Se lavoro pagami, altrimenti sei due volte disonesto…

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pagami

Perché non riusciamo a farci pagare per il lavoro che abbiamo svolto?

Siamo a Palermo, ma questa è una storia che si ripete identica a Torino, a Milano, a Roma, a Napoli, a Bologna e per ogni città italiana potrei portarvi il nome di una persona che ha lo stesso problema.

Gente brava, in gamba, molto professionale, tendenzialmente con una pecca:

sono brave persone, di quelle che danno fiducia e che mettono il 100% di loro stessi in ciò che fanno.

In questi giorni su Facebook ho letto l’ennesimo post di un mio contatto che, dopo aver portato regolarmente a termine il suo lavoro, non riesce a farsi pagare dal suo committente.

La cosa paradossale ma comune è che chi non riesce a farsi pagare, nonostante il desiderio di sfogarsi e rivendicare l’ingiustizia subita, non rivela il nome del moroso e, sinceramente, ora che scrivo e inizio la mia riflessione, non so se dargli torto o ragione.

La Sicilia è una terra strana, in un modo o nell’altro noi tendiamo a non parlare anche se abbiamo ragione, è come se dentro di noi ci fosse una regola: non si accusa.

Ed è incredibile.

Una parte della nostra cultura non riesce a rivelare il nome di chi vuole estorcerci soldi non dovuti, un’altra parte non riesce a dire il nome di chi non vuol darci il dovuto.

La cosa surreale è che alla prima pratica, quella dell’estorsione, abbiamo dato un nome, ed è “pizzo”.

Alla seconda, quella della mora, non abbiamo ancora dato un nome, perché ancora non si dice, perché di fronte a un problema del genere, si deve stare zitti.

Come in quelle lingue in cui non esistono certe parole perché non sono nominabili, come in quelle culture in cui, per esempio, non esiste il corrispettivo di uxoricidio.

Non si parla, non si fanno nomi; perché potrebbero esserci delle ritorsioni, perché “certe cose non si fanno” (nel perfetto meccanismo per cui la vittima ha il sospetto di essere nel torto).

E infatti, in piena, assurda, coerenza con tutto questo, chi tace il nome è brava gente, gente per bene ed educata, con una forte etica, di quella che non dorme più per tutta la notte se, quando poggia la testa sul cuscino, si ricorda di non aver pagato il caffè al bar e che il giorno dopo, alle 6,00 del mattino, è davanti la saracinesca del bar con l’euro in mano mentre il barista lo guarda incredulo.

Chi invece pretende o non dà, ha tendenzialmente il profilo del malfattore, della persona marcia e profittatrice, sepolcri imbiancati con una vita sociale di ostentato benessere e una rete di amicizie che fanno la fila per stargli accanto e avvalorare il finto lustro.

Eppure, pensandoci questa sera, mi accorgo di una cosa sconcertante che, a prescindere da chi sia la parte lesa e la parte prevaricatrice, entrambe sono due aspetti della mentalità mafiosa: la vittima e il carnefice.

La prima è quella che subisce la mafia, la seconda, chi la pratica attivamente.

In sostanza, entrambi alimentano il meccanismo mafioso: senza l’uno, non ci sarebbe l’altro.

Senza chi tace, il malvivente non verrebbe nascosto.

E lo sappiamo bene in Sicilia, perché, ad un certo punto, quando i primi eroi hanno rotto il silenzio, lo hanno fatto per sempre e hanno insegnato a tutti che è normale parlare e hanno divelto il meccanismo.

Per molti aspetti, noi Siciliani, abbiamo imparato ad abbattere il tabù del silenzio e siamo stati bravi e siamo stati un esempio.

La mafia non ha a che fare con noi, c’è stato chi le ha dato un colpo mortale.

Ma la cultura radicata, presa da spirito di sopravvivenza, esce dalla porta e rientra dalla finestra.

Come nei miti, dalla ferita mortale di un demone schizza della materia marcia che si attacca agli esseri viventi e vuole infestarli.

Dalla mafia è schizzato via qualcosa che vuole corrompere in modo silente chi stava attorno: e questa è la mentalità mafiosa.

Non è stata una nostra scelta, si è trattato quasi di una circostanza, la mentalità mafiosa è rimasta un po’ attaccata ai nostri abiti perché eravamo lì, sul luogo ed è insidiosa, vuol esser seducente; mette gli abiti del comportamento comune e a volte ci vuole tempo per vederla.

La mentalità mafiosa ha uno scopo: desidera ristabilire l’equilibrio tra i genitori primordiali, la vittima e il carnefice.

Chi tace e chi prevarica.

Trova però un ostacolo: noi siamo contro la mentalità mafiosa e non intendiamo permetterle di germogliare.

In questo articolo ho parlato della mafia e della Sicilia perché noi siciliani siamo avvantaggiati, noi abbiamo avuto esperienza e per questo abbiamo una responsabilità in più nei confronti dei più deboli e inesperti.

Noi siciliani la mafia l’abbiamo vista e, per questo, sappiamo riconoscerla e così, quando vediamo questi atteggiamenti mafiosi abbiamo la fortuna di accorgercene prima di altri e abbiamo il dovere morale di avvisare tutti gli altri.

A volte abbiamo bisogno di un secondo in più per vederla, perché a volte siamo addormentati anche noi, siamo presi dall’uso comune; ma poi, ad un tratto, qualcosa non ci torna e realizziamo che nell’aria c’è puzza di mentalità mafiosa e lo dobbiamo dire chiaramente e a voce alta perché molti, chi non ha avuto la fortuna di nascere in Sicilia, non lo sanno: sentono un odore strano nell’aria, storcono il naso, si guardano tra loro ma non riconoscono la puzza, pensano che sia qualcosa di passeggero o che sia un odore naturale, qualcosa che però non ha a che fare con loro, e si sbagliano.

Noi invece lo riconosciamo e possiamo dire “è puzza di mafia”.

E quindi, tornando a bomba sull’articolo, il punto non è più chiedersi perché non veniamo pagati per il nostro lavoro, non è tanto il fatto di attivare una serie di soluzioni come farsi pagare prima, scrivere contratti su contratti, provare la bontà del lavoro svolto, firmare accordi e stipulare fidejussioni…

Non è scomodare la psicologia da social network e dire che, se non riusciamo ad avere i nostri soldi, è perché non pensiamo veramente di meritarli.

Il punto è che chi non paga il lavoro svolto è un mafioso.

Chi vuole sfruttare il lavoro di professionisti capaci, è un mafioso.

Chi nega il vero e spergiura la propria stessa parola, è un mafioso.

E bisogna dirlo, e bisogna fare i nomi, perché senza vittime, non esistono carnefici.

Chi non paga per il lavoro svolto è un mafioso, chi lo difende rallenta il progresso e disonora gli eroi.

 


Puoi leggere altri post di Chiara Sparacio su https://chiarasparacio.wordpress.com

 

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