento in un terreno in cui l’eloquio narrativo è il fattore predominante.
Schubert si fa cantastorie di situazioni salottiere e di ritiri al limite dell’ascetico.
E’ qui che sento – almeno personalmente – quella sua profonda radice del canto, quella sua voce bianca.
E’ qui che mi accorgo dell’agilità melodica e della disinvoltura costruttiva e discorsiva di Schubert.
Cose che, un po’ più avanti, adotterà il già citato Brahms, il quale ripudierà i funambolismi dei lisztiani (al limite dell’addormentarsi ascoltandoli) e cercherà, nel riappropriarsi di forme più classiche e convenzionali o in un rievocato rigore contrappuntistico, i punti di forza della sua poetica musicale.
Così pare essere Schubert, che fra terra e cielo, inquietudine e riposo, rarefattezza e intensità, rinuncia a tutto ciò che sembra non essergli necessario, curandosi invece di portare avanti l’essenza, l’anima indispensabile della musica.