Pensione, mettiamo la data a dopo la morte del cittadino, così facciamo prima…

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Dal 1° gennaio del 2018, le donne non godranno più di un trattamento di favore rispetto agli uomini per quel che riguarda la data del pensionamento.

Tutti i lavoratori, maschi e femmine, potranno mettersi a riposo una volta superati i 66 anni e 7 mesi di età, purché abbiano alle spalle almeno 20 anni di contributi (o almeno 5 anni se assunti dopo il 1996).

A stabilirlo è la Legge Fornero, la riforma previdenziale approvata in Italia nel 2012 dal governo Monti, che ha introdotto la graduale parificazione tra uomini e donne entro il 2018.

Fino a 6-7 anni fa, infatti, le lavoratrici potevano contare su una finestra di uscita privilegiata, congedandosi dal lavoro 5 anni prima degli uomini (60 anni anziché 65).

Poi è arrivata appunto la Legge Fornero che ha cambiato tutte le regole, rendendo l’accesso al pensionamento molto più gravoso.

A partire dal 2019, sia per gli uomini che per le donne, la soglia di accesso alla pensione di vecchiaia salirà ancora di 3 mesi, fino a raggiungere i 67 anni. Per legge, infatti, l’età pensionabile verrà adeguata ogni 3 o 4 anni alle aspettative di vita della popolazione, che per fortuna sono in crescita grazie ai progressi della medicina. Sempre che, però, qualcuno non schiatti prima, direttamente sul posto di lavoro!!!

Questi sono i requisiti per la pensione di vecchiaia, che matura principalmente in base all’età.

Esiste però anche un altro trattamento che si chiama pensione anticipata, che matura invece una volta raggiunta una determinata quantità di contributi versati, indipendentemente dall’età.

Per la pensione anticipata, le donne hanno conservato un piccolissimo trattamento di favore poiché possono congedarsi dal lavoro con 41 anni e 10 mesi di contributi, 12 mesi prima degli uomini che devono invece raggiungere i 42 anni e 10 mesi di carriera. Infine, sia per gli uomini che per le donne esiste anche la possibilità di ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape (anticipo pensionistico).

Le donne che vogliono ritirarsi dal lavoro a 63 anni con l’Ape Social (l’anticipo pensionistico senza penalizzazioni) avranno un piccolo trattamento di favore, uno sconto sui requisiti contributivi pari a 6 mesi per ogni figlio che hanno dovuto crescere nel corso della loro vita e che spesso ha comportato per loro un sacrificio in termini di carriera.

Il bonus contributivo potrà essere al massimo di due anni.

Dunque, mentre i lavoratori maschi che vanno in pensione con l’Ape Social devono avere 63 anni di età e almeno 30 anni di contributi, le donne con figli potranno mettersi a riposo anche con 28 o 29 anni di carriera alle spalle.

L’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha voluto così accontentare le richieste dei sindacati, che sottolineano da tempo come l’età della pensione di vecchiaia italiana sia ormai la più alta d’Europa, anche per le donne che tradizionalmente hanno goduto in passato delle finestre di uscita dal lavoro anticipate.

Ma è giusto o sbagliato che le donne vadano in pensione prima degli uomini?

Attorno a questo interrogativo si è dibattuto molto negli anni scorsi, anche prendendo spunto da quel che avviene all’estero. In gran parte degli altri paesi europei, infatti, donne e uomini vanno in pensione alla stessa età.

Ci sono poche nazioni che fanno eccezione.

E’ il caso della Gran Bretagna dove le lavoratrici femmine possono ritirarsi a circa 62 anni e mezzo contro i 65 anni degli uomini. Stesso discorso per l’Austria dove le donne si ritirano a 60 anni anziché a 65.

Non ci sono invece trattamenti di favore in altri paesi dove tuttavia – sottolineano i sindacati- l’età pensionabile è più bassa rispetto ai 66 anni e 7 mesi fissati in Italia.

In Spagna e Germania c’è ancora il requisito dei 65 anni per uomini e donne (che salirà gradualmente soltanto nell’arco di un decennio) mentre in Francia la soglia anagrafica resta inchiodata a 62 anni.

A ben guardare, però, la parificazione dell’età pensionabile è un destino ineluttabile per tutti i Paesi. A stabilirlo è infatti una sentenza delle Corte di Giustizia Europea del 2008, che ha vietato ai singoli Stati di fare disparità di trattamento a seconda dei sessi.

Giusto! Peccato che, in Italia, più che privilegiare le donne che vanno in pensione, bisognerebbe riconoscere i loro diritti prima, quando, in sede di selezione per un posto di lavoro, a parità di requisiti con candidati maschi, le donne pagano la colpa di voler fare un figlio.

Quando, al rientro dopo una gravidanza, le donne verificano che il loro diritto alla maternità è incompatibile con l’avanzamento di carriera.

Quando, in caso di contrazione del personale, le prime ad essere messe in mobilità, sono proprio le lavoratrici con figli piccoli…

Quando, se mantengono il loro posto di lavoro, le donne, a parità di prestazioni, percepiscono uno stipendio inferiore rispetto ai loro colleghi maschi… E questo, lo dicono le statistiche!!!

Secondo le statistiche, infatti, in Italia, le donne, non solo hanno di solito stipendi mediamente più bassi, ma hanno anche maggiori difficoltà a fare carriera rispetto agli uomini.

Questo, non tanto per pregiudizi culturali, quanto piuttosto perché sono di solito penalizzate dal punto di vista professionale durante le gravidanze e non riescono a conciliare la vita lavorativa e quella familiare, al punto di essere costrette a licenziarsi.

Dunque, se vogliamo fare le cose giuste, iniziamo prima e non dopo, come al solito in Italia.

E poi, già che ci siamo, ricordiamoci del privilegio, tutto femminile, delle pensionate di curare i genitori ultraottantenni, perché, come non c’erano asili nido quando le donne lavoratrici avevano i figli piccoli, così non ci sono ricoveri adeguati all’allungamento dell’età media della popolazione, adesso che, le stesse donne hanno i genitori anziani….

Antonella Ferrari

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